Esistono due studi che dimostrano come la recidiva si abbassi notevolmente quando si ricorre a misure alternative e al lavoro
È stata battezzata “svuotacarceri”: in realtà la riforma dell’ordinamento penitenziario non fa uscire automaticamente nessuno, a piede libero, dalle patrie galere. C’è chi parla di favori a mafiosi e terroristi, ma le modifiche apportate ad alcuni articoli non toccano minimamente le due tipologie criminali: i reati in questione, infatti, restano “ostativi”, ovvero esclusi dalla possibilità di accedere a pene alternative.
In un editoriale del Fatto, a firma di Marco Travaglio, viene giudicata negativamente la previsione, inserita nella riforma, di portare da 3 a 4 anni il limite di pena entro il quale è possibile ottenere l’affidamento in prova. Però sempre nello stesso editoriale, Travaglio ricorda come la Consulta si fosse pronunciata nello stesso senso. Quindi – forse inconsapevolmente – lo stesso direttore del Fatto riconosce che la riforma si è adeguata all’evoluzione normativa. Ergo, si tratta di un aggiornamento necessario.
Ma l’affidamento ai servizi sociali corrisponde alla mancata applicazione di una sentenza di condanna? Le persone saranno a piede libero? No, parliamo di una delle tante forme di esecuzione penale che non prevedono necessariamente il carcere: a decidere caso per caso sarà sempre il magistrato di sorveglianza. La riforma, però, non solo implementa questa misura alternativa, ma stabilisce che il condannato deve responsabilizzarsi. Altro che riforma morbida nei confronti di chi ha commesso un reato.
All’atto dell’affidamento ci sarà un piano di trattamento individuale in cui entrano in gioco i rapporti con l’Uepe ( Uffici per l’esecuzione penale esterna) e con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cure e sostegno. Chi ha commesso il delitto ( ricordiamo per reati di massimo 4 anni, quindi non parliamo di persone pericolose socialmente) dovrà assumersi specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, adoperarsi anche a favore della vittima.
Poi Travaglio fa un po’ di confusione, forse dovuta alla scarsa conoscenza dell’ordinamento, quando testualmente scrive: «Chiunque sia condannato a meno di 4 anni resta libero e fa domanda per i domiciliari ( o, sotto i 2, per i servizi sociali)». La riforma ha semplicemente parificato i soggetti liberi con quelli detenuti prevedendo che l’articolo 656, comma quinto, del codice di procedura penale introducesse una soglia più alta, in modo da poter presentare l’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali fino a 4 anni. Peraltro il limite dei 2 anni che il direttore cita nell’editoriale è per l’istanza di accesso alla detenzione domiciliare, non per l’affidamento.
«Si sbandierano statistiche sui tassi di recidiva di nessun valore scientifico – scrive sempre Travaglio –, per dimostrare che chi sconta la pena in carcere torna a delinquere più spesso di chi sta a casa o ai servizi sociali». In realtà esistono due studi ben precisi sulla recidiva e l’effettività dell’affidamento in prova. Sono studi statistici che hanno ovviamente un valore scientifico, visto che hanno lo scopo – attraverso dati reali e non meramente “percepiti” – di descrivere e comprendere il fenomeno della carcerizzazione. Il primo risale al 2007 venne elaborato dall’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento dell’amministrazione della polizia penitenziaria. Segnala che nel 1998 furono scarcerate 5.772 persone e che 3.951 di queste si trovavano di nuovo dentro nel 2005: quasi il 70 per cento era tornato a delinquere. Sempre dai dati elaborati dal ministero emerge che la percentuale dei recidivi scende invece al 19 per cento se il rilevamento si restringe a chi è stato destinatario di misure alternative. A quest’ultimo dato va associato un altro rilevamento secondo il quale, a ogni punto percentuale in meno di recidivi, corrisponde un risparmio di circa 51 milioni di euro all’anno. Cosa significa? Assegnando un detenuto a una pena alternativa, non solo c’è più sicurezza, ma si ottiene anche un notevole risparmio per i contribuenti.
Il secondo riscontro statistico, con un approccio scientifico ancora più rigoroso, viene da un lavoro elaborato nel 2012 e condotto dall’Einaudi Institute for Economics Finance ( Eief), dal Crime Research Economic Group ( Creg) e dal Sole 24Ore: anche in questo caso viene dimostrato come la recidiva si abbassi notevolmente quando i detenuti possono accedere alle misure alternative e al lavoro.
Travaglio scrive che per combattere la recidiva ci vorrebbero più carceri, magari dignitose, e meno alternative fuori le mura. Sostenere la tesi contraria non equivale a farsi alfieri di quella che il direttore del Fatto definisce «pseudo cultura della sinistra». I dati contano più delle opinioni: come ha rilevato il Consiglio d’Europa, lì dove sono stati costruiti nuovi penitenziari si è spesso registrato un incremento della popolazione carceraria, senza alcun vantaggio in termini di sicurezza sociale. Non è una questione ideologica, ma puramente scientifica.
Travaglio, ancora, cita la modifica del 4 bis, scrivendo che le Procure antimafia non potranno più trasmettere ai Tribunali di Sorveglianza le notizie relative ai legami con i clan dei detenuti aspiranti ai benefici. Non è esattamente così. Nella riforma c’è una novità che può tranquillizzarlo: è previsto il parere del Procuratore della Repubblica competente per distretto di pronuncia della sentenza. Chi meglio di lui conosce la mafia che agisce nel territorio di competenza?
Per quanto riguarda lo scioglimento del cumulo di pena, anche in questo caso il direttore del Fatto può rasserenarsi. Il 41 bis è rimasto fuori della riforma e non viene modificato. Pertanto non sarà possibile uno scioglimento del cumulo che escluda l’applicazione del regime duro: lo vieta l’inequivoca formulazione dell’articolo 41 bis comma 2, che blinda la possibilità, per il detenuto in 41 bis, di trarre vantaggio dallo scioglimento del cumulo, con una legge non derogabile.
Sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, come per tutto ciò che riguarda il nostro Paese, sarebbe opportuno dividere i fatti dalle legittime opinioni.
Damiano Aliprandi
da il dubbio