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La non-vita carceraria: il suicidio tra le sbarre

Daniel Monni e Carmelo Musumeci scrivono per dare voce a chi s’è tolto la vita in carcere

 “Quando hanno aperto la cella, era già tardi perché, con una corda sul collo freddo pendeva Miché […] lo avevan […] condannato…vent’anni in prigione a marcir…però adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir” -DE ANDRE’ F., La ballata del Michè

            La necessità di rendere invalicabili, quantomeno, alcuni “confini” della vita umana è espressa nella celeberrima tragedia di Sofocle nella quale Antigone, contravvenendo ai decreti di Creonte, decide di seppellire il corpo del fratello Polinice:

Creonte– Hai potuto spezzare norme mie?

Antigone– Ah sì. Quest’ordine non l’ha gridato Zeus, a me; né fu Diritto, che divide gli dei l’abisso, ordinatore di norme come quelle, per il mondo. Ero convinta: gli ordini che tu gridi non hanno tanto nerbo da far violare a chi ha morte in sé regole sovrumane, non mai scritte, senza cedimenti. Regole non d’un ora, non d’un giorno fa. Hanno vita misteriosamente eterna. Nessuno sa radice della loro luce. E in nome d’esse non volevo colpe, io, nel tribunale degli dei, intimidita da ragioni umane. Il mio futuro è morte, lo sapevo, è naturale: anche se tu non proclamavi nulla. Se prima del mio giorno morirò, è mio interesse, dico: uno che vive come me, tanto in basso, e soffre, non ha interesse nella fine? E così tocca a me: fortuna, di quest’ora di morte, non dolore. Lasciassi senza fossa, per obbligo, la salma, quel frutto di mia madre spento, quello era dolore: ma il mio presente caso, ah no, non m’addolora[1]”. Antigone decise, in buona sintesi, di violare le norme legiferate da Creonte sulla base di regole “misteriosamente eterne” che, in quanto superiori, non potevano essere soffocate da leggi contingenti.

            Fuori dalla tragedia(?), si può dire che, anche oggi, le leggi contingenti devono trovare, soprattutto nel diritto carcerario, un confine invalicabile: la dignità umana. Per quanto possa apparire paradossale, infatti, è proprio all’interno del carcere che il diritto deve limitarsi ed evitare la coercizione dell’ultimo baluardo d’una vita costretta in vincoli e, per tale ragione, vulnerabile: chi è ristretto in carcere non può, ragionevolmente parlando, aspirare alla libertà nel momento in cui perde anche la dignità.  Esiste una “porzione” della libertà individuale, infatti, che deve ritenersi intangibile per qualsiasi potere e coincide con la dignità: è pacifico, infatti, che “lo stato costituzionale temporaneo trova la sua premessa antropologico-culturale nel riconoscimento e nella tutela della dignità umana. Essa riassume in sé i valori fondamentali dell’ordinamento e si pone come fonte di legittimazione generale di ogni tipo di autorità. In questo senso, la dignità della persona è il punto archimedico di tutto il sistema costituzionale dei diritti e dei poteri[2]”. Non è forse un dato di fatto, d’altronde, la circostanza che “lo stato p[ossa] chiedere ai cittadini il sacrificio o, quanto meno, il rischio concreto della vita, quando sia necessario difendere la patria (art. 52, primo comma, Cost.) da un’aggressione […] [e che, tuttavia] non [sia] mai possibile […] che lo stato chieda il sacrificio della dignità[3]”?

            L’attenzione dei media si è recentemente concentrata sulla, non altrettanto recente, problematica dei suicidi all’interno delle carceri: tutto ad un tratto diventa apparentemente difficile, per i più, comprendere le ragioni di così tanti gesti estremi. A ben vedere, tuttavia, i suicidi sembrano essere figli delle grevi e gravi carenze che affliggono l’istituzione all’interno della quale si consumano: ci siamo mai, veramente, chiesti quale vita venga “concessa” ad un carcerato? Sembra esistere la pericolosa convinzione secondo la quale il concetto “vita” possa essere scisso da quello di “dignità” e che entrambe possano essere soppresse, in via emergenziale e non, a vantaggio alla sicurezza sociale: vita e dignità, invece, s’appartengono reciprocamente e la prima, in assenza della seconda, diviene una “non-vita”. Il sovraffollamento carcerario, l’evanescenza del portato rieducativo della pena e, a ben vedere, l’illogicità stessa dell’ideale carcerocentrico, che vede nel carcere la regina delle pene e lo vorrebbe idoneo a placare qualsivoglia “male” della società sana sono tutti elementi che contribuiscono a rendere la pena carceraria una pena inumana che valica i confini della vita umana intaccandone la dignità: il carcere sta, in sostanza, degradando “vite” a mere “non vite” prive di dignità. Sorprende realmente constatare l’insorgere di numerosi suicidi all’interno di un’istituzione “totalizzante” e degradante come il carcere? Se il carcere lascia ai suoi “cittadini” unicamente delle “non vite” fino a che punto si può parlare di suicidio?

Il timore che affligge chi scrive è che, come in altri casi, l’attenzione dei media ai suicidi carcerari sia dettata dall’avanzare di una stagione che, per sua natura, è destinata a passare rapidamente: finché Antigone seppellirà Polinice, tuttavia, esiste la speranza che il carcere cesserà di attrarre a sé vite umane.

Dottor Daniel Monni

 

Il carcere sa “convincerti” a toglierti la vita

    Una persona che legge i miei articoli in internet mi ha detto che non le piace come e quello che scrivo, perché parlo sempre male del carcere. Ho sorriso (i sorrisi sono le “armi” migliori per il mio cuore) e ho risposto che in fondo il carcere non è poi così crudele e cinico come appare, perché esegue solo il compito per cui gli uomini l’hanno programmato: ripagare il male con altro male.                      Secondo il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, nel primo semestre del 2018 ci sono stati nelle carceri italiane 5.157 atti di autolesionismo, 46 morti per cause naturali, 24 suicidi e 585 tentativi di suicidio sventati in tempo (Fonte: www.repubblica.it).

In questi giorni pensavo che i detenuti conducono la vita più “sicura” al mondo, forse anche perché è difficile che facciano un incidente stradale, eppure i dati confermano che i detenuti muoiono e si tolgono la vita più delle persone libere. Nessuno però dice nulla sul fatto che hanno buoni motivi per farlo, perché il carcere in Italia non insegna molte cose, ma una cosa la sa fare molto bene: sa “convincerti” a toglierti la vita. Spesso i detenuti si domandano perché devono continuare a vivere anziché farla finita con una vita che molto spesso è un inferno. Per un detenuto a volte è più importante morire che vivere, per mettere fine allo schifo che ha intorno. Purtroppo, spesso in prigione la vita è un lusso che non ti puoi permettere e per smettere di soffrire non puoi fare altro che arrenderti, e in molti casi nelle nostre “Patrie Galere” vale più la morte che la vita.

Possibile che i nostri politici non si domandino perché molti detenuti preferiscono morire piuttosto che vivere? Io, che ho trascorso la maggior parte della mia vita in carcere, lo so. Alcuni detenuti si tolgono la vita perché l’Assassino dei Sogni (come io chiamo il carcere) non risponde mai ai loro appelli disperati; altri lo fanno per ritornare a essere uomini liberi, anche se liberano solo lo spirito; alcuni s’impiccano alle sbarre della loro finestra perché fuori non hanno niente e nessuno ad attenderli. Credo, insomma, che molti detenuti si tolgano la vita in carcere non perché siano stanchi di vivere, ma perché amano tanto la vita e non accettano di vederla appassire e distruggere dentro le mura di un penitenziario. E allora non è forse anche questa una forma di legittima difesa? Uccidersi non è facile, ma vivere nelle patrie galere italiane è ancora più difficile. Per questo nelle carceri italiane si continua a morire. E nessuno fa nulla. Quasi nessuno parla o scrive del perché in carcere siano così in tanti a togliersi la vita. I nostri politici dovrebbero sapere che in carcere si muore in tanti modi: di malattia, di solitudine, di sofferenza, di ottusa burocrazia e d’illegalità. Per questo a volte ammazzarsi diventa una vera e propria necessità. E questa non è una libera scelta, come alcuni cinici potrebbero pensare, ma è legittima difesa contro l’emarginazione e la disperazione. Credo che sotto certi aspetti sia più “normale” e razionale chi si suicida, rispetto a chi continua a vivere nella sofferenza. Ho sempre compreso i prigionieri che scelgono di farla finita, perché quando la vita ti offre solo infelicità è durissimo continuare a vivere.

Carmelo Musumeci

Agosto 2018

[1] SOFOCLE, Antigone, vv. 370 e ss.

[2] SILVESTRI G., Intervento conclusivo del seminario “Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU”, Roma, 28 maggio 2014, pagina 1

[3] SILVESTRI G. op.cit., pagina 2