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La polizia di oggi non è diversa da quella del G8 di Genova 2001

Il pestaggio di un giornalista a Genova mette in luce come i processi del G8 abbiano insegnato poco alle nostre forze dell’ordine.

I fatti di cronaca a volte si rivelano carichi di ironia e di senso della storia. A Genova, lo scorso 23 maggio, un giornalista del quotidiano “la Repubblica”, Stefano Origone, è stato aggredito e picchiato a sangue, a colpi di manganello (anche quando era ormai a terra inerme) da un gruppo di agenti della squadra mobile, intervenuti a una manifestazione antifascista organizzata in concomitanza con un comizio di CasaPound. È successo a piazza Corvetto e il filmato del pestaggio è sembrato tale e quale altri filmati -moltissimi- risalenti all’estate 2001, quando Genova fu teatro di gravissime violenze delle forze di polizia durante il vertice G8. Le scene di piazzale Corvetto 2019 paiono riprese dai filmati girati nella vicina piazza Manin nel 2001, per citare un caso fra tanti. La scena è sostanzialmente la stessa: persone singole e indifese (all’epoca erano per lo più attivisti della Rete Lilliput) aggredite da più agenti, colpite anche una volta a terra con totale noncuranza delle regole, delle leggi e della stessa incolumità fisica dei malcapitati.

Il pestaggio di Stefano Origone è stato fermato a un certo punto da un vicequestore che ha riconosciuto il cronista e resta il dubbio su quanto sarebbe accaduto se invece di un giornalista sotto i colpi dei manganelli fosse finito un cittadino qualunque. I picchiatori quando si sarebbero fermati? Una volta scoppiato il caso -entrato nel circuito mediatico grazie alla professione di Origone- il questore e il capo della polizia si sono affrettati a garantire che non ci saranno sconti per i colpevoli e che tutto è cambiato rispetto al 2001. I fatti, in verità, per il momento spingono nella direzione opposta: la domanda principale che viene da porsi, dopo avere assistito alla scena di piazza Corvetto, è perché la storia, i processi, le condanne abbiano insegnato così poco alla polizia di stato. Com’è possibile, a distanza di quasi vent’anni, che un gruppo di agenti agisca con la stessa violenza, lo stesso disprezzo per le regole e per i corpi mostrati nelle giornate del G8 genovese? Insomma, come è stata vissuta, dentro le forze dell’ordine, l’oscena caduta di legalità, professionalità, finanche umanità del 2001? Una possibile risposta si può rintracciare nei primi passi compiuti dall’inchiesta aperta dalla magistratura.

5 sono i Paesi dell’Unione europea nei quali la polizia non ha l’obbligo di esporre codici di riconoscimento sulle divise. L’Italia resiste in compagnia di Olanda, Cipro, Austria e Lussemburgo

Balzano immediatamente agli occhi tre cose. Primo: l’indagine sulla squadra mobile è stata affidata alla stessa polizia, come mai si dovrebbe fare in casi del genere. Secondo: né il capo della squadra mobile, né il questore e tanto meno il capo della polizia hanno ipotizzato di offrire le proprie dimissioni, a testimonianza della gravità di quanto accaduto e del proprio rincrescimento. Terzo: l’identificazione dei responsabili, come sempre, è un’avventura perigliosa, grazie (anche) al fatto che gli agenti italiani non sono obbligati a tenere codici di riconoscimento sulle divise. Questa piccola riforma, che ha precise finalità di prevenzione degli abusi, è stata chiesta all’Italia dal Parlamento europeo, dal Consiglio d’Europa, dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani ed è scritta nel Codice etico delle polizie europee. Ma l’Italia è ancora inadempiente: nemmeno il tracollo di credibilità dovuto al caso Diaz è bastato a convincere i vertici di polizia a rimuovere il veto che ha finora impedito al nostro Paese (complice una classe politica imbelle) di allinearsi agli standard democratici delle maggiori democrazie. La conclusione è amara e ironica insieme: la polizia genovese del 2019 non è diversa dalla polizia di Genova 2001.

Lorenzo Guadagnucci Comitato Verità e Giustizia per Genova, giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”.

da Altreconomia