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L’amnistia Togliatti e il potere di non punire

Ero ancora sotto l’impressione del fragore per la retata parigina che aveva fatto arrestare otto attempati ex-militanti della lotta armata e uno, più attempato, di Lotta Continua. Avevo chiesto: E ora che cosa ve ne fate? Il giorno dopo furono rimandati a casa, ad aspettare di figurare disciplinatamente nella annosa pratica dell’estradizione. Il fragore si è spento.

Ed ecco che mi capita sotto mano un grosso volume, 382 pagine in ottavo, intitolato “Il potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti”. L’autore, che non conosco, è Paolo Caroli, è nato a Trento nel 1986, è attualmente borsista all’Università Humboldt di Berlino. Edito dalle Edizioni Scientifiche Italiane, il libro, destinato a un pubblico specialista, è uscito nel 2020 nella collana di “Fonti e studi per il diritto penale”.

Non appartengo al pubblico specialista di diritto, ho qualche familiarità con la storia politica del periodo in cui fu varata l’amnistia di Togliatti guardasigilli, 1946, e con la vicenda successiva che avrebbe portato alla liquidazione dell’istituto dell’amnistia da parte del parlamento italiano, nel 1992. Ma la ricerca di Caroli ha un altro tema, il più appropriato agli episodi di costume come il fragore sopra ricordato, e al modo in cui l’Italia affronta i problemi della memoria e del passaggio da una stagione all’altra della sua storia civile. E’ il tema che si chiama “giustizia di transizione”, con un termine recente (compare negli anni ’80) e una sostanza antica: il trapasso da un regime all’altro, e più particolarmente da un regime dittatoriale o autoritario a una democrazia.

“Il concetto di giustizia di transizione si riferisce a un processo di chiusura dei conti con il passato. In senso stretto, segua o no a un conflitto armato, la transizione è connessa a un cambio di regime”. Più generalmente, al trapasso da un regime repressivo o di abusi su larga scala a uno che sappia “assicurare le responsabilità, servire la giustizia e ottenere la riconciliazione”.

Era questa la posta dell’amnistia Togliatti, decretata a ridosso di una tirannide ventennale, della persecuzione razzista, di una catastrofica guerra mondiale e di una feroce guerra civile. Ma è stata anche la posta di svolgimenti successivi, pur se avvenuti senza demolire la democrazia, e tuttavia segnati da crisi profonde e “sistematiche”, come proverbialmente quella che prese il nome di Tangentopoli. Ce n’erano state altre, più o meno misconosciute, e forse ce n’è una in corso, che rende scottante l’attualità dell’argomento.

L’amnistia Togliatti

L’amnistia Togliatti venne promulgata il 22 giugno del 1946. Erano trascorsi appena 14 mesi dalla fine della guerra, e appena 20 giorni dal referendum del 2 giugno sulla forma di Stato, monarchia o repubblica, e l’elezione dell’Assemblea Costituente — la Costituzione sarebbe entrata in vigore solo il 1° gennaio del 1948. La stessa elezione del primo capo provvisorio dello Stato avvenne due giorni dopo la promulgazione dell’amnistia.

In nessun altro paese europeo era andata così rapidamente. A spiegare quella rapidità si evocano motivazioni diverse, compresa la preoccupazione che i fedeli del regime fascista tentassero un colpo di coda. Fatto sta che all’amnistia, e a quel genere di amnistia, Togliatti, e non solo lui, affidava l’efficacia decisiva per la transizione dell’Italia alla democrazia. A guerra finita, l’amnistia operava come il compimento della “svolta di Salerno” della fine di marzo 1944, quando Togliatti aveva accantonato la “pregiudiziale repubblicana”.

Non ripercorro qui la controversia sull’amnistia. (Lo studio più recente è quello di Mimmo Franzinelli, “L’amnistia Togliatti: 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti”. Mondadori 2006, poi Feltrinelli 2016). E’ assodato che essa fu, piuttosto deliberatamente, non solo una misura di pacificazione ma un drastico colpo di spugna sui crimini del ventennio e sui loro autori. Deliberatamente, dico, anche se si discute ancora fino a che punto Togliatti avesse messo in conto l’abuso d’indulgenza e di complicità che una magistratura compromessa col fascismo avrebbe perpetrato nell’interpretazione del dettato dell’amnistia. Togliatti era tutt’altro che ingenuo, e non ci si poteva aspettare niente di buono da una norma che distingueva le “sevizie” dalle “sevizie efferate” e dalle “sevizie particolarmente efferate”.

Sevizie: amnistiate. Sevizie efferate: amnistiate. Sevizie particolarmente efferate… non vi rientrano stupri di gruppo, bruciature, unghie strappate, torture coi cavi elettrici…

La scelta del ministero, condivisa dal governo De Gasperi, fu di passare ai giudici la grana dell’applicazione dell’amnistia, fingendo eventualmente stupore e scandalo di fronte ai loro “eccessi di zelo”. Accanto alla “mancata epurazione” è all’attuazione dell’amnistia che si deve la continuità negli istituti e nel personale tra il regime fascista e la repubblica.

Gli anni delle stragi, gli anni di piombo

Quello che ci interessa di più è il confronto fra la tragicità del passaggio dal tramonto del fascismo alla repubblica — il rovesciamento di fronte abbandonato a se stesso nella guerra, la Repubblica Sociale, la Resistenza — e la futilità, per così dire, di altre “transizioni”, fino a Tangentopoli, cui non si è saputo né voluto rispondere con un disegno politico e tanto meno con una lucida “giustizia di transizione”.

Voglio accennare alla questione che nello studio di Caroli resta nel sottofondo, e che è il motivo dell’accostamento da cui sono partito con i cascami retorici dei cosiddetti “anni di piombo”. Ma visto che ci siamo vorrei prima confutare la predilezione per la formula stessa degli “anni di piombo”. Come si sa, venne da un film di Margaretha von Trotta, Die bleierne Zeit, del 1981. Vi si raccontava la storia delle due sorelle Ensslin, una militante della Raf e morta, ufficialmente suicida, nel carcere di Stammheim nel 1977. Il film vinse il Leone d’oro alla mostra di Venezia e il suo titolo divenne la denominazione degli anni Settanta italiani, nonostanti le obiezioni via via più flebili. Di fatto, “gli anni di piombo” designavano sempre più la “lotta armata” e il terrorismo rosso, quello del piombo delle P 38. Il “terrorismo nero” era tutt’al più un’appendice protocollare. Anche i “neri” avevano fatto ricorso vasto al piombo, ma a segnare il loro terrorismo era l’esplosivo delle stragi. Chiamare quella lunga stagione “gli anni delle stragi” sarebbe stato meno suggestivo, ma avrebbe recuperato la successione, senz’altro cronologica e in parte anche causale, fra il terrorismo neofascista e neonazista, con le sue complicità statali, e quello di sinistra. La stessa successione che sarebbe stata rispettata se il Giorno della memoria delle vittime del terrorismo fosse stato fissato al 12 dicembre 1969 della Strage di Stato piuttosto che al 9 maggio 1978 dell’uccisione di Moro.

La maledizione di Moro

Gli anni della ribellione studentesca e operaia, delle stragi, dei tentati colpi di Stato, e del terrorismo rosso nero e di Stato, segnarono una rottura nella storia civile italiana. Una cesura nel costume, nella cultura, nel gioco delle generazioni, certo. Anche nella rivelazione della violenza. La premessa delle “transizioni” è molto spesso un conflitto armato: quello italiano degli anni dal ’69 ai primi ’80 non fu certo una guerra civile, ma fu un torbido, confuso, micidiale conflitto armato. E arrivò a sconfinare e mescolarsi con la violenza endemica della criminalità organizzata, che allora crebbe fino a sfidare la sua versione del cuore dello Stato con le stragi nei primi ’90. La classe politica italiana, e specialmente i due partiti sui quali si reggeva, la Dc e il Pci, si fecero un vanto di non registrare la portata di quel conflitto, quasi che volesse dire cedervi. Un rigore di facciata servì loro a passare, magari ai propri stessi occhi, come uomini forti. Ostentavano una saldezza di principii ed era una debolezza intima e una paura di confessarsela. La stessa che fece chiamare fermezza la rigidità imbelle verso la sorte di Moro.
La politica è una cosa troppo seria per essere lasciata in mano ai pubblici ministeri. Oggi sono in molti — ed è anche un assunto dello studio prezioso di Caroli — a riconoscere che al collasso della democrazia italiana, della partitocrazia, se preferite, con la crisi di Tangentopoli, non si rispose se non, di nuovo, passando la mano ai magistrati, senza avanzare un qualunque progetto di cura delle cause che avevano portato a quella precipitazione. Riconoscimento inevitabile, non solo perché la corruzione non fu né poteva essere debellata, nemmeno istituendo i Tribunali della Virtù, ma soprattutto perché l’esito svelto e quasi naturale della pulizia delle Procure fu l’avvento di Berlusconi e di Dell’Utri e di Forza Italia. Un carnevale.

Non propongo di aggiungere al capitolo della “giustizia di transizione” mancata per Tangentopoli un capitoletto precedente per gli anni delle stragi e del piombo. Dico qualcosa di più, che dovrebbe essere ovvio ed è ciononostante dimenticato: che il tracollo del regime dei partiti, tutti — appena un po’ in ritardo il più conservatore, il Pci, ancora appoggiato alla reliquia del Muro — era lo svolgimento della mancata transizione dagli anni della strategia della tensione, e l’adempimento della profezia di Aldo Moro: “Il mio sangue ricadrà su di loro”.

Fa parte, della vanità che induce tanti a protrarre la “fermezza” anche dopo la bancarotta, il vantare di non aver mai ceduto a “legislazioni speciali”, di aver vinto con i soli mezzi della democrazia. Non era vero.

“E poi questo rigore proprio in un Paese scombinato come l’Italia”, scriveva Moro, e lo sapeva meglio di tutti. A distanza di mezzo secolo o giù di lì, è ancora la “fermezza” a ispirare il fragore dei nove attempati di Parigi, arrestati per una notte.

La transizione e i conti col fascismo

Caroli dunque, ben lontano dall’indulgenza per le ipocrisie del legislatore nell’amnistia del ’46 e per le porcherie dei tribunali nell’applicazione (in particolare della Cassazione e dei giudici militari), giudica che alla fine, rispetto alla finalità primaria di assicurare “una situazione di assenza di guerra e di violazioni massive e/o sistematiche dei diritti umani”, l’assenza di punizione non è stata un ostacolo. “Al contrario, l’assenza di punizione dei fascisti ha forse scongiurato un golpe da parte delle forze reazionarie fortemente legate al regime… Inoltre, alcuni elementi di continuità istituzionale, da un lato, e l’esigenza di riassorbire la grande base fascista, anche a fini elettorali, dall’altro, hanno consentito la fase costituente e il passaggio a un regime democratico che (con la limitata eccezione di Tambroni) ha relegato le forze che si richiamavano direttamente al fascismo ad un fenomeno minoritario. La pace e la Costituzione democratica sono quindi un indubbio successo della transizione”.

L’eccezione che Caroli segna, una mera parentesi — il governo Tambroni del 1960, spazzato via dalla mobilitazione di piazza al costo di molte vite — riguardava il tentativo di riammettere nella maggioranza di governo il MSI di Giorgio Almirante e i monarchici. E’ passato moltissimo tempo da allora. Almirante, il capo del partito che “si richiamava direttamente al fascismo”, e che aveva avuto un ruolo di spicco nella propaganda razzista e a Salò, visse abbastanza da rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer ed esservi accolto da Giancarlo Pajetta; da essere raccontato da Antonio Padellaro insieme a Berlinguer come esempio di una politica nobile; e da essere ricordato ora da Giorgia Meloni appunto come “politico e patriota stimato anche dai suoi avversari”. Giorgia Meloni si guarda oggi dal “richiamarsi direttamente” al fascismo, e va bene così. Ma la sua genealogia, e la rivale e concorrente cultura di Matteo Salvini, sollevano qualche problema, alla lunga, sulla incompiuta transizione. E, a stare ai sondaggi, sul fenomeno minoritario.

Caroli ricostruisce un altro trapasso, alla fine degli anni ’80, dal ruolo costituente dell’antifascismo al ruolo dell’antitotalitarismo e della “memoria di Auschwitz”.

Il mito costituente dell’antifascismo si era fondato, dice, su un paio di finzioni. La prima, che ci fosse una nozione positiva condivisa di antifascismo fra i costituenti. La seconda, che la maggioranza del popolo italiano fosse stata antifascista. Così da farne risultare l’Italia come vittima “della guerra voluta dal solo Mussolini per compiacere l’alleato tedesco”, e come “Paese eroico, in quanto autocuratore della propria ‘malattia’ fascista”.

La riduzione del fascismo alla guerra ha conseguenze impegnative. Una, ancora in vigore, è il luogo comune sul fascismo che era buono fino alla guerra, e su Mussolini che era buono ma poi fece l’errore della guerra. Se la guerra è la premessa del processo costituente, dunque non lo sono la dittatura né il colonialismo né le leggi razziste e la loro attuazione. E l’antifascismo non è quello militante della Resistenza (delle Resistenze), ma quello del popolo tutto, vittima della guerra. Perfino quando, da poco, abbiamo cominciato a sbarazzarci dell’italiano brava gente — la litote del presidente del consiglio Draghi il 25 aprile 2021, “nell’onorare la memoria di chi lottò per la libertà dobbiamo anche ricordarci che non fummo tutti, noi italiani, brava gente” — l’abbiamo fatto con una bonarietà che attenuava il riconoscimento. E quel bonario Italianibravagente apriva la strada all’impreparazione all’arrivo dello straniero povero migrante, e alla suscettibilità rispetto all’insinuazione che si fosse razzisti, e al vittimismo dell’invasione: proprio noi, italiani!

Le scuse dei rettori italiani per la cacciata di professori e studenti ebrei dalle università sono venute, solennemente sì, ma nel 2018, ottant’anni dopo (a San Rossore, dove il re aveva firmato le leggi razziste). Furono molti i cittadini italiani che aiutarono gli ebrei concittadini italiani. Ma la memoria dell’antisemitismo italiano è così mutilata da non riuscire ancora a immaginare che cosa le manca. Ha ricostruito l’orrore della persecuzione, dei campi di concentramento italiani, della deportazione, delle delazioni mercenarie dei privati, e anche, timidamente, dei posti e dei beni presi agli ebrei. Ma stenta ancora a dirsi che, con pochissime eccezioni, i genitori italiani dissero ai loro bambini, alle loro bambine, di non salutare più le compagne e i compagni scomparsi da un giorno all’altro dalle loro classi, di voltare la testa incontrandoli, e fecero lo stesso coi loro colleghi e colleghe adulte. Una enorme omissione di umanità. Tradimento dell’umanità.

Questo quadro non rimette in sesto l’idea della Resistenza come rivoluzione tradita, come una nuova vittoria popolare mutilata, né rivaluta la frustrazione suscitata fra gli antifascisti che ebbe una proiezione in alcuni partigiani allarmati dall’aria golpista e in alcuni brigatisti degli anni ’70. Spiega però che con l’instaurazione dell’ “antifascismo ufficiale” finirono per fronteggiarsi “negli anni del terrorismo, una concezione di antifascismo a difesa dell’assetto istituzionale e una concezione di antifascismo militante, cui i gruppi armati si richiamano”. Nel 1969, la Resistenza era vicina — 24 anni, sì e no una generazione, una vivace tradizione orale — e vicinissimi gli uomini del fascismo: per restare in quella Milano del 12 e del 15 dicembre, il questore Guida, già direttore del confino di Ventotene, l’uomo cui Pertini rifiuta di dare la mano; e il vicecapo degli Affari Riservati, Russomanno, repubblichino e militare nella Luftwaffe nazista…

L’autoassoluzione italiana aveva avuto un contraltare indispensabile nella colpa della Germania. “In tutta Europa, pur in misura diversa, nel lungo periodo vi è stato un processo di riduzione di tutte le responsabilità della guerra in capo alla Germania”. A Norimberga si denazificò non la sola Germania, ma l’intera Europa. Norimberga giocò per l’intera Europa occidentale un ruolo speculare a quello italiano dell’amnistia di Togliatti: grazie alle sue distillate condanne si poteva assolvere il mucchio dei colpevoli.

Col 1989 e le fine dei regimi comunisti, “il piano della discussione si sposta dall’antifascismo all’antitotalitarismo /…/ la centralità di Auschwitz va a inghiottire la memoria dell’antifascismo” — in Italia, succede solo dalla metà degli anni ’90. Da noi, “fra il crollo dell’ ‘antifascismo ufficiale’ con gli eventi post ’89 e l’avvento delle politiche memoriali della Shoah all’inizio del XXI secolo, si è avuto un ‘intermezzo di antifascismo smarrito’.” (G.De Luna). In Italia questa fase produce, piuttosto che una critica dell’autoassoluzione del passato, “una riabilitazione postuma del regime, un revisionismo che si traduce in una nuova e maggiore autoassoluzione e quindi in un più ampio oblio”.

La transizione degli anni ‘90

Caroli arriva a trattare per confronto la “transizione degli anni ’90. Il diritto penale per uscire dalla guerra e il diritto penale per uscire da Tangentopoli”. Sullo sfondo, sta il crollo del muro e, con la fine della Guerra Fredda, la successione di transizioni alla democrazia in molti paesi dell’America latina e dell’Europa orientale e centrale. In Europa occidentale è l’Italia, dove il Partito comunista è stato più numeroso e influente, a sentire più forte il contraccolpo della fine dell’Urss. Nel giro di un paio d’anni i partiti dell’ “arco costituzionale” e lo stesso partito neofascista finiscono. Tangentopoli è parte di una mutazione del sistema partitico ed elettorale che, “pur nella continuità dell’assetto costituzionale democratico”, vale un cambio di regime. Il trauma di Tangentopoli — l’universalità della corruzione, la spettacolarità dell’inchiesta, la fragilità e la miseria umana di un intero ceto di ricchi e potenti e clienti che corrono a denunciarsi e denunciare — spiega l’investimento popolare nella crociata giudiziaria e nella sua personalizzazione. Le possibilità sono due: se la corruzione è ordinaria corruzione sia pure su una scala spettacolosa, se “i politici” sono “tutti ladri”, basta applicare loro il codice penale, magari con la sbrigatività delle manette che l’urgenza sovreccitata esige. Se è un sistema di governo e di relazioni politiche e civili a essere coinvolto, anche la soluzione dev’essere straordinaria e politica. Si scelse la prima strada. Oppure, semplicemente, non si scelse.

Nonostante, osserva Caroli, che: “negli anni ’90 non solo non si esce da un conflitto armato, ma la giustizia di transizione sta conoscendo strumenti nuovi, soluzioni intermedie fra punizione e amnistia, dalle commissioni per la verità alle amnistie condizionate”. Nel ’46, la classe politica fu abbastanza forte da decidere per l’amnistia — il potere di non punire — anche se lasciò poi mano libera alla magistratura largamente fascista per l’attuazione; nei ’90 la classe politica non esistette — se non in quella chiamata di correo di Craxi, che fece ammutolire tutti ma non indusse nessuno a prendere un’iniziativa — e tutto passò in mano alla magistratura penale, in nome della lotta alla corruzione. Ma la stessa cosa era già avvenuta nella lotta al terrorismo e in quella alla mafia. E sui due versanti, quello dello Stato e quello della società, i fenomeni diversi, gli anni delle stragi e della lotta armata, delle mafie, e della corruzione politica e civile, si erano mescolati e sommati: la transizione di fatto fu quella di Di Pietro candidato al Mugello, di Berlusconi governante e sdoganatore del MSI di Fini, giù fino ai fasti di Palamara e Amara e di Piercamillo Davigo epuratore epurato (e però Gherardo Colombo fautore dell’abolizione del carcere).

Intanto, nel ’92, un parlamento tremebondo e ipnotizzato dai carceratori preventivi ricorse per l’ultima volta all’amnistia per se stesso, al costo di vietarla per il futuro, assoggettandola a un’introvabile maggioranza dei due terzi. Abolendo cioè l’istituto e il concetto di clemenza. L’Italia pubblica ha campato nell’ultimo quarto di secolo indebitandosi, cioè indebitando fino al collo le generazioni future, e ogni volta proclamando che era l’ultima volta. Con l’amnistia lo era davvero.

L’amnistia era stata fino ad allora “uno strumento di routine a scopi deflattivi, una cattiva coscienza di un diritto penale ipertrofico”. E anche “un argine al principio di obbligatorietà dell’azione penale, che al tempo stesso lo lasciava sopravvivere e impediva di metterlo in discussione”. Ce n’erano state 333 fra il 1861 e il 1990. Da trent’anni non ce n’è una. “La situazione della clemenza collettiva in Italia dal 1992 è caratterizzata da una grande ipocrisia: ufficialmente non esiste”; di fatto, il potere di clemenza è stato trasferito agli uffici delle Procure, “in una forma anomala, snaturata, a geografia variabile e rimessa da un lato all’efficienza dei singoli fori e, dall’altro, alle circolari dei singoli procuratori o presidenti dei tribunali”.

La misura che di fatto ha più surrogato l’abolizione della clemenza, la prescrizione, che implica un’altissima ineguaglianza, è stata nel 2019 il bersaglio del passaggio da via Arenula di un imbarazzante ministro, ed è ora diventata l’oggetto di acrobatici tentativi di riparazione. L’eccitazione ormai lunghissima della pubblica bava alla bocca ha fatto odiare la parola stessa di amnistia come il compendio di tutte le nefandezze. (In un altro contesto, nel 1961, la parola era stata scelta a nominare un’attività delle più degne del mondo contemporaneo, Amnesty International).

Il tempo è traditore. Il libro di Caroli finisce quando sembra soverchiante la crisi di legittimazione del potere politico, e lo leggo quando straripa la crisi di legittimazione dell’ordine giudiziario. La situazione italiana di oggi è vicina a una ironica chiusura del cerchio: il discredito pieno della politica accompagnato dal discredito pieno della magistratura. Alle transizioni si addice anche un accelerarsi imprevedibile dei tempi. Si pone, si trascina, la questione della politica italiana, confiscata da gente nuova e sùbiti guadagni, inetta di fronte all’invadenza delle Procure, ed ecco che una crisi rovinosa investe le stesse Procure e l’intero edificio della magistratura organizzata e autogovernata. Che cosa sarà della giustizia di transizione quando la transizione necessaria investe insieme la politica e la giustizia?

Una giustizia di transizione permanente?

D’altra parte il paradosso sta nelle cose. Nella velocità che hanno preso i mutamenti e nella longevità degli umani. La contraddizione fra il cuore arcaico dell’uomo e la quantità e radicalità dei cambiamenti cui assiste e cui si adatta rende sovreccitato ogni periodo. La giustizia di transizione si propone di assecondare la trasformazione nell’ordine — dunque non è né una rivoluzione né una restaurazione, e vuole sventare l’una e l’altra. Ma il MeToo è un mutamento che esige una giustizia di transizione, il Black Lives Matter lo è… E la cancel culture? L’esperienza planetaria della pandemia lo è clamorosamente — a meno che si pensi a un puro e semplice ritorno allo status quo ante. Il cambiamento climatico lo è. La fine del mondo — lo è.

Si deve immaginare una specie di giustizia di transizione permanente? Un calendario in cui ogni giorno diventi un giorno della memoria? (Del resto, ci siamo).

Qualcosa come la promozione delle unilateralità dentro una rete a maglie larghe, che non ne esca irreparabilmente strappata.

Il potere di non punire?

P.S. 2 giugno 2021, radicali e Lega presentano il referendum sulla giustizia. Marco Pannella, chi gli rinfacciasse di essere disposto a fare un patto col diavolo, si sarebbe offeso: “Il diavolo sono io”. Matteo Salvini non è il diavolo, almeno non il diavolo in capo, ma è per il momento un tipo che dice: “marcire in galera” e che corre a farsi il selfie con gli agenti penitenziari accusati di torture. D’altra parte, iniziative strampalate — che il cielo le accompagni, del resto — non possono che fiorire nel momento in cui i pensieri forti si sono dimessi e il discredito simultaneo della classe politica e della classe giudiziaria ha spalancato le porte agli incursori. Anche la lettera di Di Maio piove da questo cielo. Anche Amara e Palamara. La concorrenza fra una riforma della giustizia nelle mani di Cartabia e Lattanzi, legate da giganti del diritto come Bonafede e Travaglio e dalla bava alla bocca del loggione, e la via referendaria imboccata estemporaneamente e, vorranno ben ammetterlo, strumentalmente, da Lega e radicali, porterà chissà dove.

L’iniziativa è stata presentata nel giorno in cui usciva dal carcere l’ex killer e capomafia Giovanni Brusca, suscitando un raccapriccio vasto tra le vittime di mafia e la gente comune. Anche, molto meno degnamente, fra esponenti politici e giornalisti per i quali non poteva essere una notizia, e tanto meno uno scandalo, dal momento che erano coautori, o la conoscevano bene, della legge in osservanza della quale Brusca, come tanti prima di lui, anch’essi particolarmente efferati, aveva scontato la sua pena. A suo tempo quella legge meritò di scandalizzare, quando pretese di applicare un’indebita e grottesca categoria morale e religiosa ai mafiosi che, alle strette, uscivano dai ranghi. Chiamarli “pentiti” assegnava loro oltretutto un peculiare credito, così da ridurre gravemente il bisogno delle prove che ne riscontrassero le dichiarazioni. Sul piano dello scambio, cinico e sporco, fra confessione-delazione e ricompensa, il ricorso ai collaboratori di giustizia era ed è un caso prezioso del “potere di non punire” da parte dello Stato.

I diritti umani sono duplici, squilibrati e contraddittori. Sono diritti delle vittime e diritti degli imputati e dei colpevoli. Non si equivalgono certo, quanto alla morale. Quanto al diritto, le vittime non sono titolari di una potestà di punire, che allo Stato — o a una più ampia autorità di diritto internazionale — deleghi solo l’esecuzione. “La potestà punitiva dello Stato, a determinate condizioni, può esprimersi anche nella rinuncia alla persecuzione e alla pena”.

Lo può fare in nome della pacificazione. Lo può fare perché il tempo ha compiuto la sua opera. Lo può fare per una brutale convenienza, una “ragion di Stato” — o semplicemente per essere migliore.

Adriano Sofri

da https://brina-brillo.medium.com