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La rispettabilità della divisa e altre leggende

Durante la conferenza stampa sugli arresti dei carabinieri di Piacenza, Grazia Pradella, il procuratore capo del tribunale piacentino, nonché titolare delle indagini, pronunciava parole di incredulità e smarrimento. Si potevano leggere sul suo volto, si potevano intuire nella voce incrinata, indignata.

Avremmo voluto consolarla e rivelarle un segreto di pulcinella: “lo schifo che hai visto a Piacenza durante le indagini”, avremmo voluto sussurrarle, “lo puoi tranquillamente trovare in altre decine di caserme e questure sparse in tutta Italia”. Solo che nessuno vuole sollevare quel coperchio.

E che qualcuno quel coperchio lo abbia sollevato a Piacenza è solo per una serie di fortunate coincidenze. Su tutte: l’inizio di un’ ordinaria indagine per droga che è andata poi a incrociarsi con la confessione di un carabiniere di quella caserma. Ed è venuto giù tutto.

Guardando le foto di questi tizi che persino gli inquirenti faticano ad appellare “carabinieri” si faceva largo un senso di deja vù.

Sono volti che vedi nei quartieri degradati di Napoli a fare scippi o a fare da bassa manovalanza alla camurrìa di quartiere. E no, Lombroso non c’entra niente. Chi scrive è di Napoli e certi volti solcati dalle strade del sud li conosce molto bene, li ha subìti, li ha abbracciati, li ha aiutati quando è servito, li ha ascoltati quando è servito, li ha disprezzati quando è servito, ci ha mangiato insieme.

Sono ragazzi che a un certo punto si trovano di fronte a una scelta: “a Napoli prospettive non ce ne sono. O vado a fare un lavoro di merda a nero, in una fabbrica a San Giovanni a Teduccio, per 600 euro al mese se va bene oppure mi affilio al boss di quartiere e faccio i meglio soldi ma campo altri tre o quattro anni al massimo”.

Oppure c’è una terza via: mi arruolo. Carabinieri. Volontario a ferma breve nell’esercito a Verona, Pistoia o chissà dove. Concorso in polizia, guardia di finanza, polizia penitenziaria. Spesso c’è un lontano parente a raccomandare, spesso per oliare i concorsi basta versare qualche cospicua mazzetta, come dimostrato in diverse inchieste.

Paesi come Frattaminore vicino Napoli, Cisternino vicino Brindisi, o come altri buchi di culo del sud dove regnano degrado, povertà e assenza di prospettive, sono in realtà enormi bacini di riserva per rimpolpare le fila dell’esercito, della polizia, dei carabinieri e delle forze dell’ordine.

Il confine che separa una carriera da scippatore da quella di appuntato è molto sottile. Sono due carriere che non richiedono una particolare formazione né particolari risorse mentali, sono parallele e speculari, sono l’archetipo dell’antichissimo gioco di guardie e ladri.

E potremmo dire che nemmeno le alte gerarchie brillano per Q.I. medio.

Senza spingerci troppo in là col giochino dei confronti e dei parallelismi: guardie e ladri parlano la stessa lingua, perché affondano le radici nello stesso terreno. Devono sapersi fiutare, riconoscere, spesso devono dividersi un territorio o spazi vitali per entrambi. Accade in ogni città, in quelle di provincia e nelle metropoli. E’ un gioco di equilibri al servizio del “bene” ma molto più facilmente al servizio del “male”.

E spesso questo equilibrio si spezza, sbilanciando il gioco in modo assai marchiano come avvenuto a Piacenza, dove i carabinieri diventano i protagonisti di “The Shield”, la serie sui poliziotti corrotti di Los Angeles.

Lo stupore della pur valorosissima dottoressa Pradella origina da un’ingenuità di fondo. L’ingenuità, ampiamente condivisa dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, di ritenere le istituzioni in generale e le forze dell’ordine in particolare entità vergini, pure, avulse dalla realtà, incorruttibili. Nulla di più lontano dal vero.

Cos’altro serve a demolire questa leggenda della divisa pura e immacolata?

Cos’altro occorre per identificare nelle forze dell’ordine l’ingranaggio principale, la connessione cardinale, il vero fluidificante tra pezzi di istituzioni alte o basse – o tra intere istituzioni – deviate, depravate e corrotte?

La corruttela in divisa parte da prima del G8 di Genova.

I fatti del G8 sono serviti alle generazioni anni ’80 e ’90 a imparare la lezione che altri avevano imparato nel dopoguerra e nel ’68: il presidio di ordine pubblico preposto a difesa di uno stato corrotto non può che essere corrotto a sua volta.

Quasi ogni processo scaturito da episodi di brutalità poliziesca si porta dietro un processo paralello per depistaggi, inquinamento delle prove, calunnie e quant’altro di concepibile nel corredo della mistificazione e della menzogna. Lo abbiamo visto nei processi per il G8, che hanno portato a verità processuali offensive e irriguardose nei confronti delle vittime. Lo abbiamo visto in Aldrovandi. Lo stiamo vedendo in Cucchi. Lo abbiamo visto in tutti i processi relativi a morti non chiarite e con pubblici ufficiali coinvolti.

Perché corruzione e menzogna vanno di pari passo e trovano terreno fertilissimo nella divisa, il grande ombrello, il grande muro, il grande paravento, il rifugio sicuro del potere e di chi vuole esercitarlo su piccola o larga scala. Ogni poliziotto, ogni carabiniere, ogni finanziere ha in mano una bomba atomica. E la bomba atomica in pochi possono maneggiarla.

Anzi, più si sale la scala del potere, maggiore è la tentazione di farla detonare in tutta la sua potenza. A Piacenza non si sono risparmiati, pare.

La bomba ha fatto un bel casino.

La cricchetta di gangster, diversa da una gang qualunque solo per il fatto di indossare una divisa, rischia di diventare un grande colpo di spugna su tutto il resto. Ed è su questo che bisognerà vigilare.

Le condanne, gli arresti, il pubblico ludibrio – che piaccia o meno il pubblico ludibrio – non dovranno farci dimenticare le centinaia di squallidi episodi pregressi e le centinaia di squallidi episodi che inevitabilmente arriveranno.

Salvatore Cappellano, Angelo Esposito, Giacomo Falanga, Daniele Spagnolo, Giuseppe Montella, Marco Orlando e Stefano Bezzeccheri, i prodi carabinieri di Piacenza sono solo la punta dell’iceberg ed è da loro che bisogna partire per iniziare a demolire la leggenda della rispettabilità eroica di ogni divisa. Per risanare questa frattura tra società e istituzioni bisogna spazzare via la grande, menzognera idea di un’ inviolabilità dell’uomo in uniforme. Se non ci siamo riusciti con il G8 di Genova, se non ci siamo riusciti con nessun processo per malapolizia – per non parlare degli altri episodi di cronaca simili ai fatti piacentini ma che inspiegabilmente non hanno avuto la stessa risonanza – proviamoci con le vicende di questi quattro sfigati trapiantati in provincia, che si fanno fotografare con settantacinque euro in mano sentendosi veri gangster.

Il che farebbe ridere, se non li avessimo sentiti nelle intercettazioni prendere a schiaffi chissà quale malcapitato maghrebino, se non avessimo letto gli abominevoli parallelismi tra le proprie gesta e quelle dei protagonisti di Gomorra. Frasi che non vogliamo nemmeno citare qui, tanta è la miseria umana che trasuda da questi personaggi e dal loro rantolare, ma che troverete su tutti i giornali.

Fatto sta che hanno creato un sistema infallibile, crollato solo per la delazione di una “mosca bianca”, la rara mela sana in un cesto di mele marce. Fatto sta che questo sistema ha contato anche sulla connivenza degli alti gradi, ai quali bastava che i gangster portassero risultati, ovvero arresti, arresti, arresti. Cosa c’è di meglio dell’arresto di un maghrebino come copertura per pestarlo o magari farci affari insieme? O magari entrambe le cose?

Per demolire la leggenda della rispettabilità delle divise bisogna liberarsi di due barriere mentali.

La prima è qualcosa di simile alla sindrome di Stoccolma, che nel caso delle forze dell’ordine si traduce in una vera e propria dipendenza. Siamo mentalmente “sequestrati” da una malintesa idea di sicurezza sociale e di tutela che non trova riscontro nella realtà. Leggetevi le storie di donne che hanno denunciato più e più volte inutilmente le violenze domestiche subite, per poi finire ammazzate. Leggetevi i surreali resoconti di chi è andato a sporgere denunce per i fatti più disparati e si è trovato quasi sempre di fronte all’immobilità delle forze dell’ordine, se non di fronte al dileggio. Leggetevi l’infinità di storie di inefficienza e superficialità o, al contrario, di accanimenti a senso unico, pretestuosi, ad personam, di vendette, di interessi particolari e privati, interessi di ogni ordine e grado che vedono coinvolte tante e tante divise. Un mosaico infinito di storie sotto il cui peso la mitologia della pubblica e immacolata sicurezza si sgretola impietosamente.

La seconda barriera è la gratitudine: non può esserci gratitudine verso chi si macchia ogni giorno di ogni tipo di reato proprio in virtù del fatto di indossare una divisa. Sareste grati a stupratori, assassini, ladri e truffatori? No. E allora perché essere grati ai pubblici ufficiali per il solo fatto di indossare una divisa o per il solo fatto che essi compiano il proprio lavoro, ovvero pattugliare le strade e accciuffare i malnati? Perché poi avviene che in base a questa assurda “gratitudine” si crei quello scarto mentale fondamentale, che è esattamente ciò di cui parliamo: la moneta di scambio per quella gratitudine è lasciare alle forze dell’ordine carta bianca per fare ciò che vogliono.

La gratitudine per quel miraggio securitario porta a voltare lo sguardo dall’altra parte, a giustificare, perdonare, a rifiutarsi di accettare la realtà, ovvero che anche le mostrine e le stellette sono soggette alle debolezze umane e commettono reati. Forse in misura maggiore rispetto ai comuni cittadini. Forse proprio per quella cappa difensiva che è la divisa.

E questa gratitudine spalanca le porte alla retorica delle mele marce, all’odiosa frase “non bisogna fare di tutta l’erba un fascio”. Concetti vuoti, privi di senso, dannosi. LETALI.

Sono grato all’operaio che mi ha costruito casa, ma non per questo gli consento di stuprare bambine.

Sono grato alla maestra di mio figlio, ma non per questo le consento di drogarsi nei bagni durante le lezioni.

Posso essere grato al poliziotto che mi ritrova la macchina rubata o assicura Totò Riina alla giustizia, non per questo devo tollerare fatti come quelli di Aulla, Firenze o Piacenza.

Capirete da soli che è un discorso che non sta in piedi. Per demolirlo basta partire dall’assunto che fare l’agente di pubblica sicurezza è un mestiere come un altro e per nessun motivo al mondo deve essere ritenuto speciale, importante. Perché dovrebbe esserlo?

Separare la divisa dall’idea di potere che si porta dietro, non potrà che portarci a una società inevitabilmente migliore e a una diminuzione dei reati commessi da pubblici ufficiali in servizio e fuori servizio.

E per quanto ci riguarda, confidiamo che spuntino altre Grazia Pradella un po’ ovunque. Perché di materiale su cui indagare ce n’è ma, come diceva Pasolini, “non abbiamo le prove”.

Adriano Chiarelli

da Malapolizia

No Comments

  • Andrej

    Ma non era molto in via di sviluppo anzi, da terzo mondo.

    Questa mancata operatività non si può attribuire ad una persona ma ad un insieme.