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La pena di morte non serva a nulla

Da secoli, la pena capitale tenta di tener testa al delitto, ma il delitto persiste: non si realizza mai che ogni società ha i criminali che si merita

di Marco Sommariva*

Lo scorso 8 marzo, un articolo di Luca Miele pubblicato su Avvenire, raccontava che in cinque minuti s’era “consumata l’esecuzione – e la vita – di Brad Keith Sigmon, da ventitré anni nel braccio della morte nella Carolina del Sud. Cinque minuti nei quali il condannato è stato prima incappucciato, poi gli è stato posizionato un bersaglio addosso nel Broad River Correctional Institution, Columbia”.

I giornalisti che hanno assistito all’esecuzione hanno raccontato che Sigmon indossava una tuta nera con un piccolo bersaglio rosso sul cuore; il plotone d’esecuzione, composto da volontari – pensa te! – del South Carolina Department of Corrections, ha sparato attraverso fessure in un muro.

Il pezzo prosegue spiegandoci che è stato Sigmon a “scegliere” di morire con la fucilazione e non con un’iniezione letale o sulla sedia elettrica; che l’avvocato del condannato a morte, i familiari delle vittime e tre rappresentanti dei media si sono sistemati dietro a un vetro “rinforzato” per essere antiproiettile, per assistere all’esecuzione; che i tre tiratori si sono posizionati a 4,6 metri di distanza dal “bersaglio” – “la stessa distanza che intercorre tra il tabellone e la linea del tiro libero in un campo da basket” –, ognuno armato di un fucile con munizioni Winchester calibro .308, proiettili che si frantumano all’impatto con qualcosa di duro, come le ossa del torace di un detenuto, sprigionando frammenti destinati a distruggerne il cuore, una morte quasi istantanea scrive APNews.

Sigmon ha scelto il plotone di esecuzione per via della “inaffidabilità” del farmaco utilizzato per l’iniezione letale e per la barbarie della sedia elettrica, che lo avrebbe “bruciato vivo”.

In una dichiarazione finale letta dal suo avvocato, Sigmon ha inviato un messaggio di “amore e un invito ai miei fratelli cristiani ad aiutarci a mettere fine alla pena di morte”.

Il 25 gennaio dell’anno scorso, Kenneth Eugene Smith è stato il primo uomo a essere ucciso tramite respirazione forzata di azoto puro. I funzionari dell’Holman Correctional Facility di Atmore, in Alabama, dov’è stata eseguita la condanna, hanno fatto sapere che l’uomo è stato dichiarato morto alle 20.25 ora locale. L’esecuzione è durata circa ventidue minuti e Smith è sembrato rimanere cosciente per diverso tempo. L’uomo aveva già subito una prima esecuzione il 17 novembre del 2022, ma era riuscito a sopravvivere all’iniezione letale perché gli addetti all’esecuzione non erano riusciti a trovare la vena.

Leggo su Vaticannews che, prima d’indossare la maschera, “il condannato a morte ha pronunciato queste ultime parole: ‘Stasera l’Alabama fa sì che l’umanità faccia un passo indietro. Me ne vado con amore, pace e luce’. Dopo aver fatto il segno del cuore con le mani verso i familiari e i testimoni, Smith ha detto: ‘Grazie per avermi supportato. Vi amo, vi amo tutti’. Lo Stato dell’Alabama ha definito l’uso di azoto puro “il metodo meno doloroso e più umano”, e che l’uomo avrebbe probabilmente perso i sensi nel giro di un minuto o due, per morire subito.

Ricapitolando: Sigmon sceglie il plotone d’esecuzione per via della inaffidabilità del farmaco utilizzato per l’iniezione letale e per la barbarie della sedia elettrica che lo brucerebbe vivo, e prima d’andarsene ci invia un messaggio d’amore; a Smith viene somministrato l’azoto puro perché è il metodo meno doloroso e più umano, e anche lui prima d’andarsene parla d’amore.

Parrebbe “funzionare” tutto: possibilità di scegliere, meno sofferenza possibile, messaggi d’amore da chi uccidiamo… perché cambiare?

D’altra parte, esiste sempre un punto di vista che giustifica le peggiori cose; leggete cos’ha dichiarato alla Radio Televisione afgana, neppure un anno fa, il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada: “Flagelleremo le donne, le lapideremo a morte in pubblico”, come riporta il Guardian. Le parole del leader arrivano quasi come una punizione destinata non soltanto alle donne, ma all’intero Occidente: “Ci accusate di violare i diritti delle donne quando le lapidiamo o flagelliamo pubblicamente per aver commesso adulterio, perché questo va contro i vostri principi democratici” e prosegue, rivolto ai paesi occidentali, “io rappresento Allah, voi rappresentate Satana”.

E chissà che, potessero comunicare prima della lapidazione, anche le donne afghane condannate non si rivelino foriere di messaggi d’amore l’attimo prima d’esser prese a pietrate; ne dubito, ma non si sa mai: quando occorre che tutto appaia “funzionante”, può essere che ci arrivino anche notizie come questa.

Eppure, qualcosa che non funziona c’è; leggo su Wired  che Kenneth Eugene Smith ha dovuto inalare l’azoto puro dopo esser stato immobilizzato su una barella e aver indossato una maschera che, coprendo bocca e naso, ha spinto a forza l’azoto nei suoi polmoni. Nello stesso articolo, Amnesty International spiega che l’ipossia da azoto consiste nell’inalazione di azoto “per quindici minuti fino alla totale scomparsa di ossigeno, con compromissione letale degli organi vitali. Si tratta di un metodo assolutamente sperimentale di esecuzione, purtroppo approvato dalla Corte suprema dell’Alabama, ma che – per paradosso – è vietato sugli animali. Secondo i giudici, non si tratta di una ‘punizione crudele e insolita’, ossia di quelle vietate dall’Ottavo emendamento della Costituzione americana”.

Un metodo di esecuzione vietato sugli animali.

Davvero non riusciamo a riservare agli esseri umani ciò che riteniamo meritino, per esempio, felini o canidi che assistiamo con così tanta cura fra le mura domestiche? Parrebbe davvero essere così, e anche da un bel pezzo, visto che Victor Hugo nel suo L’ultimo giorno di un condannato a morte del 1829, ci racconta di gente che, alla vista del condannato a morte che s’accinge alla pena capitale, batte le mani, gli riserva una tale festa che un re, per quanto amato, non avrebbe mai ricevuto: “[…] sono venuti ad avvertirmi che era ora. […] Mi hanno fatto percorrere i loro corridoi, scendere le loro scale. Mi hanno spinto tra due porticine, al pianterreno, in una sala buia, stretta, a volta, appena rischiarata da un giorno di pioggia e nebbia. Nel mezzo stava una sedia. Mi hanno detto di sedermi; mi sono seduto. C’era vicino alla porta e lungo i muri qualche persona in piedi, oltre al prete e alle guardie, e c’erano anche tre uomini. Il primo, il più alto, il più vecchio, era grasso e con la faccia rossa. Portava una finanziera e un cappello sformato a tricorno. Era lui. Era il boia, il servo della ghigliottina. Gli altri due erano gli aiutanti. Appena seduto, quelli mi si sono avvicinati da dietro, come due gatti […]. Intorno parlavano sottovoce. C’era molto rumore, fuori, come un fremito che ondeggiasse nell’aria. Sulle prime ho pensato al fiume; poi, da qualche risata squillante, ho riconosciuto in quel rumore la folla. […] A un tratto uno dei servi mi ha tolto la giacca, l’altro ha preso le mie mani inerti, le ha girate dietro la schiena, e io ho sentito i nodi d’una corda chiudersi adagio attorno ai polsi stretti l’uno all’altro. Contemporaneamente, l’altro mi disfaceva la cravatta. La mia camicia di batista, unico brandello di ciò che ero stato un tempo, l’ha fatto esitare un istante; poi s’è messo a tagliare il colletto. […] uno dei due s’è chinato e mi ha legato i piedi con una cordicella lenta, che mi lasciava far soltanto dei brevi passi. La corda è stata unita a quella delle mani. Poi l’omone mi ha buttato la giacca sulle spalle e annodato insieme le maniche sotto il mento. […] I due aiutanti mi hanno preso per le ascelle. Mi sono alzato, ho camminato. Avanzavo a passi molli e malfermi, come se in ogni gamba avessi avuto due ginocchia. In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. […] “Eccolo! eccolo!” ha gridato la folla. “Esce! finalmente!” E i più vicini battevano le mani. Un re, per quanto amato, non avrebbe avuto tanta festa”.

Anche Stephen King ne Il miglio verde un romanzo di trent’anni fa, si occupa dei condannati a morte: nel braccio della morte del carcere di Cold Mountain, “il miglio verde” è il percorso verso la sedia elettrica, l’ultimo miglio che i condannati a morte percorrono, caratterizzato da una pavimentazione verde, appunto.

Di questo libro riprendo due breve frasi: “Non tutte le prove sono quelle che si vedono e ascoltano in un’aula di giustizia” e “Ammazzarci l’un l’altro con il gas e l’elettricità e a sangue freddo? Che follia. Che orrore”.

Peccato si pensi sempre troppo raramente che nessuno di noi dovrebbe erigersi a giudice assoluto e decretare l’eliminazione definitiva di nessuno, neppure del peggiore dei colpevoli, poiché nessuno di noi può attribuirsi l’assoluta innocenza.

Peccato la pena di morte non serva a nulla: da secoli tenta di tener testa al delitto, ma il delitto persiste.

Peccato non si realizzi mai che ogni società ha i criminali che si merita, e che è su questa che bisognerebbe lavorare.

Peccato che coloro che fanno versare la maggior quantità di sangue sono gli stessi che credono d’aver dalla loro parte il diritto, la logica e la storia: non è dall’individuo ma dallo Stato che, oggi, la società deve difendersi.

Per il finale mi son fatto aiutare dal Camus di Riflessioni sulla pena di morte, un saggio di fine anni Cinquanta, quando ancora s’aveva l’abitudine di riflettere, appunto.

 

*scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni

 

 

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