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Se la libertà diventa una condanna

Scontata la condanna, per gli ex detenuti il reinserimento nella società può diventare molto difficile. Si ritrovano abbandonati dallo stato, senza alternative e per di più in un mondo molto diverso da quello che avevano lasciato. Storie di persone per le quali la libertà può diventare una seconda pena.

di Gabriele D’Angelo

Scontata la condanna, per gli ex detenuti il reinserimento nella società può diventare molto difficile. Si ritrovano abbandonati dallo stato, senza alternative e per di più in un mondo molto diverso da quello che avevano lasciato. Storie di persone per le quali la libertà può diventare una seconda pena.

Poco prima di salutarlo, i compagni di cella lo avevano avvisato: “Tu non hai idea. Fuori troverai un muro, la non libertà”. “Non ci volevo credere, ma avevano ragione”. La “seconda pena”, come la chiama lui, Santo la sta scontando a Castelvetrano, in provincia di Trapani, dove è nato e cresciuto.

È tornato a casa nell’ottobre del 2019, dopo sette anni in cella tra il carcere di Palermo e quello di massima sicurezza di Badu e Carros in Sardegna. Una volta fuori lo stato lo ha lasciato solo. “Il reinserimento sociale non c’è. Ho chiesto e cercato ogni tipo di lavoro, anche il più umile”, dice all’Essenziale. Ma per un ex detenuto di 60 anni è molto difficile farsi assumere, specie in Sicilia, dove il lavoro è poco per chiunque.

Solo qualche settimana fa, con l’aiuto dell’associazione Yairaiha Onlus, Santo ha trovato un impiego a Trapani: “Per fortuna avevo mia madre, mia moglie, due figlie e una casa ad aspettarmi, altrimenti in questi tre armi non avrei avuto di che vivere. Ma chi non è fortunato come me, come fa?”. Fa come Nicola Lovaglio, 46 anni, più della metà trascorsi tra carceri minorili, prigioni e istituti psichiatrici di tutta Italia. Un’infanzia difficile e quasi trent’anni di detenzione hanno segnato il corpo pieno di tatuaggi, ma le cicatrici più profonde sono nella sua testa.

Dal carcere è uscito con diverse patologie psichiatriche (disturbo borderline e bipolare, schizofrenia, comportamenti aggressivi), che riesce a tenere a bada solo assumendo ogni giorno dei farmaci. È entrato e uscito di prigione 22 volte, l’ultima dalla casa circondariale di San Gimignano (Siena), a inizio 2021. Oggi vive da solo in un appartamento in affitto e le sue giornate si ripetono identiche da più di un armo, come se fosse ancora dentro.

“Mi alzo, vado al centro d’igiene mentale o al servizio per le tossicodipendenze (Sert) a ritirare la terapia, mangio, mi alleno e torno a casa. Non ho un soldo, non conosco nessuno, vivo chiuso in casa. Sono di nuovo un detenuto”, racconta. Oltre alla pensione d’invalidità civile, che gli è stata assegnata per via dei suoi problemi psichici, dallo stato non è arrivato alcun aiuto: “Ma quale reinserimento! Mi hanno abbandonato in mezzo alla strada in un mondo completamente diverso da quello che avevo lasciato.

Certo, ho fatto tanti errori nella mia vita, ma ho anche pagato quel che dovevo pagare. Perché non possiamo rimettere la palla al centro e ricominciare da zero?”. Santo e Nicola sono solo alcuni dei tanti ex detenuti che una volta fuori faticano a reinserirsi nella società. Lo stato dovrebbe prepararli alla libertà, ma molto spesso questo percorso manca.

Lo sa bene anche Gianfranco De Gesu, a capo della direzione generale dei detenuti e del trattamento del dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), che il 18 marzo ha inviato ai direttori di tutte le carceri italiane una circolare che aveva come oggetto proprio il “trattamento dei dimittendi”, le persone prossime alla liberazione. Dopo aver ricordato come “la cura delle dimissioni sia un tassello fondamentale per il percorso di inclusione sociale del detenuto”, De Gesu elenca una serie di provvedimenti ed enti pubblici che dovrebbero occuparsene. Tra questi vengono menzionati anche i consigli di aiuto sociale, a cui si raccomanda di comunicare la data d’uscita del detenuto “con almeno tre mesi di anticipo”.

“Peccato che questi organi, di fatto, non esistano più”, fa notare all’Essenziale Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino. Introdotti dalla legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, i Consigli di aiuto sociale dovevano essere una cerniera tra carcere e mondo esterno. Tra i loro compiti c’era quello di favorire l’aumento delle visite negli ultimi mesi di carcere, aiutare i detenuti a riallacciare i rapporti con le loro famiglie, offrire corsi di avviamento professionale, trovare ai detenuti lavori dignitosi e utili al reinserimento nella società.

Ma la legge è rimasta inapplicata, e quasi mezzo secolo dopo l’unico consiglio sociale ancora in funzione in Italia è quello di Palermo, che solo pochi mesi fa ha ripreso le sue attività sotto la guida del magistrato Antonio Balsamo.

“Il consiglio non si riuniva da almeno vent’anni. Nemmeno io sapevo che esistesse”, racconta all’Essenziale. Oltre ai Consigli di aiuto sociale, ad accompagnare i detenuti verso il reinserimento dovrebbe essere anche la Cassa delle ammende. Istituita durante il ventennio fascista, è finanziata da due fondi: il fondo patrimonio, che raccoglie le somme derivanti dalle sanzioni pecuniarie disposte dal giudice, dalla vendita dei manufatti realizzati dai detenuti e dei corpi di reato non reclamati; e il fondo deposito, che conta sui soldi delle cauzioni ordinate dai magistrati e gli averi che non sono stati chiesti indietro da chi esce dal carcere. Le risorse raccolte servono a finanziare progetti di reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, internati o persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Ma i reclusi che vengono davvero coinvolti in questi percorsi sono una minoranza.

Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato dalla stessa cassa delle ammende, al 15 gennaio solo 3.000 dei 9.000 destinatari individuati erano stati inseriti nel Programma nazionale per l’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale, che offre percorsi di formazione e reinserimento lavorativo peri detenuti ed è il più importante dei quattro programmi nazionali finanziati dalla cassa e dalle regioni. Gli altri tre riguardano le misure alternative alla detenzione, il lavoro penitenziario professionalizzante e l’assistenza alle vittime di reato. Ma in totale coinvolgono appena altri 900 detenuti.

“Il problema c’è, è innegabile”, ammette Sonia Specchia, segretaria generale della Cassa delle ammende. Per risolverlo, spiega, andrebbe migliorata la comunicazione tra i diversi soggetti pubblici che hanno il compito di dare concretezza ai progetti di reinserimento, che sono gli enti locali (regioni, comuni e aziende sanitarie), gli uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uepe), i provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria (Prap) e i centri per la giustizia minorile. Una selva di uffici e burocrazia di cui detenuti ed ex detenuti sanno poco o niente, e in cui molti progetti per il loro reinserimento finiscono per perdersi.

“Quello che possiamo fare noi”, dice Specchia, “è comunicare che la persona sta uscendo e ha seguito un percorso, ma poi la presa in carico la fa il territorio. E qui spesso manca l’organizzazione. Dobbiamo migliorarla per aumentare l’efficacia e l’efficienza dei nostri programmi. Perché un maggior reinserimento sociale dei detenuti significa anche maggior sicurezza, per tutti”. Tra i vari programmi della cassa delle ammende ce n’è uno che punta a favorire l’accesso alle misure alternative al carcere, cioè la liberazione anticipata, la semilibertà (la possibilità per il detenuto di trascorrere parte della sua giornata fuori dal carcere), la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali o a un datore di lavoro privato.

Secondo il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, il ricorso alle misure alternative è fondamentale per favorire un reinserimento graduale nella società.

Ma alcuni dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mostrano che questi strumenti vengono utilizzati ancora molto poco. “Il 22 aprile”, spiega Palma, “nelle carceri italiane c’erano 1.252 persone condannate a una pena inferiore a un anno, 2.398 da uno a due anni, 3.837 da tre a quattro anni. Che ci fanno ancora lì? Dove sono le misure alternative di cui ci riempiamo tanto la bocca?”. Spesso vengono autorizzate solo grazie all’intervento dei garanti regionali e comunali dei detenuti o delle associazioni di volontariato.

E in alcuni casi non bastano ad assicurare il reinserimento. Giovanni, che per ragioni di sicurezza chiede di tenere riservato il cognome, ha passato quasi undici dei suoi 38 anni nelle carceri di Poggioreale, Secondigliano, Larino di Campobasso, Benevento, Sulmona, Monza e Alessandria. Poi ha deciso di collaborare con la giustizia e ora sta scontando gli ultimi sei anni di pena ai domiciliari. Ad aprile del 2018 lo stato lo ha inserito nel programma protezione testimoni e lo ha aiutato a trovare la casa dove vive con la moglie e le due figlie di 16 e 14 anni. Poi, più nulla. “Mi sono ritrovato a non poter neanche pagare il condominio”, racconta.

“Ero disoccupato, percepivamo solo un sussidio di 500 euro al mese per la disabilità grave di una delle mie bambine. Non sapevamo come andare avanti”. Nel 2020 Giovanni è uscito dal programma di protezione e si è messo in cerca di un lavoro con cui mantenere la famiglia. Lo ha trovato pochi mesi dopo, ma solo grazie alla Caritas: “Mi hanno segnalato un tirocinio al banco alimentare, dove poi sono stato assunto e lavoro ancora oggi. Se non mi avessero aiutato loro probabilmente sarei ancora disoccupato, perché una volta fuori lo stato ti abbandona.

Se non sei forte e non hai nessuno che possa aiutarti sei con le spalle al muro, puoi solo tornare a commettere reati”. Anche Antonio Falcone la pensa allo stesso modo. Ha 28 anni ed è originario di Pollena Trocchia, piccolo comune a pochi chilometri da Napoli. Ha trascorso tredici mesi dietro le sbarre a Poggioreale e Aversa, per alcuni reati minori.

Poi ha conosciuto Pietro Ioia, il garante dei detenuti di Napoli, che lo ha aiutato a trovare un lavoro e ha ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Ora ripara motociclette in una piccola officina. “Sono uscito il 4 febbraio”, racconta, “e il 5 ero già al lavoro. Ma se non ci fosse stato zio Pietro (come lo chiama lui, nda) avrei dovuto farmi altri 32 mesi di carcere. Sono molto fortunato, tanti ragazzi come me non hanno questa possibilità”.

Falcone ricorda bene il giorno in cui è uscito di prigione: “È una sensazione che non sì può spiegare, bisogna viverla. Per un ex detenuto l’impatto con la libertà è molto forte, fa male. Il lavoro è l’unico modo per gestirlo e riuscire a farcela. Se quando esci resti solo e disoccupato, è molto probabile che tornerai a delinquere”. I dati sulla recidiva sono forse gli unici utili a valutare l’operato dello stato per il reinserimento dei detenuti, e sono tutt’altro che positivi. Secondo le statistiche fornite dal dipartimento di amministrazione penitenziaria, oltre 25mila persone detenute al 31 dicembre erano già state in carcere almeno una volta,18.341 fino a quattro volte, 5.649 da cinque a nove, 1.560 oltre dieci.

Spesso, insomma, il percorso di reinserimento non c’è stato o non ha funzionato, e il detenuto alla fine è tornato dietro le sbarre. Secondo Mauro Palma questi dati possono essere interpretati anche in un altro modo: “Quando si parla di recidiva lo si fa sempre per mostrare quanto sia stata inutile l’azione fatta all’interno del carcere. Ma va anche detto quanto è respingente la non azione al di fuori del carcere. La verità è che finché stanno dentro c’è ancora una qualche attenzione per i detenuti. Ma poi, una volta dimessi, per lo stato non esistono più”.

Come Giuseppe, 55 anni, 22 trascorsi in una cella del carcere Opera di Milano. Quando è uscito, nel dicembre 2019, non aveva una casa, un lavoro e persino un documento. La carta d’identità l’ha avuta solo nel maggio 2021, quasi un anno e mezzo dopo, con la residenza fittizia all’indirizzo messo a disposizione dal comune di Milano, visto che viveva ancora per strada, come tanti altri ex detenuti in tutta Italia.

La sua storia l’ha raccontata nella puntata del 23 settembre della trasmissione Radio Carcere, in onda su Radio Radicale: “Dormiamo nei sacchi a pelo sotto ai porticati, mangiamo alla mensa dei poveri, ci laviamo nelle docce comunali. Questa è la vita che facciamo.

Veniamo abbandonati a noi stessi, sbattuti in libertà in un mondo completamente diverso da quello in cui vivevamo prima di entrare in carcere. E io ho ancora paura della libertà. Cammino per strada e ho paura, vado in metropolitana e ho paura, entro in un baro in un negozio e ho paura. Ora capisco quelli che si buttano sotto a un treno o tornano a delinquere per passare l’inverno al caldo in cella. Se fuori è così, tanto vale starsene dentro”.

da L’Essenziale