La Sentenza Viola: Tra la Resipiscenza e la Pericolosità scorre, lentamente, l’Uomo
- luglio 25, 2019
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SOMMARIO: §1. L’argomento più caro all’uomo è l’uomo medesimo – §2. La sentenza Viola c. Italia – §3. Il revanscismo della pericolosità?
“non vi ha reato che si riduca a pericolosità, né pericolosità che si elevi a reato[1]”
- 1. L’argomento più caro all’uomo è l’uomo medesimo
Lo studio dell’esecuzione della pena sembra ridursi(?), con buona pace delle possibili divagazioni, allo studio dell’essere “uomo” in quanto tale. Come scriveva “antica dottrina”, d’altronde, “fondamento del diritto di punire è la necessità naturale di proteggere il diritto, formula nella quale meglio che in qualunque altra si esplica il concetto della protezione e della difesa della personalità umana[2]”. Si comprende, dunque, che espressioni come “proteggere il Diritto, fare giustizia, mantenere l’ordine sociale e tutelare le esigenze di sicurezza dei cittadini” null’altro sarebbero se non “trascendenze (lessicali e non)” capaci di adombrare, in nuce, la vera essenza dello ius puniendi: l’autoconservazione dell’animale umano.
Non sorprende, in tal senso, che uno dei più celebri “diritti de’ popoli” ponga dei limiti alla mano – sempre più spesso frenetica – del legislatore: “che la legislazione non oltrepassi gl’immutabili confini della giusta moderazione nel decretare le pene, [poiché] deve altresì essere cura della società tutta che i suoi individui sieno persuasi della loro giustizia[3]”. La “giusta” pena dovrebbe, quindi, poggiare su radici “quasi contrattualistiche”, simili a quell’utopico(?) “contratto punitivo” ben descritto dal Romagnosi in questi termini: “quanto è desiderabile all’ordine sociale quell’accordo in cui il reo nell’atto di subire la pena dice a sé stesso: io me la sono meritata; e lo spettatore pronuncia che ella è giusta! Questa voce, sollevata dal sentimento indelebile di approvazione pel giusto e pel vero, proprio dell’essere intelligente e morale, è l’oracolo della stessa natura. Felice quel popolo, nel quale questo sentimento è un cooperatore colla legislazione![4]”. In questi termini la pena sembra emergere, dunque, come una mera difesa, “avente nel reato la occasione per esplicarsi[5]”. L’esasperazione di tale concettualizzazione vede, addirittura, nella punizione “una continuazione” del crimine: “la peine est une suite de l’infraction[6]”, scriveva lo Swinderen.
Perché allora, verrebbe da chiedersi, “nell’odierna letteratura penologica un tema ricorrente è quello della crisi della risposta custodiale[7]” e, più genericamente, della pena? Molto probabilmente – come, forse, ci suggerirebbe lo studio del mito di uroboro – perché “l’argomento più caro all’uomo è l’uomo medesimo[8]”: ne consegue che una pena percepita come “ingiusta” può ingenerare (quasi istintivamente) reazioni di “sdegno” parificabili in toto a quelle scaturenti dal suo “antecedente logico necessario”: la commissione del fatto criminoso. Se, infatti, fondamento del diritto di punire è la “necessità di mantenere le condizioni necessarie per la vita completa dell’aggregato[9]” non appare illogico sostenere che la pena, allorquando non risultasse necessaria ovvero eccedesse i propri confini, potrebbe – essa stessa – ostacolare “la vita completa dell’aggregato” creando risentimenti tanto nel soggetto punito quanto nella platea degli inerti osservatori.
Si pensi, aprendo e chiudendo una breve parentesi, al c.d. “stato di natura”. Il Crivellari, che certo non ne era un appassionato sostenitore, scrisse al riguardo: “la natura accoppiando l’eguaglianza dei diritti ha sparso fra gli uomini un’ammirabile diversità di forze fisiche e intellettuali, di morali attitudini, di inclinazioni e di tendenze. Pongansi gli uomini a contatto fra di loro e si vedrà crescere in essi la misura dei bisogni, dei desideri e delle passioni; l’intemperanza dell’amor proprio renderà molti di essi ingiusti a danno dei loro simili; vorranno accoppiare i vantaggi della riunione colla sfrenata libertà di tutto operare[10]”. Si rendeva, dunque, necessaria un’entità terza ed imparziale, capace di gestire il conflitto: quella che il celebre Giurista definì una “forza preponderante (stato, governo) [che] dev’essere il substractum dell’associazione[11]”. Tale forza, purtuttavia, doveva – e deve – conoscere dei limiti poiché per “esercitare il summum jus di infrenare gli attacchi ai diritti dei consociati ha bisogno di essere investita di un supremo potere, quello cioè di infliggere un male giusto al male ingiusto che sia consumato o che si tenti di consumare a pregiudizio di tutti o di alcuno dei membri della consociazione; potere che va a costituire quello che dicesi diritto di punire[12]”. Il diritto punitivo s’appaleserebbe, dunque, come il potere “supremo”, capace di discernere il giusto dall’ingiusto e di stabilire, avendo riguardo all’ingiustizia del crimine, la “giustezza” della pena. È in tal senso, verrebbe da dire, che “la sanzione applicata ad un colpevole ravviva nella società la coscienza della moralità[13]” e ri(con)duce, come teorizzato dal Lanza, l’intarsiamento di tutta la funzione della pena all’“istituto della responsabilità individuale[14]”. Una responsabilità, si potrebbe aggiungere, posta tanto in capo al reo quanto alla collettività di riferimento. È da questi presupposti, forse, che trae origine la crisi della penologia e della penalità. A ciò deve aggiungersi una presa di coscienza – alla quale non si sottrasse il Magri – assai poco fausta: “nel sistema logico lo studio dei rimedi è sempre l’ultimo, poiché presuppone la nozione delle cause morbose[15]”. Lo studio della pena (dei rimedi) sconta, dunque, la mancanza dei propri presupposti dovuta al difficile “inquadramento” delle cause morbose e, in estrema sintesi, dell’animo umano. Come definire, ci si potrebbe quindi chiedere, la giustezza della pena?
- 2. La sentenza Viola c. Italia
La recentissima pronuncia della Corte Europea è apparsa nel “nostro” universo giuridico del tutto inaspettatamente e, purtuttavia, sembra aver rinvenuto la propria scaturigine anche in un tessuto sociale che, a mano a mano, sembrava andare sempre più consolidandosi. “Ubi societas, ibi ius e ubi ius, ibi societas[16]” direbbe, forse, l’Autore di tale celebre dittico. Come scriveva il De Marsico – riferendosi, chiaramente, a ben altri periodi – è, d’altronde, pacifico che in alcune epoche la civiltà senta “poderosa e improrogabile l’esigenza di adeguare il diritto alla realtà con la stretta aderenza che unisce al corpo il suo tegumento[17]”. Avendo riguardo alla pena perpetua – ora come allora (potremmo dire?) – pare essere sorto, in particolare, “dal grembo delle cose l’ammonimento che il sistema giuridico rimarrebbe vacuo aggregato di formule se non assimilasse il contenuto che il nuovo indirizzo gli offre[18]” e che, dunque, l’ostatività della pena, sferzata da – troppo spesso glissate – logiche collaborative, debba essere oltre-passata.
Il caso: Marcello Viola, sottoposto al regime detentivo ex art. 41bis O.P. da circa vent’anni, proponeva ricorso alla Corte di Strasburgo lamentando di essere stato condannato ad una pena detentiva “a vita, incomprimibile, che qualifica[va] [per tale motivo] inumana e degradante[19]”. Deduceva, dunque, la violazione degli artt. 3 ed 8 della CEDU sostenendo di patire una pena priva di qualsiasi “prospettiva di rilascio[20]” anche – e, forse, soprattutto – perché tale non potrebbe ritenersi l’ipotesi collaborativa (nemmeno nelle ipotesi di accertamento della sua “impossibilità” od “inesigibilità”). L’automatismo secondo il quale l’assenza della collaborazione si identificherebbe, ipso facto, nella pericolosità sociale, continuava il ricorrente, favorirebbe “eccessivamente le esigenze di politica criminale, a discapito degli imperativi penitenziari di risocializzazione e comporterebbe [dunque] una violazione della dignità umana di ogni detenuto[21]”. Un meccanismo di tal sorta (generato dal “combinato disposto” dagli artt. 22 c.p. e 4bis, 58ter O.P.), in sostanza, ridurrebbe l’uomo ad il suo reato e frustrerebbe, in tal guisa, l’esigenza rieducativa e risocializzativa tanto cara alla pena.
La Corte Europea, riprendendo – seppur in parte – alcuni propri precedenti, ha evidenziato, in primo luogo, che “la dignità umana, situata al centro del sistema creato dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguardare un giorno questa libertà[22]”. Il c.d. ergastolo ostativo secondo la Corte, dunque, “limit[erebbe] eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena[23]”.
Appare degna di nota, in tal senso, la riflessione posta dalla Corte alla base della pronuncia: “se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta di collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di questa scelta, come dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato […]. La mancanza di collaborazione potrebbe [infatti] essere non sempre legata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza.[…] Si potrebbe ragionevolmente essere messi di fronte alla situazione dove il condannato collabora con le autorità, senza che tuttavia il suo comportamento rifletta un cambiamento da parte sua o una “dissociazione” effettiva dall’ambiente criminale, in quanto l’interessato potrebbe agire con l’unico proposito di ottenere i vantaggi previsti dalla legge[24]”. Se ne deduce, dunque, che “se altre circostanze o altre considerazioni [differenti da un generico rifiuto] possono spingere il condannato a rifiutare di collaborare, o se la collaborazione può eventualmente essere proposta con uno scopo puramente opportunistico, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al reale percorso rieducativo del ricorrente [poiché] considerando la collaborazione con le autorità come la sola dimostrazione possibile della dissociazione del condannato e del suo cambiamento, non si [tiene] conto degli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia[25]”.
La tesi sostenuta dalla Corte, in conclusione, esprime un concetto quasi ‘equazionale’ secondo il quale se è vero, come – peraltro – pare, che “la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso [poiché] essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità[26]” e se “l’assenza della collaborazione con la giustizia determin[a] una presunzione assoluta di pericolosità, che ha per effetto quello di privare il [detenuto] di ogni prospettiva realistica di liberazione[27]” allora, il detenuto “rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la sua punizione rimane immutabile, insuscettibile di controllo e rischia anche di appesantirsi con il tempo[28]” e la detenzione diviene, con buona pace dei principi tanto cari alla moderna penologia, del tutto vana.
Molte luci, si potrebbe dire, sembrano promanare dalla sentenza a quo ma, al contempo, l’occhio dell’inerte osservatore potrebbe intravedere numerose zone d’ombra: se la sentenza, infatti, emana luce nel momento in cui evidenzia che la situazione degli ergastolani ostativi “rappresenta un problema strutturale [ed indica allo Stato] la necessità di una riforma della pena perpetua, possibilmente di iniziativa legislativa, che garantisca un riesame della pena, che permetta alle autorità di valutare se il detenuto abbia compiuto un tale percorso di rieducazione da privare la prosecuzione della detenzione di alcuna ragione[29]” mostra, al contempo, numerose ombre nel momento in cui, per indubbi limiti oggettivi, crea un vuoto ‘normativo’ che difficilmente potrà essere colmato dall’attuale legislatore (forse anche a causa di una certa temperie cultural-politica). Come notato da alcuni dei primi commentatori, inoltra, risulta “complesso ipotizzare che la decisione possa applicarsi direttamente ai casi analoghi [ed appare, altresì, improbabile] che la magistratura di sorveglianza possa superare il chiaro disposto dell’art. 4 bis O.P. senza un intervento legislativo o della Corte Costituzionale[30]”.
Sia concessa, sempre sulla linea del medesimo fil rouge, anche una personalissima – ed in quanto tale opinabilissima – chiosa: la Corte, nel pronunciarsi, sembra aver preso atto del riconoscimento, in capo al ricorrente, della circostanza aggravante collegata al suo ruolo di capo all’interno del gruppo mafioso di appartenenza e, dunque, dell’impossibilità per l’interessato di “ottenere che la sua eventuale collaborazione [fosse] qualificata come impossibile o inesigibile, conformemente alla legislazione in vigore e alla giurisprudenza della Corte di Cassazione[31]”. Pare evidente, dunque, che nel caso de quo – sempre per indubbi limiti oggettivi della pronuncia – “per determinare se il cosiddetto ergastolo ostativo [fosse] de jure e de facto comprimibile, vale a dire se offrisse [o meno] una prospettiva di rilascio e una possibilità di riesame la Corte si [è concentrata] sulla sola opzione disponibile in capo al ricorrente [ossia la collaborazione] all’interno delle attività investigative e inquirenti condotte dalle autorità giudiziarie al fine di avere una possibilità di domandare e ottenere la liberazione[32]”. Non sembra, dunque, possibile ritenere che la Corte Europea si sarebbe pronunciata (o si pronuncerebbe) nello stesso modo nel momento in cui avesse proposto (o proponesse) il medesimo ricorso un soggetto che – anche solo astrattamente – avrebbe potuto (o potrebbe) instaurare un autonomo procedimento di accertamento dell’impossibilità o dell’inesigibilità della collaborazione. La pena, in quel caso, verrebbe considerata comprimibile?
- 3. Il revanscismo della pericolosità?
Alcune pagine di antica dottrina sembrano consegnare ai posteri un monito che si ritiene applicabile anche nel tentare la scrittura delle modestissime conclusioni di questa riflessione: “nel corso de’ tempi seguì sempre dopo la colpa il castigo, e tuttavia il motivo, il titolo, il modo variò, anzi che la giustizia punitiva si concepisse ed esercitasse rettamente. Non debbo ora né affermare né negare, se il concetto e lo esercizio sieno almeno oggidì retti: imperciocchè dire, e non dimostrare, sembri vana audacia[33]”. L’osservazione scientifica della pena e, con essa, dell’uomo, infatti, paiono lasciare nello studioso una ben sedimentata e triste consapevolezza: ciò che si maneggia è alcunché di insolita evanescenza, tanto facilmente criticabile quanto difficilmente districabile (figuriamoci se della possibile soluzione se ne chiedesse anche la dimostrazione).
Una perplessità, tuttavia, sembra meritare un breve cenno. Se è vero, come pare, che la sentenza Viola c. Italia ha sferzato un grave colpo alla logica collaborativo-premiale e, più in generale, “all’imbuto” dell’art. 4bis O.P. (sempre più alacremente alimentato da un parossismo popolar-securitario) sembra esserlo, altrettanto, la circostanza secondo la quale la Magistratura di Sorveglianza, in questo preciso momento storico (al netto di una pronuncia della Corte Costituzionale e di un intervento legislativo), pare divenire la depositaria di una discrezionalità – e, conseguentemente – di una responsabilità, francamente, eccessiva. Spezzato l’argine collaborativo, infatti, alle istanze di accesso ai benefici presentate dagli ergastolani cc.dd. ostativi, il ‘malcapitato’ magistrato potrà rispondere sollevando una questione di legittimità costituzionale in virtù del contrasto dell’art. 4bis O.P. con il “sistema convenzionale” oppure, più coraggiosamente, fornendo un’interpretazione, ‘convenzionalmente’ orientata, della normativa nazionale. Benché possa ritenersi, quantomeno, improbabile l’inverarsi della seconda opzione – posto che la magistratura dovrebbe effettuare un discreto ‘lancio nel vuoto’, concedendo benefici a chi non ne ha mai usufruito ed a chi, per oggettive ragioni normative, non ha mai potuto godere appieno della ‘progressione trattamentale’ – “un’applicazione” diretta della sentenza Viola c. Italia non sembrerebbe, comunque, in grado di garantire l’automatica fruizione della normativa premiale. Benché, infatti, la Corte Europea abbia sancito il principio secondo il quale il noto automatismo – per il quale la mancanza di collaborazione, con una presunzione assoluta, statuirebbe la pericolosità sociale del detenuto – debba ritenersi in contrasto con la Convezione Europea, tutto questo, molto probabilmente, non può giungere a significare che la pericolosità non possa continuare ad essere desunta da criteri altri ed ulteriori. Paradossalmente, ma non troppo, si potrebbe dire che la pronuncia a quo (al netto di interventi legislativi e di pronunce della Corte Costituzionale) sembra avere, casomai, ampliato la valutazione discrezionale sulla pericolosità affidata alla magistratura favorendo, indirettamente, una devoluzione della questione alla Corte Costituzionale oppure un rigetto dell’istanza fondato sulla pericolosità del detenuto (seppur, in questo caso, desunta da elementi differenti dall’assenza di collaborazione).
Tale argomentazione, oltretutto, sembrerebbe valere unicamente per il detenuto al quale non risulta essere stata contestata la circostanza aggravante collegata al ruolo di capo all’interno del gruppo mafioso di appartenenza: in caso contrario, infatti, il Magistrato di Sorveglianza adito ben potrebbe dichiarare inammissibile un’eventuale istanza di accesso ai benefici ritenendo, comunque, necessaria l’instaurazione del procedimento di accertamento ex art. 58ter O.P. dell’inesegibilità o dell’impossibilità della collaborazione che, al momento e sulla carta, ben potrebbe essere ritenuto – con una certa sottigliezza – idoneo a rendere “riducibile” la pena perpetua. Un ulteriore problema applicativo, inoltre, potrebbe porsi nel caso in cui un magistrato, investito di un’istanza premiale, instaurasse d’ufficio il procedimento ex art. 58ter: se il detenuto, anche al fine di evitare i ben noti tratti “stigmatizzanti” del fenomeno del pentitismo, dichiarasse di rinunciasse a tale procedimento si potrebbe desumere da tale circostanza la sua pericolosità? Il quesito non appare banale poiché la Corte di Strasburgo, nel momento in cui ha affermato che l’assenza collaborazione non può divenire, di per sé sola, indice di pericolosità sociale non ha, al contempo, escluso che la stessa possa configurarsi, assai più modestamente, come uno dei suoi possibili indici: a fortiori si potrebbe predicare un ragionamento di tal sorta nel caso di rinuncia al procedimento.
In estrema sintesi si potrebbe dire che la sentenza Viola c. Italia non sembra configurarsi come una straordinaria eccezione del diritto penitenziario ma, casomai, come una delle sue più ferree regole: ancora una volta sarà il magistrato di sorveglianza l’organo chiamato a giudicare, forse più di qualsiasi altro giudice, l’uomo. Nei rivoli della discrezionalità, lambiti dalle stringenti logiche popolar-securitarie, il giudice dovrà, quindi, valutare la pericolosità sociale di un detenuto che, ex abrupto, chiederà la concessione di un beneficio e, più in generale, della ‘fiducia’. In tale logorante logica dell’aut-aut – dentro o fuori dal carcere – continuerà a consumarsi, inesorabile, il paradosso della legislazione penal-popolare che dimentica, troppo facilmente, i moniti degli antichi maestri secondo i quali: “è pericolosa una definizione quando presenta uno di questi vizi:
- di essere perplessa ed ambigua in ordine al proprio soggetto, oppure al proprio oggetto, e peggio ancora ad entrambi;
- di essere indefinita ed elastica dal punto di vista delle sue pratiche applicazioni, per guisa di poter servire di base o porgere appiglio alle più sperticate deduzioni[34]”.
Entrambi questi vizi, potremmo dire, “sono inerenti alla formula generale che afferma essere fondamento e misura del giudice punitivo la difesa sociale[35]”.
Daniel Monni
Note:
[1] CONTI U., Diritto penale e suoi limiti naturali, Napoli, 1912, p. 41.
[2] LANZA P., Trattato teorico pratico di Diritto Penale, Pisa, 1895, p. 500.
[3] ROMAGNOSI. G.D., Opere edite ed inedite di G.D. Romagnosi sul diritto penale, Milano, 1841, p.13.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] VAN SWINDEREN O.Q., Esquisse du droit penal actuel dans les Pays-Bas et à l’Etranger, Paesi Bassi, 1891, p. 17.
[7] PAVARINI M., I nuovi confini della penalità. Introduzione alla sociologia della pena, Bologna, 1996, p.9.
[8] LOMBROSO C., Delitto. Genio Follia. Scritti scelti, Milano, 1995, p. 218.
[9] MAGRI F., Studio sperimentale intorno ai sistemi repressivi, Pisa, 1893, p. 5.
[10] CRIVELLARI G., Concetti fondamentali di diritto penale, Torino, 1888, p. 5 e ss.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] ARDIGÒ R., Rivista Repubblicana di politica, filosofia, scienze, lettere ed arti, Volume II, 1879, p. 685.
[14] LANZA V., L’umanesimo nel Diritto Penale. Analisi psicologica della reazione penale, Palermo, 1906, p. 225.
[15] MAGRI F., op.cit., p. 5.
[16] ROMANO S., L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Pisa, 1918.
[17] DE MARSICO A., Studi di diritto penale, Napoli, 1930, p. 34 e ss.
[18] Ibidem.
[19] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, Marcello Viola c. Italia, 30 aprile 2019.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Chambre, Vinter e altri c. Regno Unito, 29 maggio 2013.
[23] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, Marcello Viola c. Italia, 30 aprile 2019.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem.
[29] MORI M.S., ALBERTA V., Prime osservazioni sulla sentenza Marcello Viola c. Italia in materia di ergastolo ostativo, in Giurisprudenza Penale Web, Milano, 2019, p. 3.
[30] Ibidem.
[31] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, Marcello Viola c. Italia, 30 aprile 2019.
[32] Ibidem.
[33] ELLERO P., Opuscoli Criminali, Bologna, 1874, pp. 5-6.
[34] CARRARA F., Lineamenti di Politica legislativa Penale, Bologna, 2007, p. 49.
[35] Ibidem.