Menu

La povertà come colpa

Mentre l’impoverimento avanza implacabile tra le persone approfondendo ogni giorno disuguaglianze sempre più abissali, ci si avvia verso una smateralizzazione di ogni aspetto del vivente. Ci stiamo abituando a diventare tutti più poveri, culturalmente e “sostanzialmente”. Ma guai a lamentarsi, l’impoverimento che un tempo è stato un destino adesso è diventato una colpa.

di Giuseppe Giannini

I signori della rendita, i padroni e i governi al loro servizio stanno sferrando un deciso attacco alla povertà. Gli slogan qualunquisti non mancano. Storicamente è compito del capitalismo ripulire le strade dai disturbatori dei luoghi della produzione e dell’accumulazione.

Se agli albori del mercantilismo, in nome dell’ordine e dell’igiene, era funzione degli amministratori e delle forze di polizia quella di allontanare vagabondi e reietti, successivamente, una volta che la società industrializzata è stata plasmata sul “corretto modo di vivere”, è fiorita tutta una serie di figure tecniche e professionali, che al servizio del potere hanno adottato normative e regolamenti legati ai bisogni degli agglomerati urbani, ridisegnati secondo gli scopi della produzione capitalistica (gentrificazione).

Da allora, il vivere in comune e i tempi sono stati forzatamente adeguati ai dettami della produzione e della vita salariata. È diventato normale per i cittadini comuni, ma non per coloro che ereditano patrimoni o fanno parte dell’alta società, pensarsi unicamente come lavoratori disciplinati, che guadagnano per consumare al fine di soddisfare i tanti bisogni indotti e garantire la perpetuità del sistema stesso.

Peccato che il sogno della produzione infinita attraverso la sottomissione delle risorse naturali ed umane abbia iniziato a dare segni di squilibrio.

Purtroppo anche l’idea della piena occupazione appartiene al secolo scorso.

Senza voler tracciare tutta l’evoluzione di tale modello, si può facilmente osservare come sia necessario un rallentamento, per questioni etiche, sociali ed ambientali.

Fino a quando gli Stati, anche attraverso Costituzioni e leggi, hanno svolto la funzione di mediatori, è stato possibile frenare la brama capitalistica. Il cambio di passo, in senso peggiorativo, si è avuto allorquando tutta una serie di scelte è avvenuta nel superiore interesse del profitto.

La politica è arretrata lasciandosi fagocitare dall’economia.

Globalizzazione, delocalizzazioni e precariato hanno fatto il loro ingresso in pianta stabile dagli anni ’90 in poi. Le aziende hanno spostato le produzioni dove lo hanno ritenuto più conveniente, magari con incentivi statali, e cosi facendo hanno beneficiato di regimi fiscali favorevoli o eluso il fisco del paese di provenienza, ingrossando la massa dei salariati disperati.

Le istituzioni pubbliche si sono rimesse ai privati, rinunciando a intervenire anche in settori determinati per la vita sociale. E cosi, la sanità, la scuola e la ricerca, i servizi della pubblica amministrazione e la giustizia, tutto il sistema dei trasporti, delle energie e delle infrastrutture hanno subito drastici tagli i cui effetti sono ormai manifesti. La logica (del profitto) aziendalistica è stata estesa ad ogni settore, con la scusa del contenimento del debito pubblico. Non sembra però che il debito sia diminuito, anzi, la conseguenza è che qualcuno, la famosa finanza – fondi speculativi, banche ed intermediari, detentori privati del debito – si è arricchito ancora di più, diventando così potente da influenzare l’agenda di governo dei singoli paesi e delle istituzioni sovranazionali. Basta dare uno sguardo all’Europa della tecnocrazia per capire come le istanze dei mercati non regolamentati prevalgano su quelle sociali.

Al contempo, le scoperte scientifiche, la tecnica applicata e l’avvento di internet hanno creato nuove figure lavorative, ma soprattutto nuovi colossi che hanno dato il colpo definitivo alla impresa tradizionale. Alcuni esempi: i centri commerciali come luogo unico (gestito da un solo beneficiario) da visitare per il consumo plurimo a discapito della scomparsa di figure classiche del commercio locale, negozianti, artigiani, ma anche come posto esclusivo per la gita domenicale. O ancora l’online che rende più conveniente comprare in rete distruggendo il tessuto produttivo, e con settori, come quello della cultura e dell’intrattenimento (l’editoria, il cinema, la musica…) in crisi da un quarto di secolo. Spariscono il consumo diretto e il contatto fisico. Gli spazi vengono urbanisticamente ridisegnati con interi territori dedicati allo stoccaggio delle merci.

Ci si avvia così verso una smateralizzazione di ogni aspetto del vivente, con una card con cui farsi tracciare costantemente, e con il nostro doppio che ci attende nel metaverso.

Tutto ciò ci ha reso poveri culturalmente, ma soprattutto “sostanzialmente”.

L’impoverimento è diventata una colpa – in tedesco Schuld – sinonimo di riprovazione sociale ed accanimento mediatico per un debito che bisogna adempiere.

In che modo i governi pensano di affrontare la povertà?

L’Unione europea ha da tempo come obiettivo quello di ridurre il numero di indigenti al suo interno, 15 milioni entro il 2030, attraverso “agende”e risoluzioni, e anche mediante inviti, fatti ai singoli Stati, a finanziare strumenti di sostegno al reddito, ed agevolare l’accesso ai servizi essenziali come la sanità, la formazione e l’energia, ma per alcuni rimangono impegni, da rimandare.

Il governo delle destre reazionarie in Italia, succeduto a quello dei moderati-liberisti, ha come unico scopo quello di mettersi al servizio degli interessi padronali.

Parlano di made in Italy e sovranità alimentare, ma verrebbe da chiedere alla Meloni che cosa intende. Lo sa che la maggior parte delle merci vendute sugli scaffali italiani, dagli alimentari low cost all’abbigliamento, sono prodotte altrove, e quindi fanno guadagnare le aziende estere? Per non parlare di un certo lassismo riguardo alle normative in materia ambientale o dei diritti sul lavoro. Le morti bianche ne sono la testimonianza.

A tal fine, perchè non tassare adeguatamente la concorrenza di chi fa affari on line e rendere più sconveniente l’acquisto? Dalla logistica alla GDO è solo un eterno girone infernale dove si lavora senza sosta, a volte con inquadramenti contrattuali diversi dalle effettive mansioni svolte, ma più convenienti per la catena degli appalti. Quante sono le persone che, a causa delle liberalizzazioni e delle riforme peggiorative in ambito lavorativo, hanno fatto a meno di lavorare nei giorni di festa (a Natale, il 25 aprile, il 1 maggio) o usufruito di riposi compensativi e maggiorazioni salariali?

La tendenza è quella di far lavorare di più e peggio,  e con salari sempre più bassi, l’alternativa è il lavoro irregolare.

Con tutte le riforme fatte, quale è l’efficacia dei centri per l’impiego?

Quindi, in Italia la popolazione diminuisce, giovani e non si trasferiscono all’estero, diversi settori lamentano tagli e carenza di personale, mancano investimenti infrastrutturali e, malgrado ciò, in tanti non riescono a trovare una occupazione.

Le offerte formative/lavorative sono per lo più a tempo ridotto.

Da quindici anni immersi in un connubio perverso di crisi e austerità, con il fallimento di tante aziende, l’attenzione viene data agli incolpevoli percettori del sussidio di povertà chiamato impropriamente reddito di cittadinanza. Che ci sia qualche furbetto (ma qualcuno si è mai chiesto chi è che ha approvato le domande fasulle?, e  quante sono state le offerte avanzate dagli enti preposti?) non serve a distogliere lo sguardo sul grosso del problema riguardante l’effettività di una opportunità lavorativa seria. Il refrain degli scorsi mesi riguardava i tanti addetti alla ristorazione che lamentavano la difficoltà nella ricerca di personale. Tra questi non ci saranno pure quelli che una volta utilizzavano i voucher ed ora ricorrono a stage/tirocini e all’alternanza scuola-lavoro per non assumere? E poi non è che si può puntare tutto solo sul turismo.

I dati statistici raccontano di 10 milioni di persone in difficoltà con 6 milioni in povertà assoluta, nonostante il cd. reddito, ed ora con una inflazione galoppante e l’impennata dei costi energetici si mira a dare un duro colpo ai percettori, e tra questi vi sono anche tanti working poor, a conferma che anche lavorando si è poveri. Nel 2008 i minori in povertà assoluta erano 375.000; nel 2021 un milione e 400.000.

L’accanimento tutto italiano contro questa forma di sostegno tace del fatto che in tutta Europa, ed anche altrove esistono da tempo forme di reddito minimo garantito o di cittadinanza.

Anzi, noi siamo stati tra gli ultimi ad introdurlo e con tutta una serie di condizioni, che vanno in senso contrario a quello di garantire una stabilità. Difatti, non si guarda al singolo (coniuge, discendente) ma al suo inserimento all’interno di una famiglia, con l’obbligo di spendere tutto il poco ricevuto – per una persona al massimo 500 euro più 280 euro per l’ affitto – e con l’obbligo di accettare per lo più lavori non qualificanti, con il rischio di rimanere in un limbo e arrabbattarsi tra un lavoro precario e l’altro.

E mentre la UE invita gli Stati a finanziare le forme di reddito, con paesi come la Germania e la Spagna che ne aumentano gli importi, adeguando quest’ultima i salari all’inflazione con effetto retroattivo, o altrove si sperimentano progetti di reddito di base incondizionaro, da noi vi è la caccia a chi percepisce in media 3-400 euro mensili. A qualcuno è mai venuto in mente che magari quei soldi in quanto tracciati e spesi possono stimolare la domanda interna e l’economia? Oppure si preferiscono la strada delle agevolazioni finanziare per le imprese che magari hanno sede fiscale e legale all’estero, i condoni fiscali, la flat tax e il limite al contante, tutte vie che se non affini all’evasione hanno un impatto minimo sull’economia reale?

La realtà è che l’eterna lotta tra il capitale e il lavoro vede i possessori del primo sempre più agguerriti. Fino agli inizi degli anni ’80 ovunque nel mondo vi erano imposte progressive sui redditi elevati e imposte di successione adeguate, con l’America che spiccava da questo punto di vista. Dal 1950 al 1983 (i famosi “trenta anni gloriosi”) i redditi aumentavano del 4% annuo per la maggioranza della popolazione e dell’ 1% per i redditi più alti. Questo ha consentito uno sviluppo armonioso delle società, con gli Stati che assicuravano il welfare arginando le mire espansionistiche dei capitalisti. Poi, con l’avvento della stagione dei Reagan e degli ultaliberisti, si è avuta un’inversione di tendenza, con imposte sempre più favorevoli ai grossi patrimoni. Il riflesso di questo travaso di ricchezza è dato dal crescente gap tra le remunerazioni dei vertici e quelle dei lavoratori, passate da 20 a 1 negli anni’70 agli attuali 300 a 1. Gli stipendi dei manager sono aumentati del 1000% mentre quelle dei lavoratori solo del 10%. Il potere di acquisto dei lavoratori è notevolmente diminuito nel corso di questi decenni. La continuità lavorativa non è assicurata. L’unica certezza è l’insicurezza.

Un ulteriore dato negativo riguarda l’Italia, che è l’unico paese UE in cui i salari sono addirittura diminuiti negli ultimi trenta anni.

Pertanto, per  affrontare la povertà in maniera adeguata, sono possibili alcune soluzioni in ambito internazionale, europeo e statale:

  • a livello europeo l’unica via di uscita è una rimodulazione dei trattati che impongono i vincoli di bilancio. Eliminare i parametri di Maastricht attraverso politiche economiche/fiscali comuni. Ridimensionare il ruolo della Commissione, che insieme alla BCE e al FMI formano la famosa troika, che detta le riforme da intraprendere nei singoli paesi. Ripensare il principio dell’unanimità e fare del Parlamento il legislatore dei popoli;
  • a livello internazionale, abolire il debito, cosi come fatto per i debiti di guerra o per l’unificazione tedesca. Regolamentare i mercati finanziari. Sanzionare i paradisi fiscali. Intervenire sul segreto bancario. Introdurre una web tax che colpisca i giganti dell’economia. Ridurre il tempo e distribuire il lavoro, che deve avere una funzione sociale ed ecologica rilevante. Garantire forme di reddito e quanto sia necessario per una vita libera e dignitosa.
  • A livello statale, stabilire la progressività della tassazione,  fissare un limite al cumulo di incarichi e un tetto agli stipendi dirigenziali, onde evitare un potere di ingerenza sulla cosa pubblica. Nel caso di attività in contrasto con l’utilià pubblica (sociale ed ambientale) inasprire il meccanismo sanzionatorio e le espropriazioni. Per i lavoratori un salario minimo adeguato al potere d’acquisto. Dare vita a forme diffuse di gestione dal basso delle attività di impresa. Mutualismo e solidarietà.

In definitiva, solo osservando quanto accaduto nella storia recente, possiamo essere in grado di capire in quale direzione vogliamo andare.

La povertà non è una colpa. La sola colpa è di chi sta in alto.

da Comune-Info