Dalla Russia all’Ucraina, passando per Birmania, Egitto e Arabia Saudita, sono 87 i paesi a cui l’Italia vende armamenti. L’Italia ha fatto affari con Putin anche dopo le sanzioni varate nel 2014 per la guerra nel Donbass
di Angelo Mastrandrea
Il pomeriggio di martedì 1 marzo 2022, subito dopo l’approvazione in parlamento della risoluzione sull’invio di armi in Ucraina, dall’aeroporto militare di Pisa è decollato un Hercules C-130J dell’aeronautica militare italiana. Grazie alle segnalazioni arrivate alla Rete italiana pace e disarmo da alcuni spotter – “osservatori” che controllano partenze e arrivi spiando atterraggi e partenze sulle piste o seguendo le rotte dei voli attraverso siti web come Flightradar24 e Itamil-radar – del volo si conosce l’orario di atterraggio: le 20.17 all’aeroporto militare Mihail Kogălniceanu di Costanza, in Romania. Qui l’Italia a dicembre ha spostato otto caccia Eurofighter con i relativi equipaggi, provenienti dalle basi di Grosseto, Gioia del Colle, Istrana e Trapani. Non si sa invece cosa trasportasse l’aereo cargo, perché il decreto con la lista delle armi e degli “equipaggiamenti per la protezione individuale e della popolazione civile” da consegnare all’esercito ucraino, messa a punto dai ministeri della difesa, dell’economia e degli esteri, è stato classificato con il timbro “segretissimo”, il più inaccessibile dei livelli di secretazione. Fonti parlamentari hanno parlato di mortai, missili Stinger, mitragliatrici pesanti Browning, mitragliatrici leggere Mg, lanciatori anticarro, razioni K, radio Motorola, dispositivi antimine, elmetti e giubbotti antiproiettile, per una spesa che si aggirerebbe tra i 100 e i 150 milioni di euro.
Le cifre e il materiale inviato non sono però confermati dal ministero della difesa, per il quale “ogni ipotesi è da considerarsi basata su valutazioni prive di qualsiasi riscontro ufficiale e oggettivo”.
Per consentire l’invio delle armi in Ucraina, il decreto legge approvato dal consiglio dei ministri il 28 febbraio ha stabilito una deroga alla legge 185 del 1990, che vieta di vendere armi a un paese in guerra. Il decreto ha poi ricevuto il via libera del parlamento con le risoluzioni di camera e senato, approvate il 1 marzo. Qualche giorno prima il governo aveva stanziato 174 milioni di euro per rafforzare la presenza militare in Romania, in Lettonia e nel Mediterraneo orientale, mobilitando 1.350 militari fino al 30 settembre 2022 e altri duemila per eventuali rinforzi.
Così sono cominciate le spedizioni. Il 2 marzo, alle 12.57, gli “osservatori” hanno segnalato la partenza, sempre da Pisa, di un secondo Hercules C-130J, che è atterrato alle 15.28 all’aeroporto polacco di Rzeszów-Jasionka. Lo scalo si trova vicino all’autostrada E40 che porta fino a Kiev, a un centinaio di chilometri dal confine polacco, ospita un battaglione di paracadutisti statunitensi ed è utilizzato per far arrivare ogni genere di aiuti all’Ucraina.
I timori per la trasparenza Il 3 marzo sono partiti, sempre da Pisa, due Boeing KC767A e dal giorno successivo i voli giornalieri sono diventati tre, per un totale di 13 fino al 6 marzo, tutti effettuati con aerei cargo Boeing 767 o Hercules C-130 e arrivati a Rzeszów. La Rete italiana pace e disarmo, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) e The Weapon watch hanno chiesto al governo di “comunicare al parlamento tutte le operazioni in corso, informando riguardo alle tipologie di materiali militari che vengono inviati in Polonia e i destinatari e utilizzatori finali ucraini di tali materiali militari”.
L’ong Amnesty International in un tweet ha ribadito la necessità di “rispettare i princìpi di trasparenza” e di “non utilizzare indiscriminatamente gli equipaggiamenti che verranno inviati”. Il timore è che le armi spedite, in particolare quelle leggere, possano finire nelle mani di gruppi paramilitari o di bande criminali.
“L’unica cosa che sappiamo fare è inviare armi, ora agli ucraini e prima ai russi”, dice Giorgio Beretta, ricercatore dell’Opal e uno dei maggiori esperti in Italia di commercio degli armamenti. L’Italia ha fatto affari con il regime di Putin anche dopo le sanzioni contro la Russia che l’Unione europea aveva varato nel 2014 per la guerra nel Donbass.
Dal 2011 al 2014 sono stati venduti a Mosca 358 blindati leggeri Lince, prodotti dall’Iveco e assemblati nello stabilimento militare russo di Voronezh. Il 9 maggio 2012, i veicoli italiani hanno sfilato davanti al presidente Vladimir Putin nella tradizionale parata militare sulla Piazza Rossa che celebra la vittoria sul nazifascismo, scortando i missili balistici a testate multiple Topol-M.
Gli ultimi 83 mezzi, per un valore di 25 milioni di euro, sono stati consegnati nel 2015, quando erano già entrate in vigore le prime sanzioni europee contro Mosca. In più, non si è mai fermato il commercio verso la Russia di armi leggere, “almeno no al mese scorso”, sostiene Beretta. I dati sul commercio estero dell’Istat indicano che nel 2021 l’Italia ha venduto in Russia quasi 22 milioni di fucili, pistole, munizioni e accessori, destinati a privati cittadini ma anche alla polizia, a enti governativi o ad agenzie di sicurezza private.
“C’è il rischio che molte di queste armi siano finite nelle mani di corpi paramilitari e di mercenari che combattono in Ucraina”, denuncia l’esperto dell’Opal.
Nel mirino di ong e pacifisti non ci sono però solo le vendite di armi alla Russia. Il 3 marzo 2021 a Yangon, in Birmania, un mese dopo il colpo di stato militare che ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi, le forze di sicurezza sono intervenute con la forza per reprimere una protesta. Hanno sparato contro i vetri di un’ambulanza. Dopo l’aggressione, un uomo ha raccolto da terra un bossolo e l’ha mostrato a un fotografo. C’era il marchio della Cheddite, una fabbrica di armi livornese. L’azienda ha smentito di aver venduto i proiettili alla giunta golpista birmana.
La Rete italiana pace e disarmo sospetta però che armi e munizioni italiane arrivino nel paese dell’estremo oriente attraverso “triangolazioni” con altri paesi che le acquistano e poi le rivendono. Il sito birmano Irrawaddy, che aveva denunciato per primo il ritrovamento del bossolo italiano, ha scritto che un carico di munizioni era stato venduto due anni prima dall’Italia a Singapore, da questa alla Tailandia e infine era arrivato in Birmania. Un gruppo di lavoro composto da attivisti di Amnesty Italia, Atlante delle guerre, Italia-Birmania, Opal e dalla stessa Rete italiana pace e disarmo, incrociando prove fotografiche e documentali, è invece arrivato a un’azienda turca che “utilizza cartucce dell’azienda Cheddite”. A loro parere, potrebbe averle acquistate in Italia e poi esportate in Birmania, aggirando le sanzioni.
Alla fine di aprile verrà presentata alle camere l’annuale relazione sull’esportazione di armi. Il documento sarà consegnato ai parlamentari solo pochi giorni prima dell’approvazione e dal ministero della difesa non trapelano indiscrezioni sul suo contenuto.
L’anno scorso il giro d’affari era stato di quasi cinque miliardi di euro, con 2.054 autorizzazioni alla vendita in 87 paesi di tutto il mondo. La maggior parte di questi non appartengono né alla Nato né all’Unione europea, e la vendita a questi paesi arriva alla cifra complessiva di 2 miliardi e 204 milioni. Tra i primi dieci acquirenti ci sono l’Arabia Saudita, il Qatar e il Turkmenistan, considerato lo stato più corrotto dell’Asia centrale.
I caccia al regime di al-Sisi
Gli esperti puntano però il dito contro l’Egitto. Il regime guidato dal generale Abdel Fattah al-Sisi è diventato negli ultimi anni il principale cliente dell’industria militare italiana. Già nel 2020, nonostante la mancata collaborazione nel caso dell’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni e nell’arresto dello studente dell’università di Bologna Patrick Zaki, il governo del Cairo aveva acquistato dall’Italia materiale bellico per 991,2 milioni di euro.
L’anno scorso ha ritirato due fregate Fremm commissionate alla Fincantieri e costate 1,2 miliardi, e ha ordinato 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter Typhoon e 20 aerei addestratori M346 Leonardo, per una spesa che si aggirerebbe tra i 9 e gli 11 miliardi di euro. Altri 8,1 milioni di euro sono stati spesi, secondo l’Istat, in “altri prodotti in metallo”. Per l’esperto dell’Opal Beretta non può che trattarsi di bombe e munizioni prodotte dalla Rwm, un’azienda di proprietà della tedesca Rhein-metall che ha la sede principale a Ghedi, nel bresciano, e un secondo stabilimento a Domusnovas, in Sardegna. La Rete italiana pace e disarmo chiede al parlamento di “votare un documento che chiarisca la linea politica che presiede le esportazioni di sistemi militari italiani”, in modo che ciascuno possa “prendersi le sue responsabilità”.
da L’Essenziale