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La vocazione migranticida

Gran parte dell’Unione Europea, Italia in primis, ha assecondato ormai da decenni la spinta interna a seguire il modello dei vecchi nazionalismi, riproponendo i criteri selettivi della genealogia, della discendenza, delle origini, legittimando in tal modo le retoriche su cui si basa pressoché ogni forma di razzismo.

di Annamaria Rivera

Mentre scrivo, le vittime accertate dell’ennesimo naufragio di migranti, accaduto all’alba di domenica 26 febbraio sulle coste di Steccato di Cutro, in Calabria, sono almeno 70, fra le quali 15 bambini e 21 donne. Ma il loro numero potrebbe aumentare oltre i 100, aggiungendosi così alle decine di migliaia di morti nel mar Mediterraneo, divenuto ormai un unico, grande cimitero a cielo aperto.

Particolarmente gravi e inquietanti sono gli interrogativi riguardanti questo naufragio: s’ignora cosa sia accaduto dopo l’avvistamento e la segnalazione dell’imbarcazione da parte dell’aereo di Frontex alle 22.30 della sera precedente il naufragio; non si comprende come mai, pur sapendo della presenza nelle acque di un tale barcone, non si sia intervenuti tempestivamente. Perfino il comandante della Capitaneria di porto di Crotone, Vittorio Aloi, ha dichiarato che l’invio di mezzi di soccorso sarebbe stato del tutto possibile.

Checché ne pensi l’ignobile ministro degli Interni Piantedosi, sono i “muri” a creare i trafficanti e non il contrario. Egli, tra l’altro, ha scaricato sulle vittime la responsabilità del naufragio e ha osato affermare che «la disperazione non può giustificare viaggi pericolosi per le vite dei figli». Non per caso il ministro è l’ispiratore del decreto, che porta il suo nome, finalizzato ad applicare politiche sempre più persecutorie contro le navi delle Ong, impedendo loro di salvare vite umane: un compito che dovrebbe assumersi in primis lo Stato.

Oggi, dopo il tragico naufragio, sembra che Piantedosi abbia quale obiettivo quello di ripristinare i cosiddetti decreti Salvini sui porti chiusi e le limitazioni per le richieste di asilo e di accoglienza.

Per contestualizzare ampiamente ciò che ho detto finora, riprenderò quel che ho scritto altrove a proposito della vocazione migranticida che caratterizza non solo l’Italia, ma anche buona parte dell’Unione europea.

Com’è ben noto, l’unità europea fu concepita per trascendere non soltanto i colonialismi, ma pure la concezione della “nazione” quale comunità sostanziale e omogenea, quindi tendenzialmente orientata a escludere le altre e gli altri; nonché i nazionalismi conseguenti e le crisi economiche che avevano favorito, anch’esse, la nascita dei regimi totalitari.

Oggi, invece, gli esuli e le esule forzati/e (tutti/e lo sono, in misura diversa, anche quelli/e economici/he), paradossalmente approdano, allorché ce la fanno, in un continente disseminato da confini blindati, muri e barriere di filo spinato. Nella gran parte dei casi sono costretti/e ad abbandonare il proprio Paese a causa di persecuzioni, miseria, carestie, disastri, anche ambientali, nonché conflitti e guerre civili, perlopiù provocati o favoriti dal neocolonialismo e dall’interventismo occidentali.

Essi/e giungono in un mondo in cui vanno risorgendo nazionalismi aggressivi; ove si compete per respingere il massimo possibile di rifugiati/e verso lo Stato più vicino o ci si adopera a deportarli in qualche bieco “Paese sicuro”. Un mondo ove, a difesa del proprio territorio, si chiudono le frontiere, si erigono barriere d’ogni sorta, si arriva perfino a schierare gli eserciti. A tal proposito ricordo, per fare un esempio fra i tanti, che, a ottobre del 2015, il parlamento sloveno approvò, quasi all’unanimità, una legge che conferiva all’esercito poteri straordinari, in primis quello di limitare la libertà di movimento delle persone.

Inoltre, fra il 2015 e il 2016, al fine di contenere l’afflusso di profughi/e, alcuni Paesi dell’Ue giunsero persino a sospendere unilateralmente la Convenzione di Schengen, ripristinando i controlli alle frontiere. Invece di promuovere l’impegno a riformare radicalmente la Convenzione di Dublino, la Commissione europea ha vergognosamente avallato questa prassi, che compromette uno dei rari elementi, concreto e simbolico, che possa conferire ai cittadini e alle cittadine del continente il senso di un’appartenenza comune, nondimeno aperta agli altri e alle altre. E ciò in una fase in cui si assiste a una crisi radicale dell’Europa.

En passant, va notato fino a qual punto suoni paradossale l’insistente retorica dell’integrazione, a fronte di un contesto continentale e di contesti nazionali perlopiù contraddistinti da ordini politici e sociali frammentati, disomogenei, conflittuali.

Insomma, nel corso degli anni l’Unione europea ha perpetuato, in qualche misura, il modello dei vecchi nazionalismi, riproponendo i criteri della genealogia, della discendenza, delle origini, in tal modo legittimando le retoriche su cui si basa pressoché ogni forma di razzismo. Infatti, è un tale criterio a essere stato sancito, in fondo, dai trattati di Maastricht e di Amsterdam, dallo stesso Trattato costituzionale europeo, firmato a Roma il 29 novembre 2004, che hanno riservato ai soli nazionali la cosiddetta cittadinanza europea.

 L’Ue pratica anche una sorta di sovranazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere. E questo, a sua volta, non solo è causa principale di un’ecatombe di profughi/e dalle proporzioni mostruose, ma ha anche contribuito indirettamente a incoraggiare nazionalismi aggressivi, quindi al successo delle destre, anche estreme, in tutta Europa: l’Italia è oggi il caso esemplare di un governo dominato dall’estrema destra.  

In realtà, come ho già scritto altrove, le leggi, norme e prassi europee nonché di singoli Stati in materia d’immigrazione e asilo configurano una sorta di tanatopolitica, per dirla alla maniera di Michel Foucault. Talché non è esagerato sostenere, come fece Luigi Ferrajoli (Il suicidio dell’Unione europea, “Teoria politica”, VI, 2016, pp. 173-192), che, con le sue «odierne leggi razziali», l’Ue stia «mettendo in atto una gigantesca omissione di soccorso» e, di conseguenza «un nuovo genocidio».

La semiotica del genocidio è rintracciabile, in realtà, in non poche norme e prassi di Stati dell’Ue. Basta considerare l’uso di vagoni blindati per trasportare i/le rifugiati/e oltre i propri confini, per il quale si è distinta l’Ungheria, governata dalla destra nazionalista e razzista.  Questo Paese, infatti, ha risposto alla “crisi dei rifugiati” non solo blindando i propri confini, criminalizzando e arrestando i/le richiedenti-asilo che cercavano di varcarli, ma anche compiendo, per almeno due volte, un atto che ricorda la deportazione degli stessi ebrei ungheresi nel 1944.

Nel luglio del 2015, a un treno che partiva da Pecs diretto a Budapest fu aggiunto un vagone-merci chiuso, stipato di profughi/e, in gran parte siriani/e e afghani/e, donne e bambini compresi. E il 23 settembre successivo, al confine tra Ungheria e Croazia, centinaia di profughi/e, privati di acqua e cibo, furono caricati su carri-merci egualmente blindati, per essere trasferiti verso il confine austriaco.

È anche tutto questo a contribuire alla grave crisi europea, che non è solo economico-finanziaria, ma anche (forse soprattutto) politico-ideologica e identitaria. In realtà, al tempo presente, l’unica “ideologia” che sia capace di coinvolgere e unificare gran parte delle popolazioni europee “autoctone” è costituita dal rigetto dei profughi, degli esuli, dei rom, delle persone immigrate e/o “d’altra origine”, cioè gli odierni «nemici interni ed esterni». Sono loro, attualmente, a costituire sempre più «un principio di autodefinizione», per citare Hannah Arendt. E, oggi come in un tempo assai infausto, ciò serve a conferire «alle masse d’individui atomizzati (…) un mezzo di (…) identificazione» (Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, 492).

Ai giorni odierni, l’ombra del cattivo passato si allunga perfino su convenzioni e carte internazionali per la tutela dei diritti. Anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) sono spesso violate col negare alle persone profughe diritti fondamentali o con l’intendere questi ultimi non già come incondizionati e spettanti a ognuno/a, bensì come da concedere eventualmente e solo a determinate condizioni.

Uno spettro del cattivo passato è, per esempio, l’accordo siglato, il 18 marzo 2016, tra l’Ue e la Turchia, frutto di un ignobile baratto sulla pelle delle persone rifugiate. Com’è noto, esso ha stabilito che tutte le persone profughe che entrino “irregolarmente” in Grecia attraverso il mar Egeo siano “rimpatriate” in Turchia, di fatto deportate in un Paese tutt’altro che “sicuro”, essendo divenuto il suo regime sempre più autoritario, per non dire ch’esso è teatro di frequenti attacchi terroristici.

Questo accordo – la cui insensatezza è del tutto palese, poiché non è servito affatto, come si pretendeva, a smantellare “il business dei trafficanti”, bensì a costringere le moltitudini in fuga a intraprendere rotte e viaggi sempre più pericolosi – viola palesemente il diritto internazionale.

Per non dire dell’indegno accordo, definito disumano dalla stessa Onu, tra i vari governi italiani e quelli libici, quasi-fantocci; nonché della missione militare italiana in Niger, volta a bloccare una tappa decisiva degli esodi; si aggiunga l’infame legge Minniti-Orlando, decisamente anticostituzionale, poiché finalizzata a ridurre drasticamente il diritto di asilo e a rendere più efficace la macchina dei rastrellamenti e dei rimpatri forzosi. Quanto al governo italiano attuale, il più a destra nella storia dell’Italia costituzionale e che ha come Presidente del Consiglio e quale Ministro dell’Interno, due personaggi così outrés da sembrare la parodia, tragica e grottesca, della/del Razzista –, esso è la perfetta rappresentazione della decadenza e della tanatopolitica dell’Ue.

Non c’è che da augurarsi e da lottare affinché l’insieme della sinistra finalmente comprenda la centralità strategica della lotta contro discriminazione e razzismo. Non è certo da poco tempo che essi si manifestano in Italia, ma oggi questo processo appare privo di freni, sempre più incalzante e volto al peggio. A meno che l’indignazione che alberga in non pochi settori della società civile, in particolare dell’attivismo antirazzista e antifascista, non sappia trovare, finalmente, voce e strategia comuni per far fronte a una tale temibile deriva.

da Comune-Info

 

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