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La storia di Walid Daqqa mostra tutto l’orrore criminale dell’occupazione coloniale della Palestina

Walid Daqqa, il più «vecchio» prigioniero politico palestinese, 38 anni dietro le sbarre. Membro del Pflp, in carcere ha scritto romanzi e saggi, diventando uno dei più noti intellettuali palestinesi

di Alessandro Ferretti

Se avete amici in buona fede che ancora non sono convinti dei comportamenti criminali dello stato di Israele, fate loro leggere la storia di Walid Daqqa, palestinese, nato nel 1961, morto l’altro ieri dopo 38 anni di galera.

Nel 1986, a 25 anni, Walid Daqqa viene arrestato in relazione al rapimento e successiva uccisione del soldato israeliano Moshe Tamam, avvenuta due anni prima. Secondo l’accusa Daqqa non avrebbe eseguito materialmente l’omicidio, ma sarebbe stato il comandante della cellula del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina responsabile di tale atto.

Il processo non segue le regole del codice penale israeliano, ma le “Defence (Emergency) Regulations” del 1945, un corpus di norme privo di garanzie legali (sostanzialmente equivalente alla legge marziale) imposto in Palestina dall’amministrazione coloniale inglese, abolito nel 1948 dagli inglesi stessi ma ripristinato da Israele per utilizzarlo contro gli arabi.

Pur essendo un civile, Daqqa viene quindi processato da un tribunale militare che non pone alcun limite all’ammissione di prove (anche quelle acquisite in modo illegale) e non prevede il diritto di appello. Venne così condannato all’ergastolo, nonostante si sia sempre dichiarato pacifista e proclamato innocente: la sentenza viene poi commutata in 37 anni di carcere.

In prigione Daqqa riesce a laurearsi (nonostante gli venga impedito di avere libri) e si dedica all’attività politica, conducendo una lunga battaglia legale per ottenere la ripetizione del processo (sempre negata da Israele) e diventando un intellettuale influente e conosciuto sulla questione dei prigionieri e della resistenza all’occupazione israeliana.

Nel 2014 lo scrittore arabo-israeliano Bashar Murkus scrive e produce “A parallel time”, una pièce teatrale basata sugli scritti di Daqqa, e la mette in scena ad Haifa. Succede un putiferio, i media in lingua ebraica accusano l’opera di “incitamento al terrorismo”. Il governo israeliano ne approfitta per tagliare tutti i fondi al teatro Al-Midian, l’unico in Haifa a presentare opere in arabo. Dopo disperati tentativi di mantenerlo in vita, il teatro chiude definitivamente nel 2021.

Nel 2015 gli viene diagnosticata una malattia del sangue, ma rimane in galera. Nel 2017 viene poi anche messo per settimane in isolamento (rischiando così di non poter chiamare aiuto in caso di trombosi) perchè viene accusato di aver favorito il contrabbando di telefoni nella prigione. Per questo, le autorità israeliane lo condannano ad ulteriori due anni di detenzione, posticipando la data del rilascio da marzo 2023 a marzo 2025.

Nel 1999 si sposa in carcere, ma le autorità israeliane gli negano il diritto ad avere incontri intimi con sua moglie (diritto previsto dalla legge israeliana). Eppure, nel 2020 Daqqa ha una figlia, perchè riesce a far uscire clandestinamente di prigione un campione del suo sperma. Per vendetta le autorità israeliane gli infliggono ulteriori restrizioni, tra cui di nuovo l’isolamento e il divieto di visita da parte dei parenti. Potrà vedere sua figlia solo una volta in vita sua, nell’ottobre 2022, dopo un’estenuante battaglia legale.

A dicembre 2022, a 61 anni, gli viene diagnosticato un tumore al midollo osseo in stato avanzato: avrebbe bisogno di un trapianto, ma le autorità israeliane non gli danno il permesso. Molti, incluso Amnesty International chiedono il suo rilascio per motivi umanitari e per consentirgli cure adeguate. Nell’aprile 2023 gli viene anche diagnosticata una polmonite e gli viene asportata (in carcere) una gran parte del polmone destro, ma la Corte Suprema israeliana continua a negargli la libertà su parola cavillando sul concetto di “giorni contati”.

Dal 7 ottobre in poi la situazione peggiora ancora di più: Amnesty definisce gli ultimi sei mesi come “un incubo senza fine”. Gli viene vietato qualsiasi contatto con la famiglia, telefonate incluse e il suo avvocato riferisce che gli vengono inflitte vere e proprie torture, pestaggi e altri maltrattamenti.
Walid Daqqa infine muore in galera l’altro ieri, dopo l’ennesimo rifiuto della Corte Suprema di scarcerarlo dopo 38 anni di detenzione, e senza aver potuto dare un ultimo saluto ai suoi cari. Il ministro dell’ultradestra sionista Ben-Gvir si rammarica su Twitter, ma solo perchè avrebbe voluto che Daqqa fosse giustiziato prima… ma la vendetta israeliana non è finita.

Le autorità si rifiutano infatti di consegnare il corpo di Daqqa alla famiglia per celebrare i funerali (che, nella tradizione islamica, devono avvenire al più presto) affermando che il suo cadavere verrà trattenuto fino a marzo 2025, ovvero la data di rilascio prevista per Daqqa da vivo.
Forse non lo sapete, ma il sequestro dei cadaveri palestinesi è una pratica israeliana abituale. Lo stato di Israele detiene arbitrariamente a tutt’oggi i cadaveri di almeno 370 palestinesi; oltre 100, morti dopo il 2015, sono congelati negli obitori mentre oltre 250 sono nei “cimiteri dei numeri”, luoghi in cui dal 1964 i corpi vengono seppelliti senza nome, con un solo cartello numerato. Il tutto, ostensibilmente, per “motivi di sicurezza”; ma secondo altri, il vero motivo è quello di nascondere le prove di torture inflitte ai prigionieri.

Direte che tutto questo è atroce, ma non è ancora finita. La famiglia di Daqqa, come da tradizione, anche in assenza del corpo ha montato una tenda per i funerali per accogliere le persone in lutto. Ebbene, ieri l’esercito israeliano è intervenuto e ha assaltato la tenda, lanciando gas lacrimogeni e sgomberando tutti gli intervenuti, picchiandoli e arrestandone cinque, tra cui due parenti di Daqqa. Poi hanno smantellato la tenda. Tutto questo non è avvenuto a Gaza o in Cisgiordania: è avvenuto in Israele, dove la famiglia di Daqqa (araba-israeliana) risiede da sempre.

Nonostante tutto ciò che Daqqa subì dai suoi aguzzini, rimase sempre una persona umana. Dopo vent’anni di carcere scrisse: “Devo confessare che, dopo 20 anni di reclusione, non sono bravo a odiare, nemmeno di fronte alla rozzezza e alla brutalità che mi impone la vita in prigione. Devo confessare che sono ancora un essere umano aggrappato al suo amore, aggrappato ad esso come una persona che veglia su un fuoco acceso. Persisto nel nutrire e fortificare questo amore, perché rappresenta il mio “modesto trionfo sul mio rapitore”.

Quindi, quando incontrerete qualcuno che in buona fede ancora crede che Israele sia una democrazia, fategli leggere questa storia. Con quelli in cattiva fede risparmiatevi pure la fatica: con chi giustifica genocidi è inutile perdere tempo, dedichiamo le nostre energie alle persone umane e non a psicopatici sanguinari gonfi di ferocia e di odio per l’umanità.

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