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E se la Loi travail fosse anch’essa una legge sicuritaria?

Lo stato borghese fruga nei nostri portafogli. Dal motto di Robin Hood al suo contrario: l’appropriazione indebita di fondi è legale. Salva le banche. Si mette al servizio della borsa: un babbo Natale dei regali fiscali, una Maria Teresa di Calcutta per le multinazionali. Banchetta con le nostre tasse, non per facilitare le condizioni di lavoro delle infermiere o per assicurare l’uguaglianza sociale tra gli studenti, ma per comprare in massa le munizioni di proiettili di gomma che serviranno a cavarci gli occhi.

Questo stato criminalizza e manda in prigione giovani manifestanti, ma incoraggia le vendite di armi ai regimi autoritari; le stesse armi che senza sosta vengono puntate contro i popoli dai terrorismi di tutto il mondo. Eppure certi personaggi in giacca e cravatta si sono permessi di pavoneggiarsi in tv quando Parigi è stata toccata dall’orrore. Un’inevitabile questione etica si pone: può un politico fare un discorso strappalacrime in televisione in “omaggio alle vittime del 13 novembre”  e allo stesso tempo continuare a sostenere la dittatura di Erdogan? Tanto più che sembra proprio che lo stesso regime turco, avamposto della NATO, fornisca armi a Daesh, anche noto come ISIS, attraverso i servizi segreti.

In poco tempo, tanti fatti di questo genere si sono susseguiti. La Loi sur le reinsegnement, che spalanca le porte al controllo sulle comunicazioni: la Stasi non avrebbe avuto niente da invidiarci, se non il progresso tecnologico della sorveglianza e del controllo.

Piano Vigipirate e diffusione della paura: possiamo sinceramente immaginare che i militari annoiati nelle stazioni e che girano per le nostre strade come anime in pena dallo sguardo sospettoso potrebbero proteggerci da un kamikaze? Ci hanno abituati, piuttosto, alla presenza continua di forze armate nelle nostre città. E questo vuol dire tutt’altro. Il pretesto securitario ha avuto tante utilità coercitive nella storia.

Poi l’État d’urgence, lo stato di emergenza, o come stigmatizzare un’intera popolazione di banlieue, sfondare porte e commettere abusi a volontà su persone di diversa origine, fomentare l’odio, perquisire squat libertari e costringere ai domiciliari degli ecologisti dopo un attentato rivendicato dal Daesh. Buffa concezione dell’antiterrorismo. Costituzionalizzare i poteri (ora non più) “eccezionali” della polizia e prolungare una seconda volta lo stato di emergenza potrebbe quindi essere legato soprattutto a una volontà di mettere a tacere i movimenti sociali una volta per tutte? Tutto porta a crederlo, soprattutto rispetto alla violenza impiegata contro le manifestazioni e la successivà impunità della polizia. Andrà a finire male…

In questo contesto, il governo annuncia un ricorso al 49.3, l’articolo di legge che consente di votare una norma senza il voto parlamentare, per far passare la loi-travail.

Aveva già utilizzato questo potere monarchico per la legge Macron, guazzabuglio degno di un fantoccio, per la gioia di qualche signoria economica. Quanto alla Loi travail, questo Jobs Act alla francese, non è che precarizzazione del lavoro, regressione sociale, un regalo fatto alla ricca imprenditoria e alle sue discriminazioni arbitrarie, una logica che ha già fatto tanto male in altri paesi europei.

Bisognerebbe lavorare di più? Ancora di più? Ma perché? Per aggravare la crisi di sovrapproduzione, provocare nuove catastrofi ambientali, farsi addomesticare fin dalla nostra gioventù dall’ansia e continuare a essere spossessati della politica?

Etimologicamente, democrazia significa potere del popolo; cittadinanza, essere parte integrante della vità della città, del vivere insieme. Se ci fermiamo qui, non ha nulla a che vedere con un pezzo di carta nelle urne ogni cinque anni per eleggere i futuri tecnici al servizio del capitale.

Lavorare di più è avere ogni giorno meno tempo per impegnarsi nella vita in comune. E’ il contrario della democrazia. E’ anche, a volte, lavorare per nulla, se non per il ricatto dei soldi, perché tanti lavori sono completamente inutili, se non nefasti per la società- e non solo nella grande industria. Sono la perdita di tempo e la fatica che ci spingono nei grandi supermercati e davanti ai telegiornali che ripetono senza sosta le stesse cose. E’ il paradigma di uno stato di polizia: l’impossibilità di pensare al di fuori degli schemi tracciati dal potere delle abitudini e del tempo “libero” ma in libertà vigilata, degli hobby comandati. E’ quel che ci può impedire di organizzarci per lottare per strada, di essere numerosi e insieme, di andare a conoscere i nostri vicini, di fare degli orti condivisi, di recuperare, aggiustare piuttosto che comprare, di occuparci dei bambini, cucinare, leggere, impegnarsi per la propria comune, per delle associazioni, nelle arti, di nutrirsi della diversità del mondo, di evitare gli anti-depressivi o di avere semplicemente tempo per divertirsi con gli amici, di intessere le nostre relazioni di fiducia, di costruire insieme qualcosa di nuovo, di riorganizzare le condizioni della nostra esistenza comune contro la mancanza di immaginazione e il fatalismo ossessivo dei nostri dirigenti. Tutte queste belle e ricche attività hanno bisogno di tempo, non di orari né di cartellini da timbrare.

Chi non vuole avere nulla a che vedere con le idee difese un tempo anche dai nazisti sa che il lavoro non rende liberi. Anzi. Più ci vogliono far lavorare, più ci vogliono privare della cittadinanza. E’ un’attacco a qualsiasi possibilità di democrazia diretta. Così lasciamo la vita della città a una casta di politicanti di professione che, oltre a fare qualunque cosa gli passi per la testa, sono spudoratamente al servizio di businessmen integralisti. Questi ultimi, avendo il denaro, hanno il potere in questo mondo che ne ha fatto il suo più grande valore.

Doverci vendere al mercato (del lavoro) fa di noi dei vegetali. Non siamo troppo giovani per questo? Lavorare di più, non è guadagnarsi la vita: è perderla. Perdere la presa sulla sola cosa che dovrebbe appartenerci e che è già tanto fragile: il viaggio che ci porta ineluttabilmente dalla nascita alla morte.

Il generale e stratega Carl von Clausewitz scriveva che lo scopo di una guerra non è annientare l’avversario, ma disarmarlo. E’ proprio così che lo Stato si pone nei confronti della società civile. Non dobbiamo stupirci di avere, nello stesso momento, la Loi-travail e le misure di polizia. Fanno parte della medesima logica. Questo per la grande gioia dei fascistelli che hanno sempre difeso le uniformi del potere contro il popolo, dei vigliacchi  che– confortati dalla propaganda diffusa – si sono sempre messi dalla parte dei più forti contro i più fragili.

Se chi trae beneficio dal vecchio mondo, chiamiamoli padroni, non dice tutto quello che sa, non sa tutto quello che dice e si illude soprattutto su un punto. Non è prendendoci a manganellate e a colpi di lacrimogeni per venderci il neoliberismo di un Milton Friedman, che ci faranno dimenticare Shakespeare. Perché sappiamo che la vita è corta e che, se viviamo, viviamo per camminare sulla testa dei re.

Nathan Brenu

traduzione  e l’adattamento dal francese a cura di Giulia Beatrice Filpi