La linea Minniti-Gabrielli a Taormina. Dove va la “guerra all’umano”
- giugno 01, 2017
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Scontate come non mai, sono giunte alla fine del G7 di Taormina le dichiarazioni “ufficiali” di elogio all’operato della sicurezza. Queste hanno preso forma attraverso la voce di Franco Gabrielli che, a poche ore dalla fine della mobilitazione siciliana, ha riempito di lodi tutti i reparti delle forze dell’ordine impegnati sul “fronte” di Giardini Naxos. «Un dieci tondo» è il voto dato all’intera gestione della sicurezza, che si accompagna con il plauso ufficiale dato dal ministro Minniti al questore di Messina Giuseppe Cucchiara, al prefetto Francesca Ferrandino, a carabinieri, Guardia di finanza e militari.
Gabrielli condisce le sue dichiarazioni insultando pubblicamente i manifestanti che hanno provato ad oltrepassare la “zona rossa”, ricevendo cariche e lanci di lacrimogeni. Azione definita «esercizio di imbecillità da parte di qualcuno». Al di là del fatto che gli insulti di un capo della Polizia potrebbero anche essere considerati “note di merito”, quanto detto da Gabrielli è palesemente falso. In tutte le assemblee pubbliche che hanno preceduto il corteo, tenutesi in Sicilia e nel resto d’Italia, la scelta di «non accettare zone rosse», che concretizzano un mero dispositivo di negazione della libertà di movimento e del diritto a manifestare, è stata dichiarata sempre in maniera pubblica. Un obiettivo politico condiviso, sostenuto da tutti i partecipanti al corteo al di là di chi fosse, in quel preciso momento, alla sua testa. Ma non solo. Il dato che Gabrielli omette, e con lui tutte le testate mainstream, che si sono segnalate per la solita narrazione faziosa, è stato il consenso unanime da parte degli abitanti di Giardini Naxos a tutta la manifestazione, prima, durante e dopo le cariche. Gli applausi a scena aperta al corteo appena giunto sul lungomare, gli striscioni “anti G7” appesi sui balconi, le porte aperte di qualsiasi casa si trovasse lungo il percorso fanno da contraltare a quella netta scissione tra manifestanti ed abitanti che a tanti faceva comodo raccontare. Una visione falsamente costruita grazie alla chiusura, per disposizione ministeriale e comunale, di tutte le attività pubbliche e commerciali, ai cestini rimossi, all’imposizione dello “stato d’emergenza”. Giardini Naxos non è stata quel deserto che la governance dell’ordine pubblico avrebbe voluto creare. Non lo è stata perché chi vive in quel luogo ha rigettato il clima di terrore che era stato prodotto ad hoc, si è riversato in strada, ha accolto e sostenuto i manifestanti. Questo ha svelato, di fatto, chi realmente sia stato percepito come “invasore” nei giorni del G7, ossia quegli individui che si stavano riunendo nella “fortezza-Taormina” – loro si, isolati da tutto il resto – arrogandosi il diritto di “decidere” su migrazioni, guerra, ambiente, economia ed altro.
Tornando alle dichiarazioni di Gabrielli, non stupisce la nonchalance con cui i piani alti della piramide dell’ordine pubblico plaudano alle Questure ed alle forze dell’ordine di tutto il Paese «per la capacità di aver gestito il contro-vertice». Tutto molto coerente con la linea Minniti-Gabrielli che, nel vuoto politico post-referendario, ha contribuito non solamente a mettere la “sicurezza” al primo posto dell’agenda governativa, ma ha affermato una nuova logica del diritto, che sottrae in maniera organica ad ampi strati della società la possibilità di esprimersi, di produrre azioni sociali, di rivendicare spazi di vita. C’è un filo ben visibile in cui si dà corpo politico, giuridico e poliziesco a questa visione. Un filo che parte con la circolare firmata dal ministro dell’Interno e dal capo della polizia lo scorso 30 dicembre – indirizzata a tutte le Prefetture e Questure del Paese, ai comandi di Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria, ma resa pubblica, a guisa di monito, quasi in contemporanea – che rappresenta l’imprinting di una nuova policy dei respingimenti e delle espulsioni dei migranti. Un filo che è proseguito con i “decreti gemelli” sulla sicurezza urbana e sul contrasto dell’immigrazione illegale che hanno reso norma una prassi securitaria che ha da tempo individuato nella pacificazione forzata e nella razzializzazione del corpo sociale i tratti salienti dei nuovi assetti del comando. Il contenimento delle espressioni di dissenso rappresenta, in questa prospettiva, un vero e proprio paradigma nella restrizione degli spazi di libertà soggettiva e collettiva. Se la manifestazione del 25 marzo a Roma aveva reso manifesto un cambio di passo del regime di controllo biopolitico, la quantità sproporzionata di fogli di via che ha connotato sia l’appuntamento di Bari contro il G7 dell’economia, poi quello di Taormina, segnalano il carattere non episodico delle trasformazioni avvenute in seno agli apparati repressivi. Trasformazioni in cui l’azione penale preventiva diventa norma e specchio di una dissoluzione strutturale dello Stato di diritto.
Rispetto alla manifestazione di sabato scorso è necessario aggiungere un altro dato, legato alla possibilità di raggiungere il luogo della protesta. Le pratiche di controllo dei vari mezzi diretti a Giardini Naxos e di identificazione dei manifestanti sono state estenuanti ed ancora più invasive rispetto al recente passato. L’atteggiamento provocatorio della polizia, che spesso ha tentato anche di sequestrare striscioni o bandiere, ha caratterizzato ogni check-in, a testimonianza di una volontà politica di affermazione del potere in tutte le sue forme. Provocazioni che hanno raggiunto il parossismo anche nel corso del corteo, come testimonia il fatto che la scorta di Trump sia stata fatta passare a pochi metri dal concentramento oppure che un’auto della Guardia di Finanza si sia introdotta tra i manifestanti, appena reduci dalle cariche.
La limitazione della libertà di movimento era iniziata già oltre due settimane prima, quando il governo italiano ha deciso di sospendere Shengen nel nostro Paese, impedendo di fatto alla manifestazione di avere quel carattere internazionale che l’importanza del vertice rendeva legittimo e necessario. Per le ragioni appena elencate la rottura di questo dispositivo diventa terreno immediato di investimento da parte dei movimenti, non tanto per una mera logica di sopravvivenza, quanto per una possibilità di aprire una crepa all’interno di questa ideologia securitaria e del suo divenire nuovo ordine sociale e politico.
C’è un ultimo aspetto che ha toccato la gestione dell’ordine pubblico in occasione del G7, relativo al blocco degli approdi navali dei migranti raggiunti dai soccorsi nel mar Mediterraneo. Una decisione che rende ancora più evidente la subordinazione delle ragioni umanitarie rispetto a quelle che agiscono in nome della sicurezza. Il caso-simbolo è quello della nave Vos Prudence, di Medici senza Frontiere, che vedeva a bordo quasi 1.500 migranti salvati dai trafficanti di persone, ma costretti ad allungare di molte ore il tragitto in mare, in condizioni estremamente difficili, proprio per via di questa decisione. La morte di due donne, nel viaggio che ha condotto i migranti dalla Libia al porto di Napoli, assieme alle decine di migliaia di vittime del Mediterraneo, sono l’emblema più visibile della nostra epoca e il prezzo più alto che gli ultimi della Terra pagano nei confronti di quella “guerra all’umano” che proprio l’ideologia securitaria ed il regime dei confini stanno producendo. Un prezzo in cui naufraga qualsiasi retorica della sicurezza, su cui falliscono inevitabilmente tutti i suoi dispositivi e dove quel «dieci tondo» di Gabrielli grida davvero vendetta.