Alle porte dell’udienza fissata in Cassazione per il 9 luglio 2020 sento l’esigenza di ripercorrere e condividere quella che è stata la mia esperienza fino a qui,
Dopo il corteo antifascista del 10 febbraio 2018 a Piacenza ho subito un arresto quasi da film poliziesco di pessimo livello: mentre svolgevo il mio lavoro come pizzaiolo presso “La Credenza” di Bussoleno, hanno fatto irruzione nel ristorante 3 uomini col passamontagna e numerosi altri senza che mi hanno tratto in arresto nello sconcerto collettivo senza che io facessi alcun tipo di resistenza. Stessa sorte in altre città per altri due ragazzi che avevano partecipato al corteo. Le immagini del mio arresto e del mio trasporto alla questura di Torino sono state prontamente messe sul web dai soliti giornalisti che danno spazio in modo acritico alle veline della Questura commettendo un’evidente violazione della mia privacy.
Da Torino vengo subito trasportato nel carcere delle Novate di Piacenza.
Da quel 15 febbraio dopo 3 mesi e 3 giorni sono riuscito a ad ottenere la detenzione domiciliare : nonostante avessi un contratto di affitto intestato a me oltre che un contratto di lavoro mi è stata negata la possibilità di tornare a casa mia e sono stato ospite presso un’altra abitazione per qualche mese. Finalmente dopo molta fatica e frustrazione mi hanno concesso di tornare a casa: ad oggi dopo più di 2 anni lo stato non mi ha ancora rilasciato…. al contrario si sono dati molto da fare per velocizzare il processo e mi hanno condannato in primo grado e anche in appello, con una lieve riduzione della pena, quasi ridicola.
Con la cassazione passerò da cautelare a definitivo: esito rapido ed estremamente esagerato rispetto ai reati contestati (parliamo di resistenza e aggressione…)che Istituzioni e questura sono riusciti ad ottenere in tempi molto rapidi per l’elefantiaca legge italiana. Non posso non pensare che l’ingerenza politica e la manipolazioni delle immagini estrapolate dal corteo e non contestualizzate ad opera dei giornalisti hanno fatto giocato come sempre un ruolo primario nella definizione dell’iter processuale.
Ad oggi sono profondamente consapevole che non sono riusciti a spezzarmi, so che avrò ancora molto davanti prima di poter riabbracciare compagni e compagne in strada, da uomo “libero” ma questo non mi abbatte, anzi, tutte queste loro ingiustizie nei nostri confronti fanno sì che la mia voglia di lottare e di mettermi in gioco per un futuro migliore, di cambiamento e di lotta al fascismo siano sempre più vivi in me.
Se mettono recinzioni noi le taglieremo, se alzeranno muri li abbatteremo e quando proveranno ad aggredirci ci difenderemo, la giustizia di questo stato ingiusto non mi spaventa, sono disposto ad affrontare ogni difficoltà pur di ritornare nelle piazze e di gridare a gran voce che i fascisti li rispediremo nelle fogne da dove ogni giorno provano ad uscire, perché uno stato che si definisce antifascista non può permettere l’apertura delle sedi di un partito politico che si definisce Fascista, e peggio ancora non può mandare polizia e carabinieri a protezione di questi luoghi.
Tornerò comunque, presto o tardi nelle strade a ribadire la poca fiducia nello stato verso la lotta al fascismo e che l’antifascismo non si delega ma si pratica, nelle strade, nelle scuole e sui posti di lavoro.
Un grosso abbraccio e un saluto a testa alta
IL BRESCIA
A chi non si è girato e non si girerà dall’altra parteSono passati due anni e cinque mesi, da quel 10 febbraio 2018 di antifascismo militante che infiammò le strade di Piacenza e, nel periodo successivo, tutte le piazze di Italia che, davanti al tentativo della destra fascista di avanzare in tempo di elezioni, videro come unica affermazione possibile uno scontro, sociale e politico, determinato a ricacciare la feccia della storia nella fogna dalla quale stava fuoriuscendo. Dopo svariati mesi di misure cautelari, che allora consistettero prima nella carcerazione e poi nella detenzione domiciliare con una seguente mia liberazione dopo circa 10 mesi di detenzione, il processo volge ora al suo termine e si ripresenta quindi il dispositivo repressivo; con solerzia ed incredibile rapidità, da record potremmo dire rielaborando le tempistiche con le quali il processo si è concluso, ancora una volta viene attaccato il dissenso che permise a una mobilitazione, composta da persone marginalizzate e perennemente sfruttate, di alzare la testa e ad un grido di rabbia di levarsi, contro l’orrore degli attacchi terroristici fascisti di Macerata per mano di un ex-candidato leghista di cui non possiamo scordare il nome: Luca Traini, che sparò con il tricolore al collo, ferì gravemente 6 persone di origine sub-sahariana e poi fece il saluto romano in pieno centro città.
Ricordo bene che la comunicazione mediatica allora era molto polarizzata: da una parte, le immagini e i video delle mobilitazioni da Torino a Palermo e dei conseguenti arresti come fu per il mio caso; dall’altra, la campagna intimidatoria e xenofoba di Matteo Salvini e di tutta la coalizione di destra che comprende da sempre Fratelli d’Italia con Forza Nuova e Casapound al seguito. Il 9 luglio si terrà l’udienza della Corte di Cassazione e si deciderà se ed in quale modo finiremo di scontare la pena che ci è stata inflitta.
Dai fatti di Piacenza ad oggi sono cambiate tante cose, eppure lo stesso grido di dissenso degli sfruttati e delle sfruttate di tutto il mondo sembra continuare a riecheggiare nelle strade e nelle piazze di questo presente: quasi come se da Macerata a Minneapolis potesse essere ben visible un filo rosso delle lotte, della solidarietà di classe e di quel NO al razzismo e al suprematismo bianco di cui continuiamo ad avere bisogno in questo mondo terribilmente ingiusto; come se tra il febbraio antifascista italiano del 2018 e l’imponente ondata di proteste del Black Lives Matter di queste settimane sia estremamente semplice visualizzare un limpido interstizio di umanità e dignità che, ancora una volta, ci dimostra come fermare la distopia capitalista sia ancora possibile e lottare utilizzando i propri corpi sia ancora una necessità di cui farci protagonisti; dal basso, tutti e tutte, bianchi e nere, contro chi propaga odio razziale e prevaricazioni sociali. E se dall’altra parte del mondo, nel “cuore dell’impero”, i giovani e le giovani “black” iniziano finalmente a riprendersi in mano il loro futuro, le loro città e a ribellarsi al presidente fascista Trump che governa gli U.s.a., anche qui è inevitabilmente arrivata l’ora di pretendere un futuro degno di essere vissuto, di andare a prenderci la dignità che ci spetta e che da sempre ci viene tolta e raccontata come “utopica”. Dalle carceri in rivolta alle mobilitazioni dei/delle giovani precari/e che continuano a chiedere un reddito universale e incondizionato, in questi tempi così travagliati e difficili che mai avremmo pensato di attraversare, come nuove e nuovissime generazioni non possiamo esimerci dall’essere presenti nel momento in cui il mondo sta cambiando: dobbiamo continuare a lottare.
Per concludere questa lettera, oggi come allora continuo a sentirmi nient’altro che un ragazzo, un compagno, che assieme a chi era presente in quella piazza, ossia lavoratori e lavoratrici della logistica, giovanissimi e giovanissime delle periferie popolari e centinaia di studenti e studentesse provenienti da tutta Italia per impedire l’apertura di una sede di Casapound, ha avuto la possibilità di incidere un minuscolo solco nella storia dell’antagonismo di classe, che porta il nome di tutti e tutte coloro che continueranno a perpetuare i valori dell’antirazzismo, dell’antifascismo e dell’antisessismo, di tutti e tutte coloro che continueranno ad avanzare compatti per respingere il male dell’umanità, ancora disposti ad incontrarsi su una barricata.
A testa alta e a pugno chiuso
Lorenzo, “Dibi”