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L’arena di Verona

L’opinione pubblica è ossessionata da un’«emergenza criminalità» inesistente. Lo ha ammesso, finalmente, il sindaco leghista di Verona di fronte alle telecamere che gli chiedevano lumi sulla tragedia tutta padana che ha colpito la sua città. Verona è diventata un’arena che col sempre efficace metodo retorico della metonimia ci permette di guardare ad una parte per vedere il tutto. Non significa che tutti siano diventati razzisti [anzi, bisogna stare molto attenti a non cadere nella trappola opposta all’indifferenza: la «sindrome da accerchiamento»] ma di sicuro ci troviamo di fronte a una situazione nuova e complessa, di fronte alla quale chi fornisce semplificazioni si trova avvantaggiato. L’orrore dei pestaggi è la drammatica conseguenza di questa tendenza a ridurre lo sconosciuto ad «anomalia», e a votare partiti che promuovono campagne contro l’immigrazione pur di non combattere la pigrizia mentale che ci impedisce di comprendere l’altro da sè. Per lo stesso motivo si parla di reati [statisticamente bassissimi] dei migranti piuttosto che sulle centinaia di aggressioni neofasciste degli ultimi mesi. La subcultura ultraminoritaria dei «naziskin» è riemersa nel mare magnum dell’odio generalizzato e dell’insicurezza sociale trasformata in paranoia. Bisogna partire dalla microfisica del razzismo per capire gli sguardi di sufficienza, quando non di accondiscendenza, che da anni accompagnano le manifestazioni dell’estrema destra e che hanno portato tanti a considerare come «pittoresche» le braccia tese del saluto romano verso il neo-sindaco Gianni Alemanno. E’ accaduto a Roma, nella città che nell’agosto 2006 ha visto un altro ragazzo giovanissimo, con una croce celtica tatuata sul petto, ammazzare uno come lui, solo proveniente da un altro quartiere. Si chiamava Renato Biagetti.
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