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La pena liquida

una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente a esser mossa. Dunque questo permanere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualunque cosa particolare. Poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi e sappia di sforzarsi, per quanto può, di persistere nel movimento. Questa pietra, certamente, in quanto è consapevole unicamente del suo conato al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun’altra causa se non perché lo vuole” -SPINOZA B., Tutte le opere, Milano, 2010, pagine 2111-2113-

            La “recente” teoria della modernità liquida, ipotizzata dal Bauman, prende le mosse dalla seguente riflessione: “I liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo. Laddove i corpi solidi hanno dimensioni spaziali ben definite ma neutralizzano l’impatto -e dunque riducono il significato- del tempo (resistono con efficacia al suo scorrere o lo rendono irrilevante), i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla; cosicché ciò che conta per essi è il flusso temporale più che lo spazio che si trovano a occupare e che in pratica occupano solo per un momento. In un certo senso i corpi solidi annullano il tempo, laddove, al contrario, il tempo è per i liquidi l’elemento più importante1 ”. Tale weltanschauung ci consente, molto probabilmente, di affrontare –mutatis mutandis– anche il problema della pena e, più precisamente, di quella carceraria.

            Il carcere, in particolare, sembra essere divenuto -a partire dall’epoca illuminista- il corpo solido più definito nelle forme: un deus ex machina caratterizzato da un’elevata dimensione spaziale ed in grado, soprattutto, di annullare il tempo. È proprio l’annullamento del tempo del condannato la caratteristica che potrebbe indurci -forse più delle altre- a credere che la pena carceraria, soprattutto allorquando si veste della perpetuità, “non ha nessuna funzione, è la vendetta dei forti, dei vincitori, della moltitudine […] è il male che rende innocente chi lo sconta2 ”. Sono le caratteristiche della pena detentiva, d’altronde, che la conducono a vivere nel paradosso: se è vero, ed è vero, che il carcere “nasce” come la risposta del diritto penale lo è, altrettanto, la circostanza secondo la quale tale pena sembra “morire” nella rinnovata(?) veste di problema del diritto penale. Se non è certamente raro leggere in una sentenza della Corte Costituzionale che la “difesa sociale [è un] interesse di rilievo costituzionale sotteso alla necessaria esecuzione della pena3 ”, infatti, non lo è, parimenti, leggere che benché “nei media, nella società e nella sfera politica c’è chi continua a credere che il carcere possa riabilitare [tale pena, in realtà] di fronte all’opinione pubblica porta il peso di un segreto, il segreto del suo fiasco4 ”.

            Il carcere palesa quotidianamente i propri limiti e cionnonostante sembra legittimare la propria esistenza su postulati propri a quella “necessità del male” tanto cara a Schelling, secondo il quale è il male lo strumento attraverso il quale può rivelarsi il bene. Il bene, in questo caso, è la rieducazione del condannato enunciata dall’art. 27 della Costituzione: un principio che pare, francamente, diametralmente opposto alle finalità perseguite (coscientemente o meno) dal carcere. Che il carcere debba esistere unicamente per rivelarci il principio rieducativo?

            Fuori dalla metafora si potrebbe dire che la rieducazione, oggi più che mai, sembra essere uno dei grandi progetti dell’età moderna che, suo malgrado, subisce la sferzante “temperie culturale postmoderna [la quale] si connota per l’abbandono dei grandi progetti dell’uomo, elaborati a partire dalla stagione illuministica5 ”. Si potrebbe dire che leggere parole come “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” appare, oggi, più il frutto delle letture serali dell’uomo dabbene che non della carta costituzionale. Il problema della pena carceraria, tuttavia, non può e non deve essere ri(con)dotto alle elucubrazioni, più o meno dotte, di singoli intellettuali poiché permea di sé la società tout court e non solo, come alcuni vorrebbero far credere, la sua parte “peggiore”.

            Il carcere, si potrebbe dire, diviene un problema nel momento in cui è concepito come una soluzione: per alcuni, infatti, cessa di essere il problema del diritto penale allorquando si palesa come “la” risposta (più o meno efficiente) alla pericolosità sociale. Non è un caso, a modestissimo parere di chi scrive, che tutti gli strumenti predisposti dall’ordinamento con il dichiarato scopo di rieducare i condannati (si pensi alla concessione dei benefici penitenziari) siano, di volta in volta, sacrificati sulla base di valutazioni ispirate, direttamente od indirettamente, al concetto di pericolosità sociale, in spregio all’equazione cardine dell’ordinamento penitenziario: “trattamento=rieducazione6 ”.

            La deriva securitaria della modernità, in sostanza, consegna al diritto penale concetti altri ed ulteriori rispetto alla rieducazione quale, in primis, la pericolosità sociale. Tale concetto finisce col rendere “liquida” la pena carceraria poiché, anziché renderla definita nello spazio e nel tempo, la plasma della propria fluidità e la rende capace, per tale fatto, di lambire qualsivoglia soggetto ritenuto socialmente pericoloso: il carcere, attraverso la pericolosità sociale, diviene, in nuce, la panacea di ogni male.

            Cos’è, d’altronde, la pericolosità sociale? La tipizzazione di tale concetto ci indica che è socialmente pericoloso il soggetto che ha commesso un fatto preveduto dalla legge come reato “quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati7 ”. Il giudizio di pericolosità sociale, inoltre, si effettua sulla scorta dei parametri valutativi di cui all’art. 133 c.p. e tiene, dunque, conto della gravità del reato, della capacità a delinquere del reo e (guardando al passato) della recidiva. Al di là della lettura di saggi lombrosiani, a modestissimo parere di chi scrive, è alquanto arduo accertare giudizialmente la propensione a delinquere di un soggetto: impossibile fermare con durevoli tratti l’evanescenza dell’animo umano. Se diviene, dunque, quasi impossibile calcolare giudizialmente la possibilità che un soggetto commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato il giudicante, molto probabilmente, fonderà il proprio accertamento su elementi altri ed ulteriori come la gravità del reato commesso e la recidiva: guarderà, dunque, più alle azioni passate che a quelle future. Tale valutazione è, in sostanza, contraria alla volontà dei costituenti di rieducare il reo poiché, molto probabilmente, la pena rieducativa dovrebbe guardare le azioni future del condannato anziché quelle passate.

            La tipizzazione della pericolosità sociale, non a caso, si rileva nell’art. 203 del c.p. ed attiene alle misure di sicurezza. Le misure di sicurezza e le pene, come noto, danno vita al c.d. doppio binario. Nel momento in cui, tuttavia, le pene cessano di legittimarsi come strumenti rieducativi e, casomai, si propongono come risposta alla pericolosità sociale i due binari (delle misure di sicurezza e delle pene) si palesano come quelle due rette parallele destinate a non incontrarsi mai nella finitezza per ricongiungersi, poi, nell’infinitezza: la pena, in parole povere, finisce col rivelare la sua novella(?) natura di misura di sicurezza, seppur larvata.

            Molto probabilmente questa riflessione provocatoria -ma non troppo- giustificherà l’inarcamento di qualche sopracciglio e, purtuttavia, appariva doverosa. Se l’ordinamento giuridico e, in particolare, il diritto penale continuano a porre la pericolosità sociale ad architrave della loro stessa esistenza, la pena, non potrà non divenire una misura di sicurezza. Il carcere, infatti, in tal caso diviene liquido e si erige a risposta ed a soluzione a qualsivoglia male della società sana, ed invade ed occupa ogni spazio lasciato libero dalle pene cadute, ormai, nel disuso e nell’oblio.

            L’eclissarsi del pluralismo penale coincide con la (ri)scoperta del carcerocentrismo moderno e ci consegna un diritto penale liquido che nel vestire le misure di sicurezza da pene ci lascia un carcere tanto libero dalle influenze esterne (quali ad esempio il consenso elettorale ed il populismo) quanto quella “pietra” -narrata da Spinoza- dalla sua spinta originaria.

Daniel Monni

Note:

1 BAUMAN Z., Modernità liquida, Milano, 2019, pagina XXXII

2 MUSUMECI C., L’urlo di un uomo ombra. Vita da ergastolo ostativo, Messina, 2013, pagina 12

3 Corte Costituzionale, 12 aprile 2017, n. 76

4 MATHIESEN T., Perché il carcere?, Torino, 1996, pagina 174

5 MOCCIA S., Presentazione Convegno Nazionale Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, citato in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fascicolo III, 2018, pagina 1667

6 Relazione della IV Commissione Permanente, relatore Felisetti, sul disegno di legge n. 2624-A del 1974

7 Art. 203 c.p.