Più di duecento stidenti palestinesi sono stati arrestati negli ultimi 3 anni e mezzo dalle forze di occupazione israeliane. Una pratica che già saltata all’attenzione nel 1985 e poi nel 2006. L’accesso alle Università per i palestinesi avviene previo consenso del governo israeliano. I movimenti studenteschi paelstinesi sono illegali. L’intensificazione di campagne detentive segue un disegno politico generale
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Di solito, li arrestano nottetempo. Come nel caso di Jihad Ahmed, strappato al sonno e ai suoi affetti dalla furia devastante dei soldati israeliani piombatigli in casa a Nablus per sbatterlo in galera con l’accusa di affiliazione a gruppo terrorista. O anche in pieno giorno. Magari dopo un’umiliante perquisizione al checkpoint in uscita dal villaggio per recarsi in ateneo con la tipica ansia che precede un esame destinata a spegnersi nel buio inopinato di una prigione. È accaduto a Shatwa Al-Taweel arrestata, malmenata, derisa dalle sue aguzzine in divisa e costretta al panopticon di una lugubre cella con latrina a vista.
Sono oltre 200 gli studenti universitari palestinesi tratti in arresto negli ultimi tre anni e mezzo da parte delle forze di occupazione israeliane. A denunciarlo è una recente indagine condotta dai giuristi di Law for Palestine. Gli autori della ricerca si sono concentrati sugli arresti di studenti negli atenei in Cisgiordania e, all’interno della Green Line, in territorio israeliano.
Nei Territori Occupati i principali movimenti politici palestinesi sono collegati a rispettive rappresentanze studentesche che operano nell’organizzazione di eventi culturali, corsi e seminari di vario genere, nonché di attività sindacali anche a supporto degli studenti economicamente più bisognosi. In definitiva, si tratta di aggregazioni a difesa dei diritti sociali e dello studio dei giovani palestinesi. Ebbene, qualsiasi attività da parte di tali organizzazioni studentesche consentita previa autorizzazione del governo militare occupante.
Dal 1967, Israele ha formulato centinaia di ordinanze volte a reprimere qualsiasi iniziativa a tutela dell’identità culturale e nazionale palestinese. Ovviamente, la formazione universitaria non poteva esser trascurata da simile, criminoso proposito.
Un ginepraio di norme e ostacoli burocratici è stato pertanto meticolosamente predisposto trasformando l’educazione universitaria da quel processo di crescita, emancipazione e autodeterminazione che dovrebbe essere a mero strumento di controllo, subordinazione e alienazione.
Sin dalle primissime ordinanze emesse, consolidatesi nel tempo in senso sempre più restrittivo e repressivo, l’accesso allo studio e la carriera universitaria sono divenuti oggetto di preventiva autorizzazione del governo militare. Oltretutto, ogni università palestinese è tenuta a rinnovare in base a obbligate scadenze la licenza abilitante all’istituzione di corsi di laurea. In altre parole, tutto il processo educativo e formativo universitario è a discrezione della gestione militare con conseguente difficoltà di iscrizione alle varie facoltà laddove regola è divenuta invece una barriera d’accesso agli studi stessi.
In tale contesto, l’attivismo studentesco risulta pesantemente inibito: la pubblicazione di notiziari, documenti, risorse grafiche, atti a contenuto politico, finanche il pubblico sventolio di bandiere nazionali sono proibiti senza autorizzazioni avaramente concesse dal comando militare.
Sono molto comuni gli arresti per possesso di opere letterarie ritenute illegali e pesante è l’interferenza sull’uso studentesco dei più diffusi social: la pubblicazione di parole di simpatia o sostegno a organizzazioni politiche ritenute ostili a Israele può costare fino a 10 anni di reclusione.
La convocazione spontanea di assemblee o raduni universitari a sfondo politico è considerata illecita e i mandati di arresto a carico degli studenti palestinesi vanno a costituire un frequente evento complementare al piano di studi prescelto.
Contravvenendo a quanto disposto dalle norme di diritto internazionale a tutela dei diritti civili e politici e dalla Quarta Convenzione di Ginevra, le misure coercitive adottate dal comando occupante non sono quasi mai divulgate adeguatamente e perlopiù redatte in lingua ebraica, sfuggono alla comprensione della maggioranza degli studenti. Allo studente raggiunto da un provvedimento detentivo viene molto spesso negato l’accesso a un avvocato difensore, sicché non è raro che il capo d’accusa sia poi notificato al malcapitato direttamente in fase di giudizio dal tribunale militare incaricato della sentenza.
Oltretutto, il diritto internazionale sancisce che i processi si tengano nel territorio del Paese occupato: nella maggior parte dei casi invece gli studenti palestinesi sono processati da tribunali militari in territorio israeliano. Quasi sempre, la pena detentiva irrogata sarà poi scontata in prigioni situate in territorio israeliano anche qui in spregio di basilari normative internazionali.
L’insieme di queste trame manipolative, ostruttive, sanzionatorie sono frutto di una violenta politica a lungo termine finalizzata alla paralisi sistematica di ogni iniziativa collettiva e a impedire alla gioventù palestinese di acquisire e consolidare quella responsabilità sociale, collettiva e resiliente di cui tanto necessita il popolo del loro Paese colonizzato.
Già nel 1985, con l’accusa di contiguità a organizzazioni politiche terroriste invise al regime israeliano, circa metà delle detenzioni hanno riguardato studenti.
Massicce operazioni con arresti di massa a loro carico sono state pianificate ed eseguite all’epoca della prima Intifada e, successivamente, nel 2006 in occasione delle elezioni palestinesi. Con tali iniziative la potenza occupante avrebbe a suo dire scongiurato l’accesso all’università di “pericolosi piantagrane in erba” palestinesi. L’intensificazione di campagne detentive segue dunque un disegno politico generale non ascrivibile ad atti punitivi riguardanti singoli e casuali reati.
Mentre nei campus di tutto il mondo un genuino attivismo studentesco è in genere accettato e rispettato, ai giovani Palestinesi viene del tutto precluso. Presi di mira dalla pressione militare, a essi viene iniettato un sentimento di vita assediata, di scarsa o nulla libertà, di un futuro isolato, privato di senso comune e collettiva condivisione.
Gli studenti arrestati vengono classificati dall’Israel Prison Service quali prigionieri “per motivi di sicurezza”, formalmente spogliandoli di ogni diritto politico e civile. In tale fattispecie, a differenza di chi commette comuni reati, si applicano speciali restrizioni. Tocca loro una detenzione fatta di isolamento, divieto di visite di parenti e coniugi, di telefonate e preclusione di eventuali concessioni di libertà anticipata. È a loro proibita la consultazione di testi di storia, filosofia, politica con particolare e specifico divieto di lettura dell’opera di Antonio Gramsci.
Ricattati dal peso di una durissima detenzione e dalla rinuncia a un futuro di studi e crescita personale, i giovani studenti palestinesi sono spesso indotti a patteggiare la pena ammettendo colpe per reati non commessi, collocati quindi fuori gioco da un possibile percorso di leadership politica e sociale. Il tribunale, dunque, capolinea della resistenza.
La Corte Suprema israeliana ha stabilito che attività civili e iniziative di resistenza militare intraprese dalle formazioni politiche palestinesi si alimentano a vicenda e, come tali, non sono tra esse distinguibili. In questo contesto, la sola opinione favorevole a una data iniziativa politica ritenuta ostile dalla potenza occupante è oggetto di feroce repressione per terrorismo. Eppure, mancando evidenza di atti puramente criminosi, la Convenzione di Ginevra è chiara nel proibire l’arresto di studenti in quanto civili. Quella della Corte Suprema israeliana è perciò una determina apertamente criticata da organizzazioni in difesa dei diritti umanitari come Amnesty International poiché mina il “principio di distinzione” per cui semplici simpatizzanti, ad esempio, di Hamas, non coinvolti nell’esecuzione di atti di chiara ostilità vadano considerati alla stregua di semplici civili, come tali non passibili di repressione legale e militare.
Sono dunque palesi le violazioni israeliane di quanto espresso in Codici, Patti e Convenzioni internazionali e, con esse, il formidabile ostacolo opposto al diritto all’istruzione dei giovani palestinesi e alla loro libertà di associazione ed espressione.
Un quadro che, unito al divieto di professare un determinato credo politico e al violato rispetto degli standard minimi delle norme penitenziarie e alla perpetrazione di torture configurano un quadro di chiari crimini contro l’umanità.
Con il pretesto della sicurezza dello Stato israeliano, le migliaia di ordinanze costituiscono nient’altro che uno strumento di apartheid e sottomissione a un regime di insediamento coloniale che mira a utilizzare la misura detentiva su larga scala anche contro gli studenti palestinesi per smantellarne la coscienza collettiva e cancellare ogni loro velleità di identità nazionale e politica.
Nel documento già citato, gli esperti di Law for Palestine hanno raccolto evidenza di tutto ciò sottomettendolo all’attenzione della Commissione ONU incaricata di inchiesta sulla Palestina Occupata e alla giurista Francesca Albanese, Relatrice Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, anch’essa non casualmente al centro di una strumentale campagna di aggressione che l’accusa del tutto ingiustificatamente di aver adottato metodi e linguaggio antisemiti.
Nel rapporto di Law for Palestine viene fatta esplicita richiesta allo Stato di Israele di fermare la detenzione arbitraria di studenti universitari palestinesi, di abolire regolamenti militari che considerino illegali i movimenti studenteschi e i simboli di identità palestinesi e di trattare tutti i sottoposti a detenzione secondo criteri umanitari e a garanzia dei diritti civili.
È ovvio che senza la decisa condanna della comunità internazionale di simili pratiche attuate dal regime di occupazione e apartheid israeliano, analisi e rapporti di denuncia rischiano la rarefazione nel collaudato dimenticatoio della complicità, quest’ultima potente sostegno a politiche discriminatorie e antagoniste dell’autodeterminazione palestinese.
da DINAMOpress
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