Contributo al dibattito per la costruzione di un movimento antipenale e abolizionista di Francesca de Carolis, giornalista, scrittrice, ex TG1, ex Radio 1. Attualmente si occupa di carceri, nella speranza di contribuire a limare le grate anche della nostra mente.
Sto curando, in questi ultimi mesi, due libri che nascono dalle nostre prigioni, con testi di due persone con finepenamai. Diversissimi l’uno dall’altro, per forma e contenuti. Diverso il respiro, diverso lo spirito, diversi i destinatari, se pure a qualcuno di preciso si pensa quando si impugna una penna per mettere in fila parole che varchino le mura della propria cella. Eppure, adesso che li ho tutti e due sotto gli occhi, quasi pronti per andare in stampa, portano entrambi ragioni al rifiuto, che in me nel tempo è maturato, a questa “strana pratica”, e “alla pretesa di rinchiudere per correggere avanzata dai codici moderni”, per dirla con Foucault…
Un “no”, alla pena intesa come carcerazione, al quale immagino sia più difficile prestare ascolto e attenzione quando si parla di persone che abbiano commesso gravi crimini. Figuriamoci in un momento in cui la soluzione a ogni tipo di “devianza” sembra si trovi solo nell’“invenzione” di nuove figure di reati e in innalzamenti di pene…
Ma se ci fermiamo un attimo ad aprire gli occhi sui percorsi che iniziano quando dietro una persona si chiudono le porte di un carcere, e come proseguono, quei percorsi, e, soprattutto, dove vanno a finire, e come e quando non finiscono per nulla…
Le mie due storie.
“Cento giorni”, s’intitola, il testo di Claudio Conte. Claudio Conte è in carcere dal 1989. Arrestato all’età di diciannove anni, è stato condannato alla pena dell’ergastolo. E in carcere si trova, ininterrottamente, da quando vi è entrato.
Quando si trovava nel carcere di Catanzaro Claudio si è laureato in giurisprudenza, e la sua tesi è stata premiata dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Catanzaro come “miglior tesi di laurea dell’anno”. “Cento giorni”, sono pagine di un diario che va dal bellissimo racconto del giorno della discussione della laurea, alle cronache delle settimane che seguono, che sono tutto un esplodere di attività, di idee, di riflessioni, di studio, di puntuali dissertazioni giuridiche, di scambi di lettere e opinioni con il mondo “fuori”. Compreso uno straordinario carteggio con Claudio Magris. Cento giorni, perché è di poco più di tre mesi lo spazio che va dalla mattina di primavera della sua laurea, all’esplodere del caldo di luglio, quando tutto era attesa di un nuovo futuro, mentre invece… all’improvviso viene trasferito ben lontano, nel carcere di Parma. Con tutto quel che comporta… a cominciare dalla brusca interruzione dei rapporti e del percorso nel tempo costruiti. Un percorso prezioso che a tutti sembra interessare, tutti sembrano riconoscere, tranne l’istituzione carcere.
Francamente ancora mi chiedo come ce l’abbia fatta, dopo un periodo di comprensibile avvilimento, a riprendere a studiare, scrivere, pubblicare. Claudio, che un giorno pure mi ha detto: io credo nei principi della Costituzione…
E cosa dimostra, la vicenda di Claudio Conte, se non l’indifferenza dell’istituzione al percorso rieducativo che pure si proclama … come d’altra parte l’articolo della costituzione nella quale Conte crede davvero. Peccato che sia il sistema a non crederci e a dichiarare a questo proposito il suo fallimento, se trent’anni di carcere (e tutto quel che di buono Claudio è riuscito a metterci dentro) non sono serviti a “rieducarlo”…
Il secondo libro.
“Diversamente vivo”. Si tratta di una raccolta di lettere scritte da Davide Emmanuello (naturalmente tutte passate dal visto della censura). Davide, che sconta l’ergastolo, si trova da circa due decenni in regime di 41bis, regime che per ben tre volte gli è stato revocato da tre diversi Tribunali di Sorveglianza, ma poi ogni volta riapplicato, come aveva scritto nell’ultima delle sue memorie l’avvocato che ne aveva assunto la difesa, “senza alcun reale fatto nuovo”, cosa che, senza fatti che la sostengono, “trova evidentemente la sua ragion d’essere nella categoria della più esasperante –ed in pari misura vessatoria– arbitrarietà”. Chi ha una sia pur vaga idea di cosa sia il regime di 41bis, sa che qui si entra davvero nel girone più profondo dell’inferno dei sepolti vivi, dove il tanto proclamato fine rieducativo della pena è cosa, si può dire, “per definizione” esclusa dagli intenti.
“Diversamente vivo” è definizione dello stesso Emmanuello, che con scrittura fuori dal comune riesce bene a testimoniare una condizione che mi riesce difficile definire diversamente da tortura, sia fisica che psicologia.
Ve ne do un piccolo esempio, con le parole di Davide:
“Caro fratello noi prigionieri in fondo possiamo definirci “diversamente in vita” o diversamente “liberi”, e snaturati dal vivere e privati della libertà siamo stati dai giusti giustiziati nell’essenza di esistere. In noi ormai l’esserci non ha più dimora nella parola; esistiamo perché presenti in quanto corpi, e proprio perché ridotti a sola materia, non comunichiamo più attraverso la parola quell’esserci nel mondo in quanto presenza pensante”.
Cosa dimostra la situazione di Davide Emmanuello. Se il fine dichiarato del tremendo regime del 41bis (che è costante violazione dei diritti elementari dell’individuo, senza parlare dell’inutile “surplus di afflizioni privazioni e restrizioni, che non sembra avere ragion d’essere nella logica prima ancora che nella legge”, come si legge nella relazione della Commissione diritti umani del Senato, redatta al termine di due anni di indagine conoscitiva sul 41bis) è l’isolamento del colpevole, se in due decenni non si è riusciti a recidere definitivamente i legami con l’associazione d’appartenenza, obiettivo con il quale si giustifica una così estrema misura, vuol dire che il sistema (e che sistema!) “o è inefficace, o vuole ottenere altro”.
Se si vuole ottenere dell’altro…, con un regime di vera tortura, questo è dichiararsi fuori dalla legittimità di un sistema che vorrebbe essere democratico. Se “semplicemente” inefficace, il carcere, anche nelle sue forme più “dure” per i più “duri” pensato, ancora rivela la sua inutilità.
Insomma, due voci dal silenzio che ben testimoniano, da realtà completamente diverse, come l’istituzione carcere sia un sistema che contraddice i suoi stessi dichiarati fini e principi, mettendo alla fine a nudo la propria inutilità, e mettendosi di fatto fuori dallo spirito e dalla lettera della Costituzione.
Francesca de Caroris
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