Khaled El Qaisi, traduttore italo palestinese, studente di Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza di Roma, tra i fondatori del Centro di Documentazione Palestinese, è prigioniero dello stato d’Israele dal 31 agosto senza alcuna accusa formale. È stato ammanettato davanti al figlio e alla moglie mentre rientravano dalle vacanze trascorse a Betlemme. Martedì 12 settembre, due suoi cugini sono stati rinchiusi in carcere con le stesse modalità.
di Filippo Kalomenìdis*
LETTERA PER KHALED
Khaled,
spero potrai leggere la mia lettera prima possibile. Vorrebbe dire averti qui, con tuo figlio, con Francesca, con tua madre, fuori dal pozzo con un coperchio d’acciaio blu al posto del cielo, dove ti hanno gettato nella galera di Ashkelon.
Ashkelon che ha soppiantato la città palestinese di Al-Majdal, rasa al suolo nel 1948 dagli israeliani. Non voglio certo spiegare proprio a te la storia sionista fondata sull’usurpazione di sguardi, vite, spazi e nomi che arriva oggi a definire “arresto” il tuo sequestro di persona. Ma semplicemente sottolineare che appena si scruta oltre le loro parole e menzogne s’incontra il sangue che hanno sparso e spargono.
Da qualche giorno ho scoperto che, senza conoscerci, siamo stati carezzati dagli occhi cristallini degli stessi amici.
Da sempre, sin dai racconti di mio padre che mi accompagnavano da bambino, so come i senza luogo, i figli dei profughi camminano sulla terra che gli è stata rubata. Ogni passo la scuote con amore e deride la miseria morale del ladro che se n’è impossessato.
Ma non sono queste le ragioni che mi portano a rivolgermi soltanto a te, ai palestinesi e a coloro che ti stanno realmente accanto.
Ho subito capito che non avrebbe alcun significato scrivere ad altri del tuo rapimento e della tua prigionia.
Dovrei appellarmi alle alte cariche della Repubblica? Non sono interessate a riaverti qua. Probabilmente, come i tuoi carcerieri, ti considerano “una cavalletta” da tenere lontana dal proprio raccolto di massacri. Lo hai danneggiato ridando voce alla memoria attiva del popolo palestinese che nessuno deve più nominare. Perché non deve più esistere. Chi rompe la linearità del flusso della storia ufficiale – incisa per conto degli assassini buoni e occidentali – non è mai stato gradito in questo Paese. Non basta certo una madre dal nome italiano e la sacra cittadinanza per far scordare loro la metà del tuo sangue e il tuo vincolo con la verità. I sionisti, figli perfetti d’Europa e d’Italia, possono quindi sprofondarti nella loro «Malebolge» per il tempo che gli aggrada. Insieme a cinquemila detenuti politici palestinesi.
Dovrei indirizzare il mio messaggio ai grandi quotidiani di Roma, Milano, Torino quasi tutti stampati con la filigrana dei sicli della Bank of Israel? Quei giornali che si ricordano dopo giorni e giorni della tua incarcerazione ingiustificata, senza accuse? Che chiamano la brutalità «un equivoco»?
Dovrei ammansire i mustawṭinīn italiani, i colonialisti della sinistra liberista che glorificano con Saviano il democratico filo spinato, la “concertina israeliana” che soffoca la tua gente?
Dovrei persuadere quella parte della sinistra radicale dei vecchi tempi che dice con Toni Negri di aver imparato armonia collettiva e comunismo nei kibbutz costruiti sui cadaveri? Quelli che pensano come Erri De Luca che «la Palestina è sempre stata occupata» da tanti invasori e per questo dovrebbe sparire di fronte all’ «evidenza dello Stato» confessionale ebraico?
Dovrei affidare le mie parole a Fratoianni? Ai suoi sodali? Commessi viaggiatori della truffa parlamentare, pronti a indignarsi per quanto ti sta accadendo e altrettanto a piazzare la mercanzia elettorale alleandosi con chi sventola bandierine biancazzurre e stelle di David?
Dovrei mescolare il mio amore per chi non ha diritto a niente con le lacrime rituali dei professionisti dell’umanitarismo? Che, senza accorgersene e con la coscienza in pace, vi vogliono perpetuamente vittime? Che sono più spaventati dalla necessaria risposta violenta dell’oppresso che dal genocidio dell’oppressore?
Per pagine e pagine, potrei porre domande ovvie sul sionismo delle élite italiane e sugli inganni della loro logica coloniale. Conosci l’argomento nella tua fibra da prima di me e molto meglio di me. Ma tanti che s’imbatteranno nella mia lettera pubblica no. Dai palestinesi tento d’imparare almeno due cose: non dare per scontato nulla quando si avversa il sopruso sionista in ogni forma e declinazione; e innalzare al cielo un malinconico, ironico sorriso di confidenza con la lotta, perché la rabbia per la sorte dei compagni non accechi.
Con negli occhi la tua immagine di felicità per l’arrivo nella lunga luce del luglio di Betlemme, ti leggo un passo da Ritorno ad Haifa di Ghassan Kanafani, scrittore, poeta che è elemento essenziale della tua vita: “hanno aperto le frontiere subito dopo l’occupazione. È una cosa che non è mai successa in nessuna altra guerra della storia. Perché fare una cosa simile, dopo la tragedia dell’aprile del 1948, e quello che è successo ancora adesso? Perché? Per la tua bella faccia, o per la mia? No! Fa parte della guerra. Ci hanno detto: «Prego, osservate. quanto siamo migliori di voi, e più evoluti. Dovete accettare di essere i nostri servi, i nostri ammiratori…»”.
Rispetto a queste righe diamantine pubblicate nel 1969, la strategia dell’occupante oggi è mutata. Il tuo sequestro è un monito verso i figli degli esuli. Curando le vostre radici, nutrendole, riuscendo nel miracolo di farle estendere, avete incrinato il cemento di morte che ha gettato sulla terra usurpata. L’occupante ha terrore di sguardi lucidi che raccontino l’irriducibilità dei palestinesi, non cerca più un impossibile sottomissione bensì annientamento definitivo. Quando ha ucciso o scacciato i vostri avi, i vostri padri, non prevedeva di ritrovarvi tra i piedi, credeva che l’Occidente vi avrebbe fagocitato culturalmente e disperso per sempre.
L’infame, inaccettabile punizione che t’infliggono può essere dunque un’opportunità. Come ogni occasione che intimorisce il nemico. Continuino le nuove generazioni, nate su queste sponde del Mediterraneo, a scavare un cunicolo che da qui sbuchi per incanto nella terra palestinese. Un passaggio schiuso, con vanghe provviste del forte manico della memoria e della lama di verità, nell’orizzonte che è proibito persino guardare e respirare.
Non ti consolerà dall’inferno che attraversi con i tuoi cugini, con coloro che ti amano, ma sei un modello di vita messo in pratica, Khaled. Mai come ora c’è bisogno di giovani uomini come te.
E noi che vogliamo starti accanto cosa dobbiamo comprendere?
Combattere per i palestinesi è combattere per noi che abitiamo altri lati del Mediterraneo.
Il sionismo è qui, in tutta la sua ferocia e capacità mistificatoria. E qui va attaccato nelle sue espressioni e dogmi. Avvelena anche le nostre esistenze, la nostra cultura, il nostro modo di pensare, agire. È il figlio che ha superato il senescente padre europeo e che il senescente padre europeo non solo mitizza e ringrazia, ma prende a riferimento. La legge Turco-Napolitano sulla detenzione amministrativa dei migranti è uno degli innumerevoli esempi di questa simbiosi ideologica, da qualche decennio esplicitamente dichiarata.
È sufficiente definirsi “europei” per legittimare il biologismo. Ovvero l’identità fittizia, coloniale, suprematista che ha generato tanto il nazifascismo quanto il sionismo e il neofascismo odierno. Si espande con essi in un legame indissolubile nella sua forma apparentemente inviolabile: l’Eleftheros Kosmos, il mondo del capitalismo dell’agonia avanzata, la prigione di follia distruttiva occidentale accanto alla prigione di dolore a cielo aperto della Palestina occupata.
Nemmeno oggi, Khaled, uscirai dalla fossa per vivi dove non è concesso sapere quali accuse abbiano inventato per te.
Quando succederà – compagni e amici stanno andando oltre l’irrealizzabile perché succeda – sentiremo i tuoi passi liberi e un anello della catena che strazia ciascuno di noi sarà spezzata.
*Filippo Kalomenìdis, scrittore, docente di scrittura e militante politico. Ha pubblicato La direzione è storta – Reportage lirico sul Covid 19 e i virus del potere (Homo scrivens editore, 2021), e con il Collettivo Eutopia Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno – Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (DEA edizioni, 2022). È stato sceneggiatore per il cinema e la televisione.
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