Fare spazio ai diritti tra paura e ripoliticizzazione
di Francesco Ferri
Alla lettura dei risultati elettorali con le lenti delle politiche migratorie fanno seguito, in maniera ricorrente, due reazioni. La prima è lo sconforto. È molto facile che l’immagine di un parlamento con una larga maggioranza di destra spaventi chi è in migrazione, chi ha un background migratorio e chi si mobilita per il riconoscimento dei diritti. È un timore comprensibile e fondato: le politiche annunciate dalla destra, il suo linguaggio e la sua postura fanno paura.
In secondo luogo, nell’immaginare quali opzioni politiche di movimento privilegiare in questo nuovo contesto, è molto probabile che alle sensazioni soggettive di paura corrisponda lo sviluppo di atteggiamenti difensivi. Anche da questa prospettiva, le motivazioni sono evidenti. Ci si aspetta un salto di qualità nella messa in discussione dei diritti delle e dei migranti; di conseguenza, ci si interroga sulle modalità più opportune per difendersi.
La paura è un sentimento nobile – ancor più quando è socializzata e assunta come dato politico – e la tensione alla difesa è spesso indispensabile. Allo stesso tempo, sono opzioni a loro modo pericolose. La paura, quando non è contaminata da sensazioni di altro segno, può essere paralizzante; la sola postura difensiva – sviluppata in periodi in cui la difesa dell’esistente non è sufficiente – può essere inefficace.
L’affermazione delle destre in Italia è compatibile con sensazioni differenti dalla paura? È possibile immaginare che nel nuovo scenario politico siano possibili iniziative politiche finalizzate alla conquista di nuovi diritti? Iscrivendo i risultati elettorali nello scenario allargato delle politiche migratorie dell’ultimo decennio, è forse possibile scorgere alcuni elementi che complicano il quadro a tinte fosche e permettono di scorgere potenziali opportunità.
Un radicale cambio di fase?
I risultati elettorali sembrano segnare una netta discontinuità. In parte è reale: l’affermazione delle destre consegna un parlamento con una solida maggioranza ostile ai diritti delle e dei migranti. Osservando le politiche migratorie sviluppate nell’ultimo decennio – caratterizzato per buona parte da governi di unità nazionale – è però difficile rimpiangere questa lunga stagione politica. Le innovazioni introdotte dal Ministro Minniti sono esemplificative delle politiche sviluppate, nel complesso, nel corso di questi dieci anni. Quei provvedimenti sono il prodotto del consolidarsi di saperi securitari anche nel campo del centrosinistra; hanno aperto la strada all’azione politica del Ministro Salvini nell’ambito del governo Conte I. In seguito, il Ministero gestito da Lamorgese ha assunto un atteggiamento parzialmente diverso – soprattutto dal punto di vista retorico – al quale, peraltro, non hanno fatto seguito discontinuità strutturali.
La paura per l’offensiva del governo di destra può forse essere mitigata dalla consapevolezza che, negli anni precedenti, lo sguardo del legislatore nei confronti della mobilità tra i confini è stato costantemente ostile.
È possibile che, nei primi mesi di azione, il governo emani un nuovo decreto per superare le parziali novità introdotte in sede di revisione dei decreti sicurezza del 2018 e del 2019. Allo stesso tempo non è da escludere che l’offensiva del governo si svilupperà lungo temporalità più lunghe e con modalità più ibride. In alcune stagioni politiche il disciplinamento istituzionale della mobilità è spettacolarizzato, rivendicato, esasperato dalla violenza verbale. Altre volte, gli stessi obiettivi sono perseguiti con visibilità differenziata, con utilizzo più prudente delle parole, con meno esposizione.
Nel nuovo scenario politico è possibile attendersi l’uno e l’altro registro. Dipenderà da molti fattori, anche non legati alle politiche migratorie: l’andamento delle crisi internazionali e dell’inflazione, la stabilità del governo, la tenuta dell’economia, e così via. In ogni caso, è molto probabile che i punti focali – delocalizzazione delle frontiere, criminalizzazione della solidarietà, precarizzazione degli status – siano governati lungo il solco tracciato nel ciclo precedente. Sotto questa luce, la nuova fase politica appare – in parte – contigua con la precedente. Non è di per sé un elemento che consola ma, con queste lenti, la mole di paura postelettorale può essere meno paralizzante: andiamo – almeno in parte – incontro al già noto.
Istituzioni e società
La fotografia del parlamento è inesorabile: la destra – discorsivamente più ostile nei confronti delle e dei migranti – è iper rappresentata. A questa espansione istituzionale corrisponde una crescita dei consensi di queste forze politiche? Risultati alla mano, è difficile sostenerlo. In termini assoluti, i voti conseguiti dalla destra sono sostanzialmente equivalenti a quelli del 2018: circa 12 milioni. Anche in termini di percentuali di voto, la destra vince ma non sfonda: l’ampissima maggioranza in parlamento – fino al 60% alla Camera – è data dall’effetto moltiplicatore della legge elettorale. In aggiunta, l’astensione raggiunge il suo picco storico e, in alcune aree del sud Italia, arriva fino al 50%.
Le elezioni rappresentano solo parzialmente le tendenze che attraversano la società; le preferenze espresse in cabina elettorale non di rado seguono logiche diverse dalla mera adesione ai programmi elettorali. Ma anche assumendo la prospettiva per la quale chi ha deciso di votare a destra sottoscrive a pieno le proposte formulate da FDI e soci in tema di politiche migratorie, il quadro è probabilmente meno fosco di come l’iper rappresentazione di queste forze politiche in parlamento suggerirebbe. La destra – in sostanza – vince ma non sfonda. È un elemento decisivo, da richiamare alla mente ogni volta che, con le elezioni lontane, il dato sull’astensione e l’effetto moltiplicatore della legge elettorale saranno dimenticati. Soprattutto, con queste lenti è da mettere in discussione la prospettiva per la quale i risultati elettorali sarebbero la fotografia di un’Italia razzista in maniera univoca. Certo, il razzismo dall’alto, istituzionale e sistemico, e quello dal basso sono due fattori chiave del nostro paese. Allo stesso tempo, anche assumendo per buona l’idea per la quale i risultati elettorale sono lo specchio della società, l’area composita e puntiforme del non voto a destra – costituita da chi, volontariamente o no, non partecipa al voto, e da chi vota le forze politiche che, per lo meno discorsivamente, hanno posture meno ostili – è ampissima. Di gran lunga la maggioranza del paese.
È un blocco largo ed eterogeneo, animato da tensioni tra loro anche molto diverse. È, in ogni caso, la testimonianza che l’adesione elettorale a posture esplicitamente razziste non è l’opzione più diffusa. L’insieme del non voto a destra non è di per sé una forza antirazzista ma è utile – forse indispensabile – interrogarsi sulle modalità più efficaci per mobilitare nel nuovo scenario alcuni dei gruppi sociali che compongono questa articolata galassia.
Ripoliticizzazione
Con le cautele e le complessità descritte, è probabile che il nuovo scenario politico sia caratterizzato da una nuova ripoliticizzazione delle politiche migratorie. Difficilmente il tema delle modalità con cui sono governati i flussi sarà ancora ai margini del dibattito, così come lo è stato durante la parentesi Draghi.
La ripoliticizzazione può darsi in tempi brevissimi – se le circostanze lo richiedono – oppure può attestarsi sul medio periodo. In ogni caso, è una sfida che va attraversata con fiducia e determinazione. Dal punto di vista di chi si mobilita con le e i migranti, è una partita decisiva. In discontinuità con l’ultimo frammento della legislatura precedente, è probabile che ci troveremo a giocare in campo aperto: le iniziative politiche saranno più nitide, più leggibili su larga scala.
Un elemento – tra i tanti – può essere decisivo in questo nuovo schema. Chi presenta con più forza e coerenza i temi – anticipando la controparte – ed è capace di determinare quello di cui si discute ha un indubbio vantaggio strategico. Da questa prospettiva, è utile immaginare di non giocare di rimessa, in attesa delle prime mosse dell’avversario. Può essere utile sottoporre a critica la postura per cui è probabile un’offensiva del governo e, quindi, ci si prepara a controbattere, senza assumere iniziative autonome. Al contrario, in queste prime settimane di legislatura può essere sviluppato uno sforzo corale per agire, con radicalità, forza e intelligenza, alcuni temi, senza attendere l’eventuale azione dell’esecutivo. Per esempio, piuttosto che immaginare di difendere l’insieme di diritti attualmente a disposizione, è utile provare a giocare di anticipo, sottolineando la necessità che siano introdotte forme di regolarizzazione ordinarie, accessibili, di ampia portata. O ancora, in attesa di capire lungo quali traiettorie si svilupperanno le politiche di delocalizzazione delle frontiere nel nuovo ciclo, è indispensabile mettere in discussione gli attuali pilastri: le politiche di cooperazione con i paesi di origine, partenza e transito, la gestione delle frontiere interne ed esterne, la funzione strategica degli hotspot.
Avere paura è fisiologico e anche salutare. Con la paura – individuale e collettiva – si può dialogare. Iniziative politiche di basso calibro, posture iper difensive, arroccamenti umanitari possono contribuire all’involontaria diffusione e cronicizzazione delle paure. Al contrario, l’immaginazione ad ampio spettro – che anticipi e orienti la probabile ripoliticizzazione del dibattito pubblico sulle migrazioni – può consentire la costruzione di mobilitazioni all’altezza delle sfide del presente.