La mancata applicazione delle linee guida sulla tortura
- luglio 06, 2022
- in misure repressive, tortura
- Edit
Tra i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati che vivono in Italia, molti hanno subito torture o trattamenti inumani e degradanti nel Paese d’origine o durante il viaggio verso l’Europa. Ma le Linee guida sulla loro assistenza e riabilitazione rimangono inapplicate. Solo Lazio, Toscana e Piemonte le hanno implementate
di Ilaria Sesana
“In Libia migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti al rischio di sfruttamento, violenza e tortura e altre gravi e ben documentate violazioni dei diritti umani. Dai centri di detenzione, legali e illegali, sparsi per il Paese transitano ogni anno migliaia di uomini, donne e bambini. E l’Italia, principale punto d’approdo per quanti riescono a partire, si trova a dover gestire un numero crescente di persone che portano un carico enorme di sofferenze causate dalle ferite, visibili e invisibili, delle torture”, spiega Silvia Mancini, responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere. Anche l’ultimo rapporto della Missione indipendente delle Nazioni Unite sulla Libia, pubblicato lo scorso 29 giugno conferma la gravità della situazione nel Paese dove torture e stupri “sono pratiche costanti” all’interno dei centri di detenzione dei migranti in Libia “utilizzati come mezzo di intimidazione, punizione, umiliazione o sfruttamento”.
Per dare una risposta adeguata alle esigenze specifiche di queste persone l’Italia ha adottato nel 2017 le “Linee guida per l’assistenza, la riabilitazione e il trattamento dei disturbi psichici dei rifugiati e delle vittime di tortura”, elaborate dal ministero della Salute, il cui obiettivo è quello di favorire l’individuazione precoce dei bisogni dei richiedenti asilo e dei rifugiati per garantire una presa in carico efficace all’interno delle strutture del sistema sanitario nazionale. Ma a cinque anni di distanza, la loro attuazione continua a essere estremamente limitata: solo tre Regioni -Lazio, Toscana e Piemonte- le hanno implementate. “A pochissime esperienze virtuose che traducono in azione le raccomandazioni contenute nelle Linee guida, formalizzando la costituzione di reti di servizi e collaborazioni tra servizio pubblico e terzo settore, si affiancano una moltitudine di esperienze locali che, pur animate dalla volontà di fornire una risposta a un bisogno emergente e ben noto, hanno il grosso limite di fondarsi per lo più su iniziative individuali e su reti informali di collaborazione”, si legge nel report che Medici Senza Frontiere ha dedicato al tema ad aprile.
Se le Regioni latitano, resta centrale il ruolo del privato sociale e del Terzo settore che spesso “suppliscono alla carente disponibilità di servizi pubblici dediti all’assistenza sanitaria di questa specifica popolazione”. Ma a queste realtà -sottolinea il report– non può essere delegata la realizzazione di interventi complessi e multispecialistici come la presa in carico delle vittime di tortura.
“Le Linee guida presentano alcuni tratti innovativi -spiega Mancini-. Si rivolgono non solo ai rifugiati ma anche ai richiedenti asilo, includendo anche i minori. Riconoscono la condizione di vulnerabilità di una fascia di popolazione che ha bisogni complessi e che necessita un team dedicato”. Le Linee guida si pongono come documento di indirizzo, con lo scopo di definire modalità operative uniformi sul territorio nazionale. Ma per essere realmente operative necessitano di un recepimento normative da parte delle singole Regioni che, oltre al quadro normativo, devono dotarsi di personale qualificato e soprattutto risorse finanziarie ad hoc per garantire stabilità e continuità al servizio. “In questo modo la persona vittima di tortura viene inserita in un percorso all’interno del sistema sanitario nazionale, che garantisce la continuità nel tempo della presa in carico”, sottolinea Mancini.
La situazione tra le Regioni è estremamente variegata. Nel Lazio è attivo da anni il Centro migranti forzati SaMiFo nato nel 2006 dalla collaborazione tra l’Asl Roma 1 e il Centro Astalli, che promuove attività di assistenza medico-psicologica ed è altamente specializzato nella presa in carico di persone con esiti post-traumatici. Inoltre, all’interno dell’équipe del servizio è presente un servizio di mediazione legale strutturato; l’assistenza medica ai richiedenti asilo e rifugiati è onnicomprensiva e prevede anche la parte medico-legale per la certificazione degli esiti fisici e mentali della tortura. A questa struttura si affiancano numerose associazioni come Medici contro la tortura (attiva dal 1991), e il progetto Psyché di Medici per i diritti umani.
In Piemonte, l’Asl Torino 3 si è mobilitata per l’attivazione di un’équipe multidisciplinare costituita da psichiatra, psicologo, medico di medicina generale, infermiere, ostetrica, assistente sociale e mediatore culturale. Un gruppo di lavoro che viene rafforzato da operatori legali e sociali. “Nel documento -sottolinea Msf- vengono definiti i ruoli e i compiti del servizio pubblico e della rete coinvolta, sono presenti case manager e operatori con funzioni di coordinamento e monitoraggio”. Ultima Regione ad aver implementato le Linee guida è la Toscana: nel corso degli anni sono stati attivati diversi progetti finalizzati alla presa in carico dei migranti ma “solo alcuni distretti Asl sono maggiormente pronte a dare risposte sul tema”, sottolinea il report. Che evidenzia come Centro per la salute mentale di Prato sia quello più sensibile al tema e vede all’interno della sua équipe la presenza di etnopsichiatri e psicologi con una formazione dedicata. Sulla buona strada anche la regione Marche che, con l’adozione di una determina del direttore dell’Area vasta dell’Azienda sanitaria unica regionale del febbraio 2018 ha stabilito l’avvio di un modello sperimentale di presa in carico di migranti forzati vittime di violenza fisica, sessuale, psicologica e torture fisiche o psichiche.
A queste quattro Regioni se ne affiancano altre cinque (Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna e Sicilia) che non hanno ancora implementato le Linee guida nazionali ma che nel corso del tempo hanno costruito buone prassi mettendo in rete il servizio pubblico con realtà del privato sociale. A Milano, ad esempio, è attivo dal 2000 l’ambulatorio transculturale dell’Ospedale Niguarda attorno a cui opera la Rete milanese vulnerabili composta da vari partner tra cui il Comune di Milano, il servizio di etnopsichiatria, l’università degli Studi di Milano, la neuropsichiatria infantile dell’ospedale Policlinico e alcuni enti del terzo settore. In Emilia-Romagna è attiva da anni sul territorio di Parma una buona collaborazione tra l’Asl locale e l’associazione Ciac onlus che ha portato, nel 2017, alla firma di un Protocollo d’intesa capace di garantire assistenza socio-sanitaria di qualità attraverso un’estesa rete di attori territoriali e non.
In Sicilia, isola interessata da anni dagli sbarchi, sono attivi ambulatori transculturali a Catania e Caltagirone. A Palermo è attivo dal 2020 il progetto di Medici Senza Frontiere sviluppato in collaborazione con l’Asp, l’Università di Palermo e alcune realtà del terzo settore che, attraverso una partnership pubblico-privato mira a realizzare percorsi di presa in carico e assistenza multidisciplinare integrata per le persone sopravvissute alla tortura. “Il nostro obiettivo è riabilitare la persona sotto tutti i punti di vista: da quello fisico a quello psicologico. I pazienti che arrivano qui non hanno bisogno di cure mediche immediate -spiega Edmond Tarek Keirallah, responsabile del progetto- noi li accompagniamo nel percorso all’interno del sistema sanitario nazionale per dare una risposta a tutte le esigenze”. Nel corso degli ultimi mesi le richieste d’aiuto sono aumentate: “Oggi abbiamo 45 pazienti in carico, il doppio rispetto al periodo novembre-dicembre, e 25 sono in lista d’attesa -spiega il responsabile del centro-. Il numero di persone che possiamo seguire è limitato e i percorsi possono essere molto lunghi, fino a un anno”.
da altreconomia