Menu

La pandemia ha giustificato nuove forme di sorveglianza di massa. Anche più di quante pensiamo.

La pandemia di COVID-19 ci ha posti in una condizione simile a quella del gatto di Schrödinger: ipotizzando di essere possibili portatori del virus dobbiamo prendere tutte le precauzioni per non contagiare il prossimo; e supponendo di non averlo ancora contratto dobbiamo invece tutelarci; in entrambi i casi dobbiamo seguire una serie di attenzioni ben precise. Al centro di questa cornice c’è ovviamente il nostro corpo e il significato che ha all’interno del sistema politico. Proprio per controllare questa sua vulnerabilità, le politiche anticontagio lo hanno reso oggetto di precise misure che, come alcuni hanno fatto notare fin dall’inizio, dal mantra dell’iorestoacasa alla sorveglianza militare, dai principi di distanziamento sociale ai propositi di “contact tracing”, hanno condotto a un’esasperazione del discorso biopolitico in nome di un nuovo controllo sociale.

Spogliata dalla connotazione capitalistica in cui l’aveva calata Foucault, da anni ormai l’analisi biopolitica ha dovuto fare i conti con gli assetti neoliberisti delle nostre società, dove il singolo individuo, alle prese con gli effetti della globalizzazione, di un mercato oggetto di logiche multinazionali e grandi gruppi finanziari, ha perso di vista il suo reale contributo alla produttività sociale. A essere sotto continua osservazione non è più il corpo biologico in carne e ossa, ma la produzione incessante di dati, informazioni e comportamenti digitali che questo corpo genera. È su queste produzioni immateriali, costantemente lette, catalogate e analizzate che agisce il nuovo psicopotere. È un’egemonia che seduce e allinea. È un sollecito suggerimento di idee, modi di pensare e abitudini da condividere. Un fenomeno che  il filosofo Byung-Chul Han studia ormai da anni descrivendolo come “psicopolitica”: un modellamento del mentale nella corsa verso desideri uniformati e nell’oblio più totale dei propri singoli e reali bisogni. La dialettica bisogno/desiderio, già oggetto di riflessione da parte della Scuola di Francoforte e delle correnti neo-marxiste del Novecento, torna dunque visibilmente in auge ed eleva il desiderio a traguardo del controllo psicopolitico. Il desiderio, infatti, a differenza del bisogno, uniforma e catalizza le menti verso orientamenti prestabiliti che rispondono del cos’è bene per tutti. La pandemia di COVID-19 non solo ha fatto emergere in maniera lampante questo problema, ma ne ha anche amplificato gli effetti.

Nel 1975, con Sorvegliare e punire, tra i testi cardine della biopolitica, il filosofo francese Michel Foucault offre una ricostruzione storica delle logiche punitive nelle società moderne. Un capitolo preciso, aperto con l’evocazione dell’epidemia di peste del Seicento, è dedicato al panottismo, un sistema di osservazione sociale derivato dal cosiddetto Panopticon, la struttura carceraria ideata a fine Settecento dal filosofo e giurista inglese Jeremy Benthan. La costruzione è di tipo circolare: al centro è presente una torre a più piani dalla quale il guardiano può tenere sotto controllo i detenuti; tutt’intorno alla torre si susseguono le celle, provviste di due finestre, una verso l’esterno dell’edificio e una verso l’interno in comunicazione con la torre centrale; ogni cella ospita un carcerato, il quale, non potendo sapere quando il custode stia davvero osservandolo, si abituerà ad assumere una buona condotta continua. Il timore dell’osservazione genera disciplina: è il principio politico alla base del panottismo. Il potere può essere discontinuo nella sua azione, ma permanente nei suoi effetti. Per questo motivo la struttura architettonica panottica, oltre al carcere, può trovare applicazione anche in altri contesti istituzionali, come l’ospedale psichiatrico o la fabbrica, ovvero in tutti quegli scenari nei quali è richiesta l’uniformazione totale alle regole e se ne vigila costantemente la loro osservanza.

Foucault correla il panottismo con la peste perché, nelle precauzioni che il potere politico deve prendere al fine di contenere la malattia, il controllo deve essere onnipresente: prevenire la diffusione pestifera significa mettere in atto una sorveglianza panottica sui corpi attraverso norme e dispositivi. L’ordine interviene sul caos, assegnando a ciascuno il suo posto, la sua ristretta dimensione vitale. La città appestata è un contenitore che trabocca di provvedimenti eccezionali, un’architettura di vigilanza affinché nessuno violi la posizione assegnatagli. Non si tratta tuttavia di un’azione unilaterale, ma di una condizione che il popolo, in preda al timore di contrarre il morbo, sottoscrive volontariamente. La paura legittima un potere straordinario e trova il suo riscatto nella caccia all’untore: il colpevole va individuato e palesato poiché la sua umiliazione conferisce un senso al dramma e al sacrificio sociale. Il timore del contagio genera infatti una demarcazione netta tra obbedienti esecutori delle regole e indisciplinati trasgressori. Ciò che fa la differenza è il diverso modo in cui gli attori sociali hanno interiorizzato le norme: in questo senso l’obiettivo non è tanto il superamento della malattia, quanto l’indottrinamento della coscienza collettiva, il suo adeguamento a una nuova politica normalizzante.

Si è dunque compiuto un cambiamento di prospettiva e d’interesse nell’esercizio del potere: dal controllo del corpo a quello della mente. Ad aver reso possibile questo passaggio e soprattutto ad averlo legittimato è stata non solo l’improvvisa pandemia di COVID-19, ma soprattutto la paura sociale legata a questo evento. Una paura pronta a sacrificare le necessità del singolo in nome della tutela pubblica. È barattando le piccole o grandi esigenze di ciascuno con la salvaguardia del bene di tutti che si accetta infatti una nuova conformazione politica, la s’impara a difendere e scegliere come oggetto dei nostri più immediati desideri. Quelli di tutti, nessuno escluso. La diversificata rete di bisogni di ciascuno, dalla persona disabile al bambino, dall’anziano all’indigente, diviene niente più che un margine, l’ultimo pensiero della lista delle preoccupazioni politiche. Le misure anticontagio, previste e imposte per la salute di tutti, assumono non solo il carattere della priorità ma anche quello dell’indiscutibilità. Cosa si può mai opporre a regole disposte per la tutela del sociale?

La cura della salute pubblica ha rappresentato l’indubbia giustificazione alle trasformazioni più intime delle nostre vite. È in questa inopponibilità dei provvedimenti, in questo generalizzato senso di pace interiore, che il nuovo ordine sociale ha preso a diventare oltre che necessario anche desiderabile: un condizionamento mentale tanto più efficace quanto più costruito sull’estrema occorrenza delle decisioni politiche. I numeri di morti e contagiati sciorinati ogni giorno a mo’ di bollettino di guerra, le notizie dei reparti ospedalieri in ginocchio, le immagini dei ricoverati intubati e in generale tutto il flusso d’informazioni attorno al dramma epidemico ha fatto da filo conduttore alla mancanza di una coscienza critica da esercitare, di un contraddittorio da manifestare, o di un pensiero anche solo semplicemente diverso da esplicitare, senza rischiare il rogo della disinformazione o dell’impertinenza espressiva. Nel panottico controllo delle coscienze l’assenza di giudizio è diventata la prerogativa più desiderabile.

Nell’urgenza di combattere il virus l’allineamento delle menti ha avuto come rovescio della medaglia la trascuratezza del sé, la vendita del singolo all’epidemia. Nelle fasi più restrittive del lockdown, per ogni video social ambientato nelle case/resort dei vip, con tanto di hashtag compiaciuto #iorestoacasa, si è dispiegata una quarantena al limite della sopravvivenza per un numero indefinito di persone comuni, cittadine e cittadini che l’emergenza ha tramutato in nuovi indigenti sociali. La disposizione di regole contro il contagio, per tutti identiche e uguali, ha in realtà solo fatto emergere in modo ancora più evidente e chiaro quanto non siamo affatto tutti uguali. L’altra faccia del distanziamento sociale è stata, ed è, la mortificazione del singolo e dei suoi particolari bisogni, così come l’altra faccia del cos’è bene per tutti è la negazione della voce del singolo, di una sua qualsiasi espressività di dissenso. È nella tutela per certi aspetti parossistica – soprattutto se confrontati ai vistosi errori di gestione che hanno contribuito a farla esplodere – dal COVID-19 che si è lasciata scoperta la società da tutte le restanti necessità economiche, politiche, educative e psicologiche, i cui danni incommensurabili segneranno un drammatico punto di non ritorno nella nostra identità culturale.

A fronte di tanti vuoti legislativi, è curioso notare come si cerchi di difendere ancora oggi un concetto di bene pubblico che fa ormai acqua da tutte le parti. Forse dovremmo cercare risposte proprio nella psicopolitica, se, a fronte di tante criticità sociali, anziché curarsi delle loro cause, ci si preoccupa di biasimare chi non si allinea. In quest’ordine d’idee, l’individuazione del dissidente non è diversa dalla caccia all’untore durante la peste del Seicento descritta da Foucault.

L’unica differenza sta negli effetti: se il controllo sui corpi richiedeva condotte e comportamenti addomesticati alla perfezione, il controllo sulle menti, che l’emergenza sanitaria ha amplificato, ha richiesto un tacito consenso così generalizzato che il singolo, dopo aver smerciato i suoi bisogni all’epidemia, ha dovuto venderle a caro prezzo perfino il suo pensiero e la sua libertà di espressione.

da The Vision