L’asilo confinato in Libia e i blocchi delle navi: il cuore oscuro della proposta Meloni
La presidente del Consiglio ha rievocato la creazione nei “territori africani” -Libia in testa- di “hotspot” dove poter “vagliare” le domande d’asilo. Un inganno in contrasto con la Costituzione e strumentale, così come il richiamo all’operazione Sophia per giustificare blocchi e respingimenti.
di Gianfranco Schiavone
Nel suo discorso di insediamento di fronte alla Camera dei deputati la neo presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sostenuto con enfasi che “questo governo vuole quindi perseguire una strada, poco percorsa fino ad oggi: fermare le partenze illegali, spezzando finalmente il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. La nostra intenzione è sempre la stessa”. Aggiungendo che “se non volete che si parli di blocco navale lo dirò così: è nostra intenzione recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal nord Africa. Intendiamo proporlo in sede europea e attuarlo in accordo con le autorità del nord Africa, accompagnato dalla creazione sui territori africani di hotspot, gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo e distinguere chi ha diritto ad essere accolto in Europa da chi quel diritto non ce l’ha”. E subito dopo ha aggiunto “perché non intendiamo in alcun modo mettere in discussione il diritto d’asilo per chi fugge da guerre e persecuzioni. Il nostro obiettivo è impedire che sull’immigrazione l’Italia continui a farsi fare la selezione in ingresso dagli scafisti”.
Potrebbero apparire dichiarazioni rassicuranti rispetto alla volontà di violare le norme internazionali sul soccorso in mare o sul diritto d’asilo che non fanno trasparire atteggiamenti di chiusura estrema, xenofobia e razzismo, ma che semmai propongono soluzioni che richiamano una sorta di imperativo morale, quello della lotta al traffico degli esseri umani. Tuttavia, esaminando con attenzione tali dichiarazioni, emerge una realtà molto diversa. Iniziamo dal riferimento più apparentemente tecnico e sconosciuto all’opinione pubblica e persino agli esperti, ovvero il rinvio ad un’operazione dell’Unione europea durata anni, l’operazione Sophia.
La missione Eunavfor Med Sophia è stata un’operazione militare istituita nel maggio 2015 (e avviata nel giugno) dal Consiglio dell’Unione europea (PESC) 2015/778 che si prefiggeva di contribuire a smantellare le reti del traffico e della tratta di esseri umani nel Mediterraneo centromeridionale. L’operazione dalle prospettive muscolari e assai ambiziose ha raggiunto ben pochi dei suoi obiettivi ed è terminata senza rimpianti nella primavera 2020. Nella cosiddetta “terza fase” dell’operazione, mai avviata, essa si prefiggeva di poter attuare anche fermi, ispezioni e sequestri di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani anche nelle acque territoriali e interne libiche alle condizioni previste da eventuali risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu o con il consenso dello Stato libico. Nulla di ciò è mai avvenuto in quanto non è stata adottata né una risoluzione Onu né un atto di consenso da parte del governo libico riconosciuto a livello internazionale.
Tale “terza fase” avrebbe forse potuto essere attuata (e chi scrive ne dubita comunque) solo nel caso in cui fosse andata a buon fine la stabilizzazione democratica della Libia e la conseguente possibilità di garantire ai migranti intrappolati in quel Paese condizioni minime di esercizio dei loro diritti fondamentali tra cui il diritto alla protezione internazionale o a forme di protezione equivalenti. Come è noto invece non c’è stata nessuna transizione della Libia verso la democrazia e neppure l’instaurarsi di una stabilità politica in forme statuali non democratiche; la Libia è un Paese che sprofonda nel caos istituzionale e nella violenza diffusa tra le diverse milizie, tutte implicate in quel traffico internazionale di esseri umani che le politiche italiane ed europee affermano di voler smantellare ma che invece proprio da tali politiche trovano ampia linfa ed alimento. Il riferimento alla fu missione Sophia e ai suoi obiettivi poco raggiunti attuato dalla presidente Meloni è del tutto privo di senso perché ogni riferimento a quella missione, comunque sottoposta al rispetto del diritto internazionale ed europeo in materia di rispetto dei diritti fondamentali, non permette di “giustificare” alcuna operazione di blocco navale, respingimento dei natanti o altre forme di interdizione o rallentamento delle attività di soccorso delle imbarcazioni in condizioni di pericolo (distress), operazioni che si porrebbero in violazione del diritto internazionale in materia.
La discutibile operazione Sophia, infatti, non ha mai avuto, né avrebbe potuto averla, la finalità che furbescamente Meloni le attribuisce ora, ovvero quella di creare le condizioni per impedire l’uscita dalla Libia di coloro che vogliono giungere in Europa per chiedervi protezione. Il riferimento all’operazione Sophia viene fatto per darsi un tono di europeismo rispettabile, per dire “vedete, lo diceva anche l’Europa, non voglio fare nulla di eversivo”. Null’altro che fumo.
Veniamo poi al vero cuore dell’argomentazione della presidente del Consiglio, invero affatto nuova perché già annunciata in campagna elettorale e ora fedelmente riproposta laddove si invoca il blocco per “attuarlo in accordo con le autorità del Nord Africa, accompagnato dalla creazione sui territori africani di hotspot, gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo e distinguere chi ha diritto ad essere accolto in Europa da chi quel diritto non ce l’ha”.
Lo straniero che vuole chiedere asilo all’Italia perché ritiene di trovarsi in una delle condizioni previste dal diritto internazionale ed europeo, nonché della nostra Costituzione all’articolo 10, non potrebbe più, secondo questa visione politica, arrivare alla frontiera italiana e chiedere ingresso in Italia per vedersi esaminata la sua domanda di asilo, bensì dovrebbe obbligatoriamente inoltrarla all’Italia ma in territorio libico, dove dovrebbe rimanere in forzata attesa della risposta all’interno di asseriti “hotspot”, la cui natura giuridica non viene definita.
La procedura di esame della domanda di asilo all’estero, ovvero al di fuori del territorio in cui l’Italia esercita la propria giurisdizione, avverrebbe in tal modo in un Paese, come la Libia, privo delle garanzie minime di uno Stato di diritto e non si configurerebbe come un eventuale primo vaglio di non infondatezza della domanda cui seguirebbe un’autorizzazione all’ingresso regolare in Italia per la prosecuzione dell’esame della domanda di protezione, bensì sarebbe a tutti gli effetti una procedura d’asilo svolta interamente nel Paese terzo senza tuttavia garantire l’accesso, da parte dei richiedenti, a quasi nessuna delle garanzie procedurali previste dal diritto dell’Unione (si pensi solo ad una adeguata assistenza legale e al connesso diritto ad un ricorso effettivo). Ed infine, soprattutto, tale procedura di esame delle domande interamente svolta all’estero non sarebbe “aggiuntiva” al diritto di accedere al territorio italiano ma radicalmente sostitutiva. Il cittadino straniero che oserebbe comunque prendere il mare per giungere in Italia per chiedervi asilo verrebbe bloccato, dirottato e respinto in Libia senza troppi complimenti o fastidiose procedure.
Una norma interna all’ordinamento italiano che, per ipotesi, disciplinasse quanto sopra, si porrebbe in diretto e insanabile contrasto con la nostra Costituzione che concepisce il diritto d’asilo quale diritto soggettivo perfetto, ma anche con il meno generoso vigente diritto dell’Unione europea che disciplina l’esercizio del diritto di chiedere protezione internazionale innanzitutto come un diritto di accedere alla procedura all’interno del territorio degli Stati così come alle loro frontiere. Impedire in modo diretto, da parte delle autorità italiane, di giungere alle frontiere europee sostenendo che il diritto di accesso alla procedura di asilo viene semplicemente “sostituito” dalla possibilità di presentare la propria domanda all’estero equivale a negare il fondamento stesso del diritto d’asilo.
Una situazione completamente diversa sarebbe quella di disciplinare la possibilità di potere presentare un’istanza di protezione alle autorità italiane, che ben potrebbero agire in sinergia con le istituzioni europee, anche al di fuori del territorio nazionale, al fine di avvicinare la protezione alle situazioni maggiormente in pericolo (ad esempio i famigliari di rifugiati già riconosciuti in Italia, persone che per la loro condizione sociale o politica sono in evidente pericolo, situazioni nelle quali v’è la necessità di una evacuazione umanitaria, etc.). L’avvio, in Paesi terzi, di procedure rigorose previste da una legge che al momento non c’è (e non da programmi sottoposti all’arbitrio politico del momento e dai numeri insignificanti) che prevedano l’istituzione a regime di canali di ingresso regolari per asilo non violerebbe certo il diritto di asilo stesso come si è storicamente configurato nell’Europa contemporanea bensì, ad avviso di chi scrive, lo rinforzerebbero sottraendo realmente quote di mercato ai trafficanti di esseri umani; tutto ciò però, lo sottolineo nuovamente, solo a condizione che si tratti di procedure e garanzie giuridiche rigorose che configurano vie aggiuntive e rafforzative del diritto del singolo di arrivare sul nostro suolo e non certo furbi escamotage per negare alla radice tale diritto.
È dunque evidente la natura estrema e ideologicamente violenta delle proposte della presidente Meloni e della maggioranza che la sostiene, anche se mascherate da apparenti nobili intenti utili solo a non far chiaramente comprendere chi ascolta tali dichiarazioni quale sia il cuore oscuro delle proposte che vengono avanzate.
da Altreconomia