La pena dell’attesa. Il Caso Cucchi o come accedere alla “giustizia”
- aprile 07, 2022
- in malapolizia, riflessioni
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Il nostro sistema penale è sempre più classista ed il sistema democratico è destinato a soccombere dinanzi questa infausta considerazione.
di Rossella Puca
12 anni ai carabinieri fautori dell’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi, sembrano un’enormità, eppure, consistono in un anno in meno rispetto agli anni trascorsi dalla sua morte.
Quello che viene difficile da accettare di tutto questo sta – senza dubbio – nell’ineluttabilità temporale trascorsa per ottenere un barlume di sperata “giustizia”.
“Giustizia”, un termine volutamente virgolettato che, specie in contesti più vicini alla destra, sarebbe di certo foriero di dibattiti sulla giustezza della pena detentiva o comunque sull’inevitabilità della vendetta istituzionale a seguito di un processo penale.
Prende il nome di ‘vittoria’, invece, lungi dall’incrementare roboanti giustizialismi, l’ammissione, da parte di un potere come quello giudiziario, che lo Stato abbia commesso dolosamente un abominio, non solo tra il 15 ed il 16 ottobre 2009, giorni dell’arresto di Stefano, ma anche nel corso di un lungo decennio.
Sovente accade di rivolgere le accuse contro tali discrasie inquisitorie nei confronti di un soggetto indefinito che mai realmente si riesce ad incarnare in una persona fisica: lo “Stato”, una figura mitologica che si atteggia tra un Leviatano hobbesiano ed un politico incravattato senza volto.
È tuttavia il momento in cui dovremmo avere il coraggio di far accadere una reale transustanziazione menzionando chi ha contribuito a tale scempio.
Tra questi Presidenti del Consiglio, Ministri, Parlamentari, in primis, artefici di diffamazioni indecorose. Medici, periti, forze dell’ordine creatori di narrazioni mendaci. La magistratura: per arrivare all’attuale sentenza di condanna ci son volute infatti 150 udienze e 15 gradi (a fronte degli ordinari 3) di giudizio.
La vicenda, come noto, ha avuto un grosso impatto sull’opinione pubblica oltre che un’influenza culturale di non poco rilievo, il film Sulla mia Pelle, svariati libri (Non mi uccise la morte. La storia di Stefano Cucchi, assassinato due volte dallo Stato italiano, di Luca Moretti e Toni Bruno per Castelvecchi (2010); Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi, di Duccio Facchini per Altraeconomia (2013); Il corpo del reato, di Carlo Bonini per Feltrinelli (2016), oltre che pezzi musicali, hanno contributo a creare un lascito, affinché, realmente, non ne restino solo ricordi sbiaditi e faldoni giudiziari. Anche grazie al risalto di tale faccenda, tante altre morti impunite sono state riscattate, se non in aula di giustizia, almeno facendo sì che se ne portasse all’attenzione.
L’omicidio Cucchi, insieme alle vicende buie che caratterizzano dalla notte dei tempi la nostra Repubblica (Genova 2001, in primis), ha fatto per altro sì che si cominciasse a parlare di introduzione di reato di tortura sino poi al reale inserimento nel codice penale.
Eppure, sebbene oggi si è dinanzi alla parola fine, resta un groppo in gola dinanzi al fatto che la tenace famiglia di Stefano ha dovuto sacrificare un ingente patrimonio per sobbarcarsi le spese processuali, oltre che la propria salute fisica e psicologica, costretti com’erano a caricarsi di un immenso dolore riverberato in un’immensa mediaticità dai risvolti non sempre positivi.
Il messaggio che si ricava da questa vicenda, specie per familiari o vittime stesse di abusi in divisa, non è del tutto positivo. Se da un lato si è sollevati dal fatto che non sempre le forze dell’ordine godano di una privilegiata impunità, dall’altro lato viene da chiedersi quanto sia ostico, costoso e devitalizzante accostarsi ad un pezzettino ormai logoro di giustizia, essendo tutt’altro che un processo democratico, gratuito ed accessibile senza differenze di sorta.
Il nostro sistema penale è sempre più classista ed il sistema democratico è destinato a soccombere dinanzi questa infausta considerazione.
Stefano è stato riscattato, finalmente, ma il nostro Stato di diritto non ha mai smesso di traballare.