Lavoro sottopagato: 30 lavoratori (detenuti) vincono vertenza contro il Ministero di Giustizia.
Quando si parla di lavoro intramurario è difficile immaginare il lavoro svolto dai detenuti come un lavoro “normale”. Nella percezione comune il lavoro in carcere equivale ad una estensione della pena stessa con funzione retributiva sfiorando, pertanto, l’idea tanto cara a certa politica, che auspica la reintroduzione dei lavori forzati. Sempre più frequentemente si ha notizia di protocolli d’intesa che coinvolgono vari enti, pubblici e privati, che vedono impiegata manodopera detenuta a titolo volontario o gratuito, sostituendo alla retribuzione della prestazione lavorativa il bollino della “buona condotta”. Ma così non è. Il lavoro, anche se svolto da persone detenute, deve essere retribuito come da contratto collettivo nazionale, in base alle mansioni svolte e alle ore.
Il principio riconosciuto e sancito all’interno della Costituzione, del Codice Civile e nelle norme dell’Ordinamento Penitenziario fissa l’assoluta parità di diritti tra il detenuto lavoratore e il lavoratore libero.
I detenuti che all’interno delle case di detenzione italiane svolgono mansioni lavorative dai nomi alquanto anacronistici quali “spesino”, “scopino”, “piantone”, “portavitto” non vedono adeguarsi la loro mercede (la retribuzione di chi lavora appunto nelle carceri) dal lontano 1993 in quanto è da allora che per la mancanza di fondi la Commissione Ministeriale responsabile di disporre gli adeguamenti non si riunisce, quindi è da oltre 20 anni che l’Amministrazione Penitenziaria e per suo tramite il Ministero della Giustizia si trova ad essere causa di discriminazione dimenticando la funzione di rieducazione che invece deve essere garantita ma soprattutto tale condotta va a scapito dell’affermarsi di una valida cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari.
Pertanto al fine di vedere riconosciuti i propri diritti in ambito lavorativo decine di detenuti che scontano la propria pena nelle case circondariali di tutta la penisola, tra cui Voghera, Catanzaro, Oristano, Parma, Novara e Tolmezzo, ecc., si sono rivolti all’associazione Yairaiha che ha investito i legali avv. Giuseppe Lanzino e avv. Marco Aiello, del Foro di Cosenza, e i consulenti del lavoro dott. Lino Landro e il dott. Alessandro Occhiuto per rielaborare le differenze retributive e promuovere l’azione legale.
Sono già oltre 30 i contenziosi intrapresi contro il Ministero della Giustizia ai fini della corresponsione ai detenuti lavoratori delle differenze retributive cui hanno pieno diritto stante la violazione dell’art. 22 dell’ordinamento penitenziario ai sensi del quale la cosiddetta “mercede” non deve essere inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria del CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro) in vigore ma per l’appunto, a causa di tale violazione in forza del mancato adeguamento dei livelli retributivi per carenze economiche, la forbice tra i compensi di chi è “fuori” e chi è “dentro” si è allargata sempre di più determinando i detenuti legittimati a rivolgersi all’Autorità competente.
Finora ogni ricorso iscritto alla sezione lavoro del Tribunale di Roma si è concluso con successo e anche in breve termine in quanto, al fine di accelerare le tempistiche e con l’assenso dei lavoratori, sono state avanzate proposte transattive sinora tutte accettate dall’Amministrazione Penitenziaria, per cui in tempi celeri i detenuti lavoratori hanno visto tutelato il proprio diritto ad una giusta ed equa retribuzione.
Associazione Yairaiha Onlus