Attenendosi ad un diffuso malcostume – secondo cui a ferragosto si pubblicano i provvedimenti che si vogliono sottrarre all’attenzione dell’opinione pubblica – il governo Renzi ha pubblicato il 19 agosto scorso il decreto legislativo n. 177 sulla «razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato».
Nel provvedimento è stata introdotta alla chetichella una disposizione (art. 18, comma 5) che dice testualmente: «Il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Detto in linguaggio comune, ciò significa che gli organi che svolgono funzioni di polizia giudiziaria non rispondono soltanto alla magistratura, come vuole l’articolo 109 della Costituzione, ma anche ai «superiori gerarchici», che non sono ufficiali di polizia giudiziaria, e tuttavia vanno informati delle indagini, in violazione del segreto investigativo previsto dal codice di procedura penale.
Com’è noto, i vertici gerarchici degli organi di polizia sono molto sensibili ai voleri dell’esecutivo, come dimostrano le recenti indagini sulla Consip, in cui alti ufficiali dei Carabinieri sono accusati di avere illecitamente rivelato agli interessati livelli politici l’installazione di microspie, poi prontamente rimosse.
La lesione del fondamentale articolo 109 della Costituzione, che ha lo scopo di sottrarre le indagini alle interferenze di poteri esterni a quello giudiziario, è dunque evidente.
Ed è aggravata da una circolare del Capo della Polizia emanata l’8 ottobre scorso, secondo la quale l’obbligo di comunicazione alla scala gerarchica riguarda non solo l’informativa di reato, ma tutto lo sviluppo delle successive indagini.
Si tratta di un salto all’indietro di alcuni decenni. C’erano volute battaglie di anni, dentro e fuori la magistratura, per tradurre in pratica il precetto costituzionale, finalmente poi accolto nel codice di procedura penale del 1989. Ora si torna al passato, nell’indifferenza generale, salvo l’iniziativa del Procuratore di Torino Armando Spataro, che in una direttiva ai colleghi sostituti prospetta la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta, per denunciare la contrarietà della disposizione renziana al dettato costituzionale.
Per il resto assoluto silenzio, in particolare della politica ed anche da parte di esponenti della cultura garantista. Neanche nel corso della discussione sulla sfiducia al ministro Lotti, alla presenza del serafico guardasigilli Andrea Orlando, si è levata alcuna voce sulla questione, da parte del Movimento 5 Stelle o di altri senatori garantisti. È un segno dei tempi. Pensate che cosa sarebbe successo se una norma del genere fosse stata varata dai governi Berlusconi. Si sarebbe giustamente gridato alla lesione dello stato di diritto, a un attacco alla divisione dei poteri, a una indebita interferenza dell’esecutivo nell’esercizio indipendente della funzione giudiziaria. Ma, evidentemente, a Renzi è stato dunque consentito quello che non osava fare neanche Berlusconi. Su questo almeno i due sono diversi.
Ora torna all’esame della Camera dei deputati la connessa legge delega sul processo penale, approvata a Palazzo Madama con il voto di fiducia che impedisce una vera discussione. Sarebbe perciò auspicabile una riflessione su una questione che è tutt’altro marginale.
Luigi Saraceni
da il manifesto