Lampedusa, Agrigento (NEV), 18 febbraio 2015 – Come operatori di Mediterranean Hope, ormai residenti a Lampedusa da quasi un anno, notiamo come quei giornalisti che girano in questi giorni sull’isola facendo domande ai cittadini del tipo “hai paura dell’Isis?”, stiano dando un pessimo esempio d’informazione e stiano facendo molto male al tessuto economico di questa comunità, che certo non ha bisogno di altri allarmismi. Ancora una volta l’isola torna ad essere il palcoscenico per una classe politica che troppo facilmente si dimentica dei bisogni reali delle persone che qui vivono e lavorano. Lampedusa in questi decenni ha sopportato molto, assenza dello Stato, servizi inefficienti, corruzione, carovita, radar, tragedie che il resto d’Italia non può neanche immaginare, come quella del 3 ottobre 2013. Chiedere ora di prestarsi a recitare la parte dell’isola minacciata per giustificare un intervento armato in Libia ci sembra, francamente, davvero troppo.
Da qui, si può ben notare quanto sia facile accendere il palcoscenico della frontiera per mandare messaggi distorti all’opinione pubblica italiana. Abbiamo visto quanto sia semplice strumentalizzare le morti, le tragedie, le persone che prendono la via del mare per fuggire dalla miseria, da guerre e persecuzioni. Alcuni mesi fa l’allarme mediatico era l’ebola, titoli di giornali e campagne virali sui social network davano per certo che il virus sarebbe arrivato con i barconi. Ora invece è il terrorismo dell’Isis che arriverà, e se non lo farà con i gommoni lo farà con i missili (quali?) sparati dalla Libia da Jihadisti. Sia chiaro, il terrorismo esiste, ma nello spazio globale ogni luogo è raggiungibile dai suoi proiettili, dalle sue bombe. Facendo un banale esempio, la sua violenza arriva molto prima a Parigi che a Lampedusa. I media, però, hanno costruito l’immagine di quest’isola come fosse un imbuto dove tutto può accadere e tutto passa, hanno costruito un’isola talmente grande che potrebbe estendersi all’intero Mediterraneo. Su Lampedusa si addensano tutte le tragedie, anche quelle lontanissime. Questo modello comunicativo non è solo mediatico, è anche una scelta politica precisa che, ancora una volta, fa ricadere sulle spalle della comunità, e della sua Capitaneria di Porto che salva vite in mare, tutte le contraddizioni che interi continenti non sciolgono. Fatti epocali che con difficoltà gestisce uno Stato, sono invece affrontati da una comunità di poche migliaia di persone, che vive per lo più di pesca e turismo.
A volte ci viene da pensare che ci sia una maledizione su questo scoglio, una maledizione che giornalisti e governi riescono a rendere viva nel tempo, ad annaffiare in ogni stagione con nuove campagne della paura. Oggi, mentre scriviamo questo articolo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU discuterà della Libia, ma non discuterà di come costruire un piano internazionale per evitare le morti in mare, non discuterà di come affrontare una tragedia umanitaria mondiale che vede in movimento 50 milioni di profughi. Oggi i governi discuteranno se sia giusto aggiungere una guerra ad un’altra guerra, e ne discuteranno gli stessi attori che per decenni hanno finanziato e fatto conflitti sconvolgendo interi continenti, impoverendo paesi, costringendo milioni di persone a lasciare la propria terra.
Noi siamo convinti che i lampedusani resisteranno alle tempeste mediatiche e continueranno ad andare avanti nonostante tutto. Noi con loro condivideremo questa sfida, questa sorte comune. Lampedusa Porto Salvo non è un luogo semplicemente fisico, è un destino comune per le persone che vivono su questa terra al centro del Mediterraneo.
Marta Bernardini e Francesco Piobbichi da Mediterranean hope