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La verità sui nove morti del carcere di Modena arriverà dai filmati

La procura riapre il caso sulle violenze dopo la tragica rivolta del marzo 2020 al Sant’Anna.

La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate.

È lo scossone che riapre il caso del Sant’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti. Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto.

Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato “come un animale”.

“Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora”.

Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. “Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”.

Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani “rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita”.

A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura. “È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda”, commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta.

L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno”.

A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti”. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi. Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazi, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta.

Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che “lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”. Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere. Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti.

Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura.

Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman. Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. “Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti”. Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. L’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno

Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte. Alle richieste di aiuto lanciate dal cellante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde “lasciatelo morire”. E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. “A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato”.

Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. “A Modena”, scrive, “molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle”. Ad Ascoli, invece, “la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva”.

Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso.

Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto.

“Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane”.

Pierfrancesco Albanese

da: L’Espresso

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“Due anni per vedere mio figlio, chiedo dignità per lui e verità per le vittime”

La rivolta al carcere. Dai fatti dell’8 marzo 2020, il primo incontro in carcere di Anna Maria, con il figlio, firmatario dell’esposto sulla morte di nove detenuti, e ancora in carcere. Il calvario di una madre che pare non avere fine.

Anna Maria è una madre che non si arrende e combatte ogni giorno per i diritti di suo figlio, carcerato, ma non solo. Anche per chiedere verità sulla morte dei nove detenuti deceduti durante e dopo la rivolta al carcere di Modena dell’8 marzo 2020. Quel giorno C., suo figlio, oggi 41 enne, napoletano, in carcere per scippi ed altri reati predatori, si trovava all’interno del carcere. E’ uno di coloro che si trovò nel mezzo di quella rivolta che ha scritto una pagina nera nella storia del sistema carcerario Italiano. Una volta repressa, la rivolta seguì il trasferimento dei detenuti in altre carceri d’Italia. Quello di Modena era distrutto e per mesi non avrebbe più ospitato nessuno. Pur non accusato, per lui iniziò un calvario, fatto di trasferimenti da un carcere all’altro. ‘Per più di un mese non abbiamo avuto notizia di lui.

Non ci avevano detto nemmeno se era tra i morti oppure no’ – afferma Anna Maria. La incontriamo in centro, a Modena, nel presidio organizzato dal Consiglio Popolare di Modena che si è offerto per pagarle il viaggio e la permanenza in Emilia-Romagna per il tempo necessario per la visita. E dal centro ci racconta il suo dramma. Da madre con un figlio in carcere a 700 chilometri di distanza da casa. Che per settimane dopo la rivolta non sapeva dove era o se era rimasto ferito. Durante i trasferimenti nelle carceri italiane dei detenuti, che seguirono la rivolta.

Prima Ascoli Piceno, poi il ritorno a Modena per gli interrogatori, poi altri penitenziari e poi, ultimo in ordine di tempo di una serie lunghissima di spostamenti, Parma. Dove Anna Maria lo ha incontrato sabato mattina, dopo due anni da quei fatti. Al termine di un assurdo percorso che l’ha portata, disperata, a fare appello al garante dei detenuti della Campania che ha creato un canale con il suo omologo emiliano romagnolo (con il quale la famiglia non era mai riuscita a parlare), per l’incontro in carcere a Parma. Dove Anna Maria ha potuto vedere e parlare al figlio attraverso un vetro. Lui è uno dei firmatari dell’esposto denuncia per chiedere chiarezza sulla morte la morte di Salvatore Sasà Piscitelli, avvenuta ad Ascoli Piceno, l’unico decesso non ricondotto ad una morte per overdose e per il quale ancora si indaga. E sul cui caso anche Anna Maria chiede verità: ‘Non sono ancora state rese note le immagini di ciò che successe nel carcere di Ascoli Piceno dove anche mio figlio venne subito trasferito. Se sono state diffuse le immagini dei gravi fatti di Santa Maria Capo a Vetere, perché, a due anni di distanza, non viene fatta chiarezza con le immagini su quanto successe ad Ascoli?’.

Ma il dramma vissuto ancora oggi da Anna Maria, da poco pensionata con problemi di salute che oggi le rendono difficile viaggiare da Napoli a Parma, per fare visita al figlio, si estende al trattamento dei detenuti. ‘Mio marito è morto un anno fa e a mio figlio non è stato permesso né di partecipare al funerale né di visitare la tomba, non gli hanno risposto alla domanda di potere seguire i corsi universitari che aveva ripreso, e ormai sappiamo che perderà anche quest’anno. Inoltre gli è stata negata la richiesta di ottenere un trasferimento in un carcere più vicino a Napoli per permettere i colloqui. Negata, anche se era l’unica possibilità per vederci, ogni tanto.

Siamo rimasti solo io e suo fratello ma io ho problemi di salute, presto mi dovrò operare e difficilmente riuscirò a breve a tornare a Parma. Poi c’è un fattore economico, legato al cibo e non solo. I detenuti hanno la possibilità di ordinare alcuni alimenti da una ditta in appalto che due volte la settimana si reca all’interno. Dobbiamo pagare anche un pomodoro e una fettina di carne in più, senza considerare che quando uscirà dovrà pagare il carico di 105 euro al mese per il periodo di permanenza in carcere. Migliaia di euro, non so come faremo. Non smetteremo mai di combattere per dare dignità ai detenuti come lui e affinché la verità su quelle morti emerga’

da: lapressa.it