A quest’ora in carcere sta passando il carrello della cena. Il sabato sera chi ha qualcosa sul conto-spesa può ordinare la pizza: un cartone di otto fette per otto-nove euro. E’ preparata dalla panetteria interna: niente di speciale, ma sempre meglio della sbobba scotta e maleodorante di strutto che regolarmente passa il convento.
Chi la compra, ne offre a chi non può comprarla, secondo una regola di solidarietà naturale e rispettata in una comunità che vive di antiche leggi non scritte, rigorose nell’imporre la tutela dei più deboli, il rispetto degli anziani e dei bambini, la condivisione con il compagno di cella delle poche cose che sono ammesse, quali il fornelletto da campeggio, un tegame e un pentolino, ceste di plastica dove riporre gli alimenti, i pacchi di cibi che i parenti portano da casa.
Grande è il consumo della plastica, l’unico materiale ammesso per piatti, bicchieri, posate, bottiglie: un mare di plastica non riciclata, che fa delle carceri una potente macchina dell’usa e getta e non solo di vite…
Chissà se altre detenute sono state scarcerate….Alla mia uscita c’è stata nella sezione la battitura di saluto: si sbatte contro il blindo lo sportello della finestrella-spioncino che di notte serve alle guardie per verificare la presenza delle recluse in cella.
Le mie compagne mi hanno lasciato un messaggio: di chiedere anche per loro il diritto alla salute, il che significa poter essere liberate, sfuggendo all’epidemia che sta già facendo vittime oltre le mura; ed anche di parlare di loro e di che cosa sia il carcere, di raccontare le loro storie, di pena più che di colpa.
Dietro le sbarre, nella convivenza forzata ma istruttiva, si impara a conoscere concretamente e ad odiare la sproporzione tra colpa e pena ed a capire come nella società che vogliamo non possa esserci posto per le prigioni.
Anche perché me lo hanno chiesto loro, rivendico il dovere di prendere parola per chiedere libertà per tutte e tutti, che nessuno debba aspettare forzatamente immobile e indifeso l’assalto del male.
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Oggi domenica delle palme. Sono andata a rileggermi la storia di quel figlio di falegname che, sovversivo, finì in croce. In quelle pagine c’è la storia di tanti:
l’arrivo nella cittadella del potere, tra un tripudio popolare non destinato a durare;
la consapevolezza degli arresti imminenti, tanto che Yeshua avvertirà i compagni
“Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una”. La grande paura dei suoi compagni, i quali, incapaci di fronteggiare la repressione, lo l’abbandoneranno, ad uno ad uno.
Il processo senza difesa. La condanna a morte con l’accusa di sovversione: La morte da schiavo per chi aveva dichiarato che “ sarà più facile per una gomena entrare nella cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli”.
In tutte le celle del carcere, tra i pochi arredi, esiste il crocifisso: è il segno dell’espiazione, il monito di un potere che, attraverso il tempo, ha stravolto e addomesticato ai suoi fini quella memoria….. (Ah la croce come simbolo di guerra, dalle crociate fino ai cappellani militari, il crocifisso brandito sui roghi degli eretici e quello imposto nelle scuole e nei luoghi pubblici a sancire il privilegio dei patti lateranensi…. davvero, come ricorda Benjamin, “…neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”).
Ma, nella mia cella, della croce era rimasto solo il legno, l’uomo non c’era.
Forse è un epilogo differente della storia di sempre, forse non tutti i compagni se ne stanno nascosti, per sfuggire al potere che li bracca…e magari quel condannato è stato aiutato a fuggire e respira l’aria della primavera, libero ancora sul cammino delle lotte. Oppure, più semplicemente, a schiodare dal patibolo quel crocifisso è stato un altro condannato, come segno di ribellione e di pietas, da parte di chi la giustizia ingiusta l’ha provata e la vive quotidianamente sulla propria pelle.
Anche la libertà è un bene collettivo. Libere tutte e tutti!
Nicoletta