La responsabilità, oltre che della politica, è delle persone socialmente dominanti e influenti. Certamente è colpa delle schiatte politiche e di governo se il sistema carcerario nel nostro Paese è mantenuto in condizioni avvilenti e di inciviltà.
Ma a mantenerlo in quelle condizioni è anche l’atteggiamento delle classi socialmente dominanti e influenti: la gente che sta bene, per capirsi. Non che la fascia povera e disagiata dimostri più attenzione e umanità davanti alla rassegna di ingiustizia e illegalità quotidianamente offerta dalla cronaca carceraria, anzi: e semmai è proprio dal ventre plebeo del Paese che viene la reazione più violenta all’idea che ci si debba preoccupare di far vivere appena decentemente i detenuti.
Ma almeno quel vasto settore di popolo reazionario ha una scusante: non ha avuto a disposizione gli strumenti per farsi un’idea diversa e, soprattutto, non ha nessuna capacità di influenza. È soltanto la materia passiva degli esperimenti elettorali e delle inerzie dei deputati a cambiare le cose: accomodati a non cambiarle in faccia a un popolo al quale va benissimo che non cambino.
Le classi agiate e culturalmente più attrezzate non hanno analoghe scusanti. E la loro colpa è dunque più grave. E a contrassegnare questa colpa, a ben guardare, è un profilo particolarmente odioso: la sistemazione di classe, appunto. Il censo. La posizione di privilegio sociale. L’idea, immonda, che dopotutto un “delinquente” il carcere non lo soffre poi tanto: ché è il suo ambiente.
Ricordo con un certo schifo una cerimonia di presentazione di un libro di non so più quale giornalista sopra i tanti casi di cosiddetta (e giustamente detta) malagiustizia al tempo del terrore giudiziario degli anni Novanta, a Milano. Accanto a me stava un avvocato il quale, commentando quel reportage effettivamente agghiacciante, mi spiegava: “Sai, io sono garantista. Perché per un balordo, per un delinquente, finire in galera non è nulla: ma per una persona come noi, una persona perbene, è un dramma”.
Ero allora piuttosto giovane e molto sprovveduto, ma non abbastanza per non capire di quale pasta fosse davvero fatto il “garantismo” di certi presunti liberali; sui quali doveva purtroppo aver ragione ancora dopo tanto tempo Corrado Alvaro: il loro, scriveva, “non è un partito, ma l’atteggiamento di chi non ha gravi ragioni di sofferenza”.
A quella creatura seduta accanto a me, nemmeno remotamente si presentava il sospetto che il suo fervore garantista fosse magari male orientato, e determinato non dal senso di ribellione davanti all’ingiustizia del carcere incivile ma dal timore di poterci finire lui, un “galantuomo”. Che è già qualcosa, per carità, nel senso che un garantismo in prospettiva egoistica può in ogni caso contribuire a diffondere qualche sensibilità riformatrice: ma resta il segno di un rapporto abbastanza disturbato con le esigenze di amministrazione di un Paese che fino a prova contraria dovrebbe offrire la stessa giustizia a tutti, possibilmente decente e senza distinzioni di rango.
C’è dunque anche questo, disgraziatamente, a restringere la via già accidentata verso un miglioramento possibile del sistema carcerario nel nostro Paese: una pulsione garantista semmai autoprotettiva, oltretutto dannosa perché offre alla reazione giustizialista l’argomento ottimo secondo cui la militanza per lo Stato di diritto ammanta in realtà l’interesse bieco di chi vuole “farla franca”. Se i “galantuomini” si occupassero in primo luogo dei “balordi”, proteggerebbero infine anche se stessi. Ma dovrebbero capire che non meritano un carcere così incivile perché sono persone: non perché sono persone “per bene”.
Iuri Maria Prado
da il dubbio