La retromarcia sui detenuti semiliberi fa male a loro e allo Stato
Il governo Meloni non ha prorogato la misura del 2020 che permetteva a 700 detenuti in semilibertà di restare fuori anche la notte, così da alleggerire il sovraffollamento carcerario.
di Luigi Mastrodonato
Mancano pochi minuti alla mezzanotte quando Fernando varca il cancello per entrare nel carcere di Bollate, nell’hinterland milanese. Fernando ha 43 anni, e la sua giornata da detenuto semilibero l’ha trascorsa prima nell’agenzia dove lavora come videomaker, poi facendo qualche ora di volontariato, e infine andando a salutare la famiglia. Fino a poco tempo fa la sua quotidianità si concludeva rimanendo a casa a dormire con la compagna. Ora invece deve ritornare in carcere.
Il governo Meloni non ha prorogato la misura del 2020 che permetteva ai detenuti in regime di semilibertà di restare fuori anche la notte, così da alleggerire il sovraffollamento carcerario. Fernando e le altre persone nella sua condizione, che in questi anni si sono costruite una nuova normalità nel mondo di fuori, si trovano ora catapultati in cella, come se la loro pena fosse ricominciata da capo. “Tornare in carcere in questo modo è stato peggio che entrarci la prima volta”, chiosa Fernando. “È una tortura fisica e psicologica: cosa vogliono ancora da me?”.
I detenuti semiliberi in Italia – Quando nel marzo 2020 la pandemia ha stravolto l’Italia, nelle carceri del paese c’erano più di 60mila detenuti a fronte di una capienza di circa 50mila posti. Numeri che rendevano molto difficile garantire una forma di distanziamento fisico in cella e che avevano portato il governo a intervenire. Con il decreto Cura Italia diverse migliaia di detenuti hanno beneficiato di misure alternative e sono finiti ai domiciliari. La pressione sulle carceri è così diminuita.
Tra quelli che hanno visto cambiare la propria condizione ci sono i semiliberi. Come spiega la legge 344/1975, “il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale”. Questo regime oggi riguarda circa 700 persone, detenuti che hanno già scontato gran parte della pena e che hanno mostrato una buona condotta. La notte devono tornare in carcere, ma la normativa stabilisce che possono anche ottenere permessi premio fino a 45 giorni annui. Il decreto Cura Italia del marzo 2020 aveva cancellato quest’ultima limitazione, consentendo ai semiliberi di restare giorno e notte fuori del carcere senza paletti. Ma ora le cose sono cambiate.
Il governo Meloni non ha prorogato la disposizione e dal 31 dicembre 2022 i detenuti semiliberi sono tornati a dormire in carcere ad anni di distanza dall’ultima volta. Una brutale interruzione del percorso di integrazione e reinserimento sociale che si stavano faticosamente costruendo.
Percorsi di risocializzazione interrotti – Per Fernando è cominciata una nuova, triste routine. Entra nel carcere di Bollate poco prima della mezzanotte ed esce alle sei di mattina per andare al lavoro. Una detenzione di sei ore che potrebbe sembrare simbolica, ma che nei fatti gli sta complicando parecchio la vita.
“Le persone con cui condivido la cella si trovano in un regime diverso dal mio, quindi non lavorano”, spiega. “Loro giustamente durante il giorno dormono, dato che non hanno praticamente alcuna attività da fare, poi stanno fino a notte fonda a chiacchierare, fumare sigarette e giocare a carte. Per me diventa impossibile dormire e questo si riflette sulla mia attenzione in ufficio”. A complicare le cose gli spazi ristretti: Fernando racconta che nella sua cella, omologata per tre persone, sono in cinque e presto diventeranno sei. Andare e tornare dal carcere è poi un grande spreco di tempo: la casa e l’ufficio sono a Milano, da Bollate ci vuole più di un’ora con i mezzi di trasporto pubblici.
I percorsi di reinserimento sociale sono alla base dell’abbattimento degli alti tassi di recidiva in Italia – Ma al di là di questo, il problema principale è la frustrazione per essere tornato indietro nel tempo. “Sembrava fosse finita, dopo quasi due anni mi stavo riabituando alla vita di fuori e mi stavo reintegrando, ora invece mi trovo di nuovo in cella”, sottolinea. “È una retromarcia nel percorso educativo ma anche un costo per gli italiani. Lo stato ha speso un sacco di soldi dei contribuenti per rieducarmi e reinserirmi socialmente e ora che il processo è a buon punto mi fa tornare in carcere. È una sconfitta per tutti”.
Per cercare di risolvere il problema del sonno Fernando è riuscito a farsi spostare il turno di lavoro, così da poter cominciare in tarda mattinata. Il piano è di uscire dal carcere all’alba dopo la solita notte in bianco, passare da casa per dormire un paio d’ore e poi attaccare con l’attività di videomaking. Prima di cominciare con questi nuovi ritmi ha però deciso di usare subito 15 dei suoi 45 giorni annui di permessi premio. “Ho fatto così perché stavo per impazzire, dovevo prendermi una tregua”.
“Un accanimento terapeutico” – Pierdonato, 63 anni, ha ottenuto la semilibertà proprio nell’anno del covid-19 e dopo 25 anni è tornato a riassaporare il mondo di fuori. In questi tre anni ha conseguito una laurea in sociologia con il massimo dei voti al polo universitario penitenziario di Secondigliano, a Napoli. Poi ha cominciato a lavorare nell’area politiche sociali di un comune del casertano. Un conoscente che faceva volontariato in carcere gli ha messo a disposizione casa sua, dove ha vissuto giorno e notte grazie alle maglie più larghe del decreto Cura Italia. Per Pierdonato sembrava insomma cominciata una nuova vita, ora però anche lui deve tornare in carcere ogni sera.
“Dopo lungo tempo sento di nuovo quella brutta sensazione di ossa ammaccate e frustrazione a causa di letti disgraziati, celle fredde e bagni senza porte”, chiosa. “Le istituzioni dovrebbero attuare un principio di progressione del trattamento penitenziario, quindi se io da A sono andato a B, poi a C e poi a D non devi riportarmi indietro ma in avanti. Eppure c’è un’involuzione al posto dell’evoluzione”. Ogni mattina alle sette un addetto del comune passa a prendere Pierdonato fuori del carcere di Santa Maria Capua Vetere e lo porta al lavoro. Alla sera, dopo un po’ di tempo trascorso a casa, viene accompagnato in prigione per dormire. “Che finalità ha tutto questo? Io allo stato ormai servo molto più fuori che dentro”, si interroga Pierdonato.
La scelta del governo Meloni di non rinnovare la disposizione sui semiliberi è un problema sotto diversi punti di vista. In primo luogo c’è il paradosso dell’interruzione di percorsi di risocializzazione che stavano funzionando bene, dal momento che in questi ultimi anni nessun semilibero beneficiario del Cura Italia si è macchiato di nuovi reati. Proprio i percorsi di reinserimento sociale sono alla base dell’abbattimento degli alti tassi di recidiva in Italia, che sono al 70 per cento in termini generali ma crollano al 2 per cento tra chi lavora. In secondo luogo c’è un problema economico per lo stato. Un detenuto in carcere costa più di 150 euro al giorno, farlo tornare a dormire in cella costituisce una nuova voce di spesa.
C’è infine il tema del sovraffollamento. Come ha sottolineato alla fine del 2022 l’associazione Antigone, le presenze nelle carceri italiane stanno tornando a livelli preoccupanti. I detenuti sono quasi 57mila su 51mila posti, ma di questi circa quattromila vanno considerati indisponibili. Nel 39 cento degli istituti ci sono celle dove il parametro minimo dei tre metri quadri di superficie calpestabile per ciascuno non è rispettato. Il governo Meloni ha però deciso di far rientrare nelle carceri ulteriori 700 detenuti semiliberi, invece che alleggerire la pressione.
Cambiare lo stato delle cose è possibile. Entro la fine di febbraio il parlamento deve convertire in legge il decreto numero 198 della legge 29 dicembre 2022 “Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”. Al suo interno potrebbe trovare spazio all’ultimo momento anche la proroga della normativa sui detenuti semiliberi introdotta con il decreto Cura Italia del 2020 e decaduta nel 2023. Per Fernando, Pierdonato e i 700 detenuti in questa condizione significherebbe vedersi riconosciuto il grande lavoro personale di risocializzazione portato avanti negli ultimi tre anni. Per lo stato italiano vorrebbe dire smettere di rinnegare quel fine rieducativo della pena contenuto nella costituzione. “Siamo come pazienti guariti che non vengono mai dimessi dall’ospedale”, sbotta Pierdonato. “C’è una sorta di accanimento terapeutico nei nostri confronti. Verrà però il tempo in cui le cose cambieranno”.
da L’Essenziale
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