Trentuno morti annegati in mare; tra loro, si parla di decine di bambini. Queste le cifre dell’ennesimo “naufragio” in cui muoiono famiglie e giovani diretti in Europa.
Questa volta erano in circa 500, su una nave di fortuna perché i confortevoli traghetti che solcano il mediterraneo sono riservati a chi ha i documenti giusti e in testa un viaggio di piacere. Per chi ha il colore della pelle sbagliato e l’idea di cercare una vita migliore altrove c’è il servizio dei tanto aborriti scafisiti. Dicono le agenzie di stampa che il naufragio è stato causato dalle condizioni meteo-marine. È una maniera di presentare la cosa. Un’altra sarebbe di notare che le stesse condizioni non hanno avuto effetti sensibili sui già citati vascelli riservati ai viaggiatori giusti. Parlare di tragedia significherebbe evocare una fatalità, mentre, come al solito, non c’è niente di aleatorio in questi “naufragi” ma la ricorsività di una politica che ha deciso che la tranquillità elettorale vale più delle morti in mare.
Il clima è d’altronde propizio, dopo settimane di martellanti allusioni più o meno esplicite sulle ONG “colluse” con gli scafisti, in un’operazione politico-mediatica nient’affatto scomoda, come vorrebbero far credere impomatati youtuber, ma appoggiata dalla stessa UE per liberarsi di indiscreti occhi non governativi prima della grande mattanza estiva. Un’UE fedele alle sue linee guida in politica migratoria: lontano dagli occhi, lontano dal cuore (ma con un occhio sempre al portafogli). Da qualche settimana è infatti entrato in forza il Piano Minniti, il fumoso accordo con le “tribù libiche” promosso dal ministro dell’interno italiano assieme alla consegna delle motovedette alle autorità del paese nordafricano, ormai ridotto a spazio di una contesa gangsteristica in cui il più pulito, come si suol dire, c’ha la rogna. Il piano del ministro di ferro fa parte di un più generale ri-posizionamento funzionale dell’Italia nel contesto europeo, infiocchettata nel Migration compact, il progetto cui l’Italia spera di ritagliarsi un ruolo di capo-gendarme d’Europa e rilanciare gli investimenti tricolori nel continente africano. Un orientamento strategico di cui fa parte anche, ad esempio, l’accordo siglato dal presidente tunisino Essebsi a Roma lo scorso febbraio. Il nostro paese ha barattato investimenti e favori nelle politiche commerciali con l’impegno da parte del paese nordafricano a bloccare i flussi di persone – ché quelli di denaro, ça va sans dire, devono intensificarsi. Proprio in Tunisia, a Tatouine, si combatte in questi giorni a forza di scioperi e blocchi contro un governo corrotto che incarcera gli oppositori e drena le risorse del territorio in accordo con le compagnie petrolifere occidentali, lasciando migliaia di disoccupati per strada. Restare non si può, per la rapina della propria terra; fuggire nemmeno, perché ne gli accordi sulla sicurezza ne fanno un carcere. Non c’è alternativa, si lotta. Nessuno vuole morire in mare.
Marco Minniti, davanti alla platea del COISP (sì, proprio il sindacato di polizia che applaudiva gli assassini di Federico Aldrovandi), ha parlato ieri di una “raggelante strage di teenager, di bambini, di quanto c’è di più prezioso nella società”. Non si riferiva, però, a quanto successo nel mare tra l’Italia e il suo partner strategico libico. Abbiamo detto che i nostri morti, ad Aleppo come a Manchester come davanti alle coste libiche, muoiono di una guerra che non gli appartiene, di cinici incravattati contro mostri col turbante, sullo sfondo della santa trinità dollari, armi e petrolio. La strage dei bambini bianchi e quella dei bambini neri fanno parte della stessa guerra globale, fatta sulle loro e sulle nostre teste. E nessun governo ci aiuterà a salvarli. E a salvarci.
da InfoAut