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Le carceri, specchio della coscienza del Governo

Si ricorda spesso il motto secondo il quale le condizioni del carcere sono lo specchio della civiltà di un Paese. Ma se è così, è senz’altro vero che quelle condizioni sono anche lo specchio della coscienza di chi lo governa e che, governandolo, dovrebbe avere a cuore quel livello di civiltà.

di Francesco Petrelli – Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane

Si ricorda spesso il motto secondo il quale le condizioni del carcere sono lo specchio della civiltà di un Paese. Ma se è così, è senz’altro vero che quelle condizioni sono anche lo specchio della coscienza di chi lo governa e che, governandolo, dovrebbe avere a cuore quel livello di civiltà. Chi ci governa dovrebbe fare attenzione che la civiltà del nostro Paese non cada troppo in basso, facendo sì che un domani non potremo guardarci senza vergogna nello specchio della nostra storia. Inchiodati agli slogan della certezza della pena ed all’idea che più carcere significhi più sicurezza, viaggiamo contro il nostro stesso interesse di cittadini, contro ogni statistica, contro ogni buon senso e razionalità. Perché sappiamo che quanto peggiori sono le nostre carceri, tanto maggiore il rischio della recidiva.

A inizio luglio, intanto, si contano già 53 suicidi: l’ultimo a Potenza, dove un detenuto di 83 anni si è impiccato nella sua cella. Se in assenza di alcun serio intervento questa media dovesse essere mantenuta, si supererebbe la terribile soglia dei cento suicidi in un solo anno. Sono vite di uomini che erano in nostra custodia e nella responsabilità dello Stato, uomini e donne ai quali avevamo detto che il carcere li avrebbe resi migliori. Sono vite che pesano sulle nostre coscienze. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) ad aprile ha già richiamato l’Italia per l’assenza di iniziative volte alla soluzione del problema.

Nel mese di giugno ha fatto seguito il monito da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, proprio per non aver adottato misure adeguate alla prevenzione dei suicidi. Si sono susseguiti nell’indifferenza i moniti del Presidente della Repubblica Mattarella e gli inviti del Pontefice all’adozione di provvedimenti di clemenza. Il sovraffollamento nelle nostre carceri ha già da tempo raggiunto le soglie critiche che del 2013 determinarono la condanna dell’Italia da parte della Corte EDU. Ma la carcerizzazione è ancora imponente.

Lo è per via della mancata utilizzazione in sede processuale delle pene sostitutive e della carente applicazione delle misure alternative in sede di esecuzione. In entrata, il fenomeno è generato dalla persistente abnorme utilizzazione delle misure cautelari in carcere (il 30% dei detenuti è in attesa di giudizio), intese come anticipazione della pena piuttosto che come extrema ratio. Ed è ulteriormente aggravato dalla introduzione di aumenti delle pene anche per reati di piccolo spaccio, il che implica, non solo l’ingresso di una quota maggiore di tossicodipendenti, ma anche un consistente aumento della popolazione carceraria minorile con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.

Il sovraffollamento si risolve infatti, ovviamente, in un drammatico squilibrio rispetto alle già scarse risorse disponibili all’interno di ogni struttura carceraria. Rende ancor più gravi le carenze di personale amministrativo e di tutti gli operatori: dagli educatori al personale di Polizia penitenziaria. Vanno in sofferenza l’assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica assieme all’intera area del trattamento. Il sovraffollamento è infine, a un tempo, causa ed effetto della mancanza di adeguate risposte di giustizia da parte della magistratura di sorveglianza. Ma al di là di tale ovvia osservazione, non possiamo certo dimenticare che questa tragica emergenza si consuma all’interno di strutture carcerarie che spesso, come nel caso di Sollicciano (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare), versano in condizioni di inaccettabile degrado.

La carenza o la condizione deprecabile dei servizi igienici essenziali, la mancanza di acqua calda nelle poche docce, le stesse complessive condizioni igieniche degli edifici, che implicano assieme alla presenza di muffe, parassiti e di roditori nelle celle, l’innesco di focolai di malattie infettive, trasformano la detenzione in un qualcosa di totalmente diverso da quelle “pene” che la nostra Costituzione ha immaginato e che le Convenzioni tutelano. In simili condizioni di promiscuità i corpi si accalcano in spazi ridottissimi e il caldo e l’umido divengono elementi di ulteriore degrado ambientale e di insopportabile sofferenza fisica e psichica. Si tratta di condizioni che non hanno nulla a che vedere con l’espiazione di una pena che dovrebbe consistere nella sola privazione della libertà personale. Si tratta evidentemente di sofferenze aggiuntive che rendono quella pena ben più afflittiva di come ogni codice ed ogni giudice avrebbero voluto intendere, nel prevederla e nel comminarla.

Una liberazione anticipata speciale costituirebbe, dunque, nient’altro che una parziale e modesta restituzione di quell’originario e necessario equilibrio fra ciò che la sanzione avrebbe voluto e dovuto essere e ciò che è in concreto, nella sua esecuzione. Dire che un giorno di privazione della libertà, vissuto in quelle condizioni indegne per ogni essere umano, vale molto di più in termini di afflittività e di retribuzione, è solo una intuitiva ovvietà. Anche obliterando del tutto le finalità costituzionali della pena, i conti elementari di una giustizia punitiva non tornano.

Se si stenta a comprenderlo, se i nostri governanti non riescono ancora a cogliere questa verità, affermando che ogni provvedimento clemenziale costituirebbe un “fallimento” o una “resa dello Stato”, se il mondo della politica e della giustizia consentono che circolino simili parole d’ordine, capisco allora che si possa anche non cogliere il nesso che lega le condizioni di vita inumane e degradanti nelle quali vivono i detenuti con l’incremento della disperazione, con la caduta di ogni possibile speranza, con quel sentimento di arbitrarietà del destino e di assenza di giustizia che deve attraversare la mente di chi decide di fare quel passo atroce dal quale non vi è più ritorno.

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