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L’economia di guerra

Fabbricanti di armi che guadagnano bene sopra la morte di bambini e bambine, donne e uomini. Governi che sottraggono risorse di tutti alla spesa con cui prendersi cura delle persone e dell’ambiente naturale. Disumanizzazione e profitto. In fondo l’orrore della guerra è tutto qui

di Pasquale Pugliese da Comune-Info

All’interno del sistema di violenza simbolica nel quale – per dirla con Pierre Bourdieu – “i dominati applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti ai rapporti di dominio, facendoli apparire come naturali” (1998) e perfino desiderabili, l’anziano e acciaccato papa Francesco svolge tra i capi di Stato, rispetto al dominio simbolico del bellicismo – l’ideologia di guerra che vorrebbe ammantare la guerra di naturalità – il ruolo del bambino della fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore che candidamente, guardandolo, esclama: “il re è nudo!”. Smascherando ciò che i rapporti di dominio vogliono far passare come normale per i dominati. È accaduto anche nell’udienza generale di mercoledì 29 novembre, nella quale, ricordando le guerre in Ucraina e in Palestina, il papa ha ribadito, per l’ennesima volta, che “la guerra sempre è una sconfitta, tutti perdono”, correggendosi subito dopo: “Tutti no, c’è un gruppo che guadagna tanto: i fabbricanti di armi, questi guadagnano bene sopra la morte degli altri”. La guerra smascherata nella sua nuda verità.

Dopo che le spese militari globali, e dunque i profitti dei produttori di armi, sono raddoppiate dal 2001 al 2021 – ossia nei vent’anni di guerre Usa seguite all’11 settembre, come registrato dal Sipri di Stoccolma – dal febbraio 2022, ossia dall’invasione russa dell’Ucraina, a cui è seguito il massiccio invio di armi al suo governo da parte dei paesi Nato, le azioni in borsa dei 70 produttori di armi più importanti al mondo, tra i quali l’italiana Leonardo, hanno ripreso a crescere vertiginosamente, guadagnando fino al 325 per cento (Milano finanza, 24 novembre 2023).

In un circuito perverso in cui i profitti dei produttori di armi sono direttamente proporzionali alla quantità di morti causata dai loro prodotti immessi sul mercato: almeno mezzo milione di morti tra i soldati ucraini e russi, il massacro di una generazione di giovani nel cuore dell’Europa; almeno 15mila morti dal 7 ottobre 2023 ad oggi nella striscia di Gaza, di cui oltre seimila bambini, con un ritmo di vittime “che non ha precedenti in questo secolo” (New York Times, 25 novembre 2023). Per tacere delle altre guerre dimenticate dai media.

La gravità dell’escalation bellica globale, e dei suoi effetti anche sui paesi produttori di armi, è stata descritta in un recente rapporto commissionato da Greenpeace in Germania, Italia e Spagna a un team di esperti sul riarmo dell’Europa, che non ha avuto – in coerenza con il sistema di violenza culturale bellicista – la risonanza mediatica che avrebbe meritato. Secondo il rapporto, pubblicato lo scorso 27 novembre, nell’ultimo decennio la spesa per le armi nei Paesi Nato della Ue è cresciuta 14 volte più del loro Pil complessivo. Il rapporto dimostra che tra il 2013 e il 2023 in Europa le spese militari hanno registrato un aumento record (più 46 per cento nei Paesi Nato-Ue) trainato proprio dall’acquisto di nuove armi (più 168 per cento nei Paesi Nato-Ue). Ma anche le importazioni di armi della Ue hanno subito un’impennata, triplicandosi tra il 2018 e il 2022. Un simile aumento della spesa militare e dell’acquisto di armi è in netto contrasto con la stagnazione delle economie europee ed è un grave passo verso la militarizzazione dell’Europa che, anziché portare sicurezza, scrive Greenpeace, “rischia di destabilizzare ulteriormente l’ordine internazionale”.

All’interno di questo trend europeo, nonostante le difficoltà delle finanze pubbliche italiane, la spesa militare è cresciuta con un ritmo senza precedenti anche nel nostro Paese sottraendo risorse pubbliche alla spesa sociale, civile e ambientale. Nel periodo 2013-2023 la spesa militare in Italia è aumentata del 30 per cento e quella per i soli nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi a 5,9 miliardi di euro (più 132 per cento). Mentre, nello stesso periodo, l’investimento per la sanità è aumentato solo dell’11 per cento, la spesa per la protezione ambientale del 6 per cento e la spesa per l’istruzione del 3 per cento. Un’economia di guerra che, mentre produce strumenti di morte, sottrae preziose risorse di vita.

“In Italia – spiega il rapporto di Greenpeace – 1.000 milioni di euro spesi per l’acquisto di armi mettono in moto un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro. La stessa cifra investita in altri settori ha invece un effetto moltiplicatore quasi doppio, con un aumento della produzione pari a 1.900 milioni di euro nella protezione ambientale, 1.562 milioni di euro nella sanità e 1.254 milioni di euro nell’istruzione. Uno scarto ancora maggiore si registra nell’impatto occupazionale dei 1.000 milioni di spesa, che nel settore della difesa sarebbe limitato a 3.000 nuovi posti di lavoro, mentre nel settore dell’istruzione sarebbe di quasi 14.000, più di 12.000 nella sanità e quasi 10.000 nella protezione ambientale. In pratica, circa 4 volte tanto”.

La guerra e la sua preparazione – mentre potenziano il dominio del complesso militare-industriale internazionale – non solo devastano i luoghi in cui si svolge e le esistenze di chi ne è vittima, non solo trasformano ogni conflitto in conflitto armato generando crescente insicurezza globale, ma impoveriscono e distruggono le prospettive di futuro anche nei paesi che, apparentemente, ne dovrebbero trarre profitto. La nuda verità, sottratta alla violenza simbolica che fonda la mistificazione bellicista.

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