Il 5 luglio scorso, la Camera dei deputati, con molte astensioni e poca convinzione, ha approvato in via definitiva una legge sulla tortura che non ha eguali in Europa.
È stata scritta in un modo così contorto e malizioso, che solo il relatore Franco Vazio e qualche esponente della maggioranza (Pd e Alleanza popolare) si sono sentiti di difenderla fino in fondo, sostenendo che sarà efficace e applicabile. Ma è stata una difesa d’ufficio, del tutto inconsistente di fronte alle numerose e autorevoli obiezioni che riguardano più punti della normativa, come la necessità che le violenze siano ripetute e frutto di “condotte plurime” o la scelta di considerare il crimine di tortura come un reato comune anziché tipico del pubblico ufficiale, fino alla curiosa previsione che la tortura psichica, una volta accertata, debba anche comportare un “verificabile trauma psichico”.
Basti ricordare che undici magistrati genovesi, impegnati negli anni scorsi in casi concreti di tortura nei processi per i fatti della Diaz e di Bolzaneto scaturiti dal G8 del 2001, alla vigilia del voto avevano scritto alla presidente della Camera, Laura Boldrini, per spiegare come e perché la legge non sarebbe applicabile a casi analoghi. Anche il commissario per i diritti umani del Cosiglio d’Europa, il lettone Nils Muižnieks, aveva scritto ai presidenti di Camera e Senato per chiedere modifiche al testo, altrimenti destinato a offrire numerose “scappatoie per l’impunità”.
Luigi Manconi, primo firmatario del progetto di legge iniziale, poi stravolto, si era rifiutato di votare in Senato una normativa ormai sfigurata. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, aveva detto ai deputati: “Se dovete approvare una legge così, no grazie, meglio niente”.
Alcuni prestigiosi giuristi avevano firmato un appello per chiedere modifiche sostanziali alla “informe creatura giuridica” al fine di tutelare “la serietà, e quindi la credibilità, dell’Italia, in Europa e nel mondo.”
Gli avvocati riuniti nell’Unione delle Camere penali erano arrivati a inscenare dei flash mob nei tribunali sotto lo slogan: “Torturato? Solo un po’”
E così via, fino all’appello di attivisti, esperti, giuristi (fra cui il sottoscritto) che avevano parlato di “legge truffa”. Tutte parole cadute nel vuoto. E non è stato nemmeno possibile organizzare una forte mobilitazione civile al fine di spingere il Parlamento ad ascoltare simili prese di posizione e quindi approvare una vera legge sulla tortura. Alcuni, ad esempio le maggiori associazioni e i sindacati, grandi assenti dal dibattito, hanno probabilmente sottovalutato la questione.
Altri, come l’associazione Antigone e Amnesty International, che pure avevano definito “impresentabile” il testo poi divenuto legge, hanno deciso di accontentarsi di quel che passava il convento-Parlamento, evitando di arrivare a uno scontro politico con il governo e la sua maggioranza.
In un simile clima di rinuncia e desistenza, Pd e Ap hanno trovato il modo di approvare un testo che non disturba i refrattari corpi di polizia e al tempo stesso consente di adempiere -almeno formalmente- a un obbligo disatteso da trent’anni, sia pure al prezzo di legiferare in aperto antagonismo rispetto alla Convenzione Onu sulla tortura e alla stessa giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo.
Alla fine, nell’ordinamento è stata inserita una legge che sembra appartenere, più che alla categoria del divieto assoluto, a quella ben più insidiosa della regolamentazione della tortura.
Una sconfitta bruciante e anche un segno eloquente del degrado civile e politico del nostro Paese.
da Altreconomia