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Le battaglie degli avvocati del Genova Legal Forum tra successi e sconfitte

Dalle udienze dei Gip per la convalida degli arresti, ai processi contro i manifestanti, da quello per la morte di Carlo Giuliani fino a quelli per i pestaggi e le torture alla Diaz e Bolzaneto. Tra giustizia negata e pronunciamenti della Cedu. 

I processi del G8, per noi del Genoa Legal Forum ( così si era chiamato quel gruppo di avvocati che avevano tentato, nei giorni della manifestazione di arginare gli abusi delle forze dell’ordine) sono cominciati il martedì successivo, un giorno solo di pausa per fare la doccia, tirare il fiato e mettersi la giacca, e poi di corsa nelle carceri di Alessandria, Voghera e Pavia dove i Gip genovesi dovevano convalidare gli arresti effettuati il venerdì e, soprattutto, il sabato, in piazza e alla Diaz. Difficile dire cosa provammo a vedere sfilare occhi tumefatti, ecchimosi su tutto il corpo, qualche osso rotto, ma soprattutto la paura e lo sgomento nello sguardo di quel centinaio di giovani. Anche i Gip, dopo le prime disattente convalide, cominciarono a vedere le ferite, e le contusioni e a chiederne ragione: i ragazzi, quasi esitando, iniziarono a narrare il trattamento ricevuto a Bolzaneto, alcuni piangendo, altri senza riuscire ad articolare un discorso. Anche i verbali di arresto, tutti uguali e stereotipati, iniziarono ad apparire sospetti e i Gip si convinsero che ciò che vi stava scritto era una falsità e non convalidarono più niente. Ci vollero due giorni, ma poi tutti furono liberi. Anche quel povero gruppo di teatranti tedeschi, fermati sulle montagne intorno a Genova che se ne stavano tornando in Germania con i loro vestiti di scena, guarda caso neri: tedeschi, con abiti neri, dunque black bloc, arrestati.

I processi del G8 di Genova ci misero molto di più a decollare: mesi ed alcuni ( Diaz e Bolzaneto) anni e furono sostanzialmente tre: quello contro 25 manifestanti, quello sull’irruzione alla Diaz e quello sulla detenzione a Bolzaneto. Molti altri contro singoli manifestanti si snocciolarono nel corso degli anni, furono per lo più seguiti dai colleghi genovesi e si conclusero tutti con assoluzioni.

Il processo contro i manifestanti, etichettati frettolosamente black bloc, aveva tre punti giuridici di rilievo: la maniera in cui erano stati fatti i riconoscimenti, la contestazione di devastazione e saccheggio, l’applicazione dell’esimente della risposta all’atto arbitrario del pubblico ufficiale. Nessuno degli imputati era in vincoli né era passato per l’arresto; molti erano stati individuati sulla base di video, magari inviati alle singole questure per scovare a chi somigliassero quei dimostranti: in genere non erano individuati per avere commesso qualcosa di specifico e di grave, ma per lo più per essere stati presenti mentre i black bloc erano in azione. Ma apparve subito chiaro che essi non appartenevano ai veri e propri black bloc. Quanto alla devastazione e saccheggio – art. 519 del codice penale, con un minimo altissimo ( 8 anni) e un massimo spropositato ( 15 anni, quasi un omicidio) – la difesa sostenne a spada tratta che il reato non c’era. Era un’ipotesi delittuosa che era stata introdotta soprattutto per colpire il saccheggio di interi borghi durante lo sfollamento bellico e postbellico, e non poteva adattarsi a una città che già era stata messa a soqquadro dall’organizzazione del G8 e dove gli episodi di “spesa proletaria” ( furto collettivo al supermercato) era stato uno solo e i molti danneggiamenti non assurgevano certo a devastazione. Quanto all’esimente del decreto luogotenenziale della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, fu il tema che occupò di più l’istruttoria dibattimentale. Il collegio giudicante era molto attento e curioso della prospettazione difensiva su questo punto. Il Presidente ebbe a dirmi un giorno, chiacchierando durante una pausa, che lui non aveva mai letto e mai visto nulla di ciò che riguardava quelle giornate, per non essere influenzato nel caso, poi verificatosi, che avesse dovuto condurre un processo su di quei fatti: chapeau! verrebbe da dire. Ma sapevamo bene quanto rigido era se si fosse giunti a delle condanne. Invocare l’esimente in quel contesto sembrava azzardato: sappiamo tutti con quanta parsimonia essa venga riconosciuta anche nelle dinamiche testa a testa, uno a uno. Figuriamoci un’intera manifestazione contro una carica dei carabinieri, come era avvenuto il venerdì pomeriggio in via Tolemaide. Eppure noi difensori eravamo convinti che il processo poteva avere un esito in tutto o in parte positivo se avessimo dimostrato che “tutto era cominciato per colpa dei carabinieri”. E così facemmo e il Tribunale ci venne dietro, solo in parte e solo coprendo gli episodi immediatamente circoscritti a via Tolemaide e adiacenze, non per i fatti di Piazza Alimonda, purtroppo, ma fu abbastanza per alleggerire o mandare indenni 15 posizioni. Con le altre dieci fu durissimo: del resto la sanzione prevista dal 519 non lasciava scampo: furono irrogate pene da 8 a 13 anni. Ed alcuni le stanno scontando ancora adesso. La nostra ricostruzione del reato non fu accolta. E così pure non fu riconosciuto che essere presenti a ciò che combinavano i black bloc non poteva essere considerato partecipazione, ma il Tribunale, in certi casi, si spinse a dire che lo stare lì in strada in più punti del percorso a guardare mentre i black bloc compivano le loro scorribande andava a rafforzare la volontà di questi e se ne doveva rispondere. Concorso morale, a prescindere da ciò che avevi fatto in quei giorni: una sorta di presunzione di colpevolezza per chi era anche solo nelle adiacenze dei fatti criminosi, ma non vi aveva materialmente partecipato. Appello e Cassazione sostanzialmente avallarono il primo grado, per il bene e per il male.

Giunsero al dibattimento più tardi i processi sulla Diaz e su Bolzaneto, quando l’eco delle imprese dei black blokc era ormai scemato, l’opinione pubblica riconosceva ormai che la massa dei manifestanti era stata pacifica, ma soprattutto quando erano ormai emerse le nefandezze perpetrate nelle due occasioni dalle forze dell’ordine sia alla Diaz che a Bolzaneto. Ma un conto era far emergere la verità sui giornali e in tv, altro in un’aula di Tribunale, specialmente quando la polizia non collabora affatto per individuare i responsabili dei macelli. Eppure la tenacia dei Pm e dei difensori delle parti civili la ebbe vinta. Ma erano le accuse di semplici lesioni che comportavano pene non adeguate ai fatti, tant’è che questi reati andarono in prescrizione nei gradi successivi del giudizio e rimasero i falsi, ben dimostrati nell’istruttoria: i verbali d’arresto falsi, le molotov messe apposta alla Diaz dai funzionari di polizia per accusare chi era dentro alla scuola e “giustificare” il massacro compiuto, le attestazioni dei medici ed infermieri di Bolzaneto e tanto altro.

Fu nel processo di Bolzaneto che la difesa degli agenti propose, dopo che qualche vittima era stata sentita, di non acquisire i verbali delle dichiarazioni di decine di altri, per evitare l’impatto psicologico e giuridico che i racconti avrebbero avuto sul Tribunale. La difesa delle vittime non diede il consenso, nella convinzione che almeno il “risarcimento” del potere raccontare ciò che avevano subìto era dovuto a quei giovani picchiati e torturati. Era il primo piccolo passo verso una “giustizia riparativa” che altre esperienze, ben più gravi, ci avevano insegnato.

Mancava, all’evidenza, la possibilità di invocare l’accusa di tortura, perché il nostro Paese, pur avendo firmato la relativa convenzione, non aveva mai introdotto il reato specifico. Non restava che rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e così fecero i difensori di quello che era stato più di una dozzina di anni prima il Genoa Legal Forum, con l’aiuto di validi avvocati specializzati in diritto internazionale. E la spuntammo, rifiutando le offerte governative per comporre la vertenza ed esigendo che il reato fosse introdotto. E lo fu nel 2017, anche se in maniera non del tutto soddisfacente.

L’intera vicenda processuale, vista nel suo complesso, dalle convalide del 24 luglio fino alla pronuncia della Cedu, presenta molte ombre, ma anche qualche luce. Non solo era doveroso sostenere la battaglia, ma fu anche interessante e qualche esito positivo lo ebbe. Certo, riguardando indietro ai processi, non può soddisfarci constatare come per i reati contro le persone siano state comminate pene inferiori a quelle per i reati contro le cose, quale in fin dei conti è il 519.

Là dove la giustizia fu proprio negata, fu per l’omicidio di Carlo Giuliani: negata nel vero senso della parola, perché il dibattimento, cioè un vero giudizio, non vi fu mai e la vicenda fu chiusa con un non luogo a procedere per avere il carabiniere Placanica sparato facendo uso legittimo dell’arma e per legittima difesa, pur avendo puntato dritto al volto di Carlo, ma il Gip sostenne che aveva sparato in aria e la pallottola era rimbalzata su un sasso volante, andando a colpire dritto dritto il povero Carlo. Anche questa vicenda fu portata alla Cedu, ottenendo una sentenza di primo grado che riconosceva le responsabilità statuali nell’intera vicenda; ma in secondo grado, davanti alla Grand Chambre, sia pure 6 a 5 e con una bellissima dissenting opinion, la decisione fu malamente rovesciata.

Peccato.

Ezio Menzione – Avvocato del legal team

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Mi resi conto che in quei giorni la forza del diritto non contava nulla

Per l’occasione avevo comprato un codice nuovo, di quelli bianchi e verdi che usiamo tutti in udienza. Avevo messo dei post- it sul delitto di resistenza, su alcuni reati che pensavo potessero essere utili e sul Tulps. Nel codice di procedura penale non avevo messo post- it: ero avvocato da meno di un anno e la procedura me la ricordavo ancora bene. Ero stupito di essere lì, ragazzo di parrocchia catapultato da un amico nel gruppo dei legali del Genoa Social Forum. Avevo accettato con un sofferto e un po’ romantico salto nel buio. Sapevo che sarebbe stata un’esperienza particolare ma in fondo sarebbe durata pochi giorni, dopo i quali sarei rientrato nella normalità della professione che avevo iniziato con diligenza e passione.

Non sarei andato in manifestazione, sarei rimasto negli “uffici” di Legambiente e alla Diaz a disposizione se ci fosse stata necessità per le persone fermate. Mi ero ritagliato un ruolo di retrovia e invece venni proiettato nel cuore della vicenda al punto che, quasi per caso, il pomeriggio di sabato 21 luglio 2001 mi ritrovai davanti all’ingresso della caserma di Bolzaneto. Sapevamo che c’era stato un provvedimento di differimento dei colloqui tra avvocati e persone arrestate: il contatto tra legale e cliente era posticipato al momento dell’ingresso nel carcere di destinazione. Gli avvocati più anziani del gruppo ci avevano aiutato a mettere in luce la portata di quella forzatura del diritto che, apparentemente lieve, costituirà una dei presupposti del disastro Bolzaneto. Quel provvedimento ormai lo conoscevamo ma avevamo elaborato una diversa strategia: non sarei entrato per un colloquio, ma ero lì perché delegato ad assistere ad una perquisizione compiuta mezz’ora prima in uno dei dormitori dei manifestanti. I poliziotti avevano detto che la verbalizzazione sarebbe stata compiuta a Bolzaneto e quindi io dovevo entrare per assistere i manifestanti alla redazione del verbale, che è parte integrante della perquisizione cui il difensore ha diritto di presenziare. Forte della mia preparazione, con in mano il mio codice nuovo e i post- it nelle pagine giuste, mi ritrovai all’ingresso della caserma. Spiegai la questione al piantone e ad un altro poliziotto, i quali compresero che la risposta preconfezionata sul differimento dei colloqui non era sufficiente a mandarmi via.

Iniziò un’attesa abbastanza lunga nel corso della quale chiamai il Pm di turno cui spiegai la situazione senza riuscire però a fargli comprendere la delicatezza di quella ulteriore piccola forzatura. Poi comparve un vicequestore cui spiegai il problema. Con un modo affabile, che strideva con le macchie di sangue della sua maglietta, riconobbe che avevo ragione, ma che al tempo stesso io non sarei mai entrato in quella caserma: se avevo diritto di assistere alla verbalizzazione l’avremmo fatta per strada. Attesi ancora un po’ e me ne andai. Sconfitto. Come sconfitto mi sentii quella stessa notte alla Diaz quando ci venne spiegato che era in corso una perquisizione: “Gli avvocati hanno diritto di assistere alle perquisizioni e quindi noi possiamo entrare nella scuola”. Niente da fare. “Lasciateci finire il nostro lavoro”. Così ci urlò un funzionario.

Eppure il lavoro dei poliziotti, in un certo senso, è lo stesso degli avvocati: far rispettare la legge. Invece in quei giorni della legge, delle regole e dei valori che rappresentano non importava nulla a nessuno di coloro che gestivano l’ordine pubblico. Per qualche giorno la sicurezza doveva essere un gradino al di sopra degli altri diritti. Ed è in questo sovvertimento che si è annidato il disastro.

Io ci credevo nelle regole. Il diritto mi faceva sentire forte, specie quando capivo di aver ragione. Ma in quei giorni la forza del diritto non contava nulla, schiacciata dal diritto della forza. C’è voluto, e ci vorrà ancora, molto tempo per rimettere in ordine le cose.

Raffaele Caruso – Avvocato Genovese

da il dubbio