Non c’è democrazia senza conflitto. Di più, sono i conflitti che assicurano alla democrazia vitalità e legame con la materialità della storia. Questa prospettiva è recepita nella declinazione dei diritti e delle libertà costituzionali. Ma oggi viviamo una deriva autoritaria e la Costituzione è accantonata come anacronistica. Bisogna ribaltare la prospettiva e tornare al conflitto e alla Costituzione.
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Ultimo è il licenziamento a Parma di 31 operai della logistica, ma è solo uno dei tanti nodi del filo nero della repressione del dissenso, che spazia dalle abnormi misure cautelari e di prevenzione applicate ad attivisti per l’ambiente e a studenti (sul modello di quanto sperimentato con il movimento No Tav) alle ingenti multe per affissioni abusive comminate a diversi movimenti e si inserisce in un contesto di “riforme” (dalla “Buona scuola” alla riforma Gelmini) tese a neutralizzare in radice lo spirito critico e di leggi che deprimono la rappresentanza (la legge elettorale per tutte). Eppure un fatto è certo: non c’è democrazia senza conflitto. Il riconoscimento dei conflitti che attraversano la società è precondizione e allo stesso tempo cardine di una democrazia, come quella disegnata nella nostra Costituzione, pluralista, conflittuale e sociale. Sono i conflitti che assicurano alla democrazia la sua vitalità, il suo legame con la materialità della storia, ricordando come «“il faticoso meccanismo delle istituzioni democratiche” possiede un potente correttivo, appunto nel vivente movimento delle masse, nella loro pressione ininterrotta» (Rosa Luxemburg).
Il carattere pluralista e conflittuale della democrazia induce non solo a “tollerare” il dissenso, bensì a valorizzarlo. La Costituzione ragiona di «effettiva partecipazione» (art. 3, comma 2), come fine e insieme strumento, ovvero non di accettazione passiva o di acquiescente indifferenza, ma di una compartecipazione attiva e consapevole, che nasce da un’informazione e una discussione plurale, nella quale è imprescindibile il pensiero critico, il dibattito delle differenti opinioni anche «quando urtano o inquietano» (Corte europea dei diritti dell’uomo). E la Costituzione riconosce gli strumenti che presidiano l’espressione del dissenso, nel circuito politico-rappresentativo (partiti e organi rappresentativi) così come nella società dal basso: il diritto di istruzione, come fondamento della capacità critica; la libertà di manifestazione del pensiero; la libertà di associazione; il diritto di riunione e lo sciopero come strumenti di espressione diretta del conflitto. Ma è coerente con la partecipazione effettiva e la valorizzazione del dissenso anche l’orizzonte della disobbedienza civile, che esprime una partecipazione dissenziente, e si avvicina a quel diritto di resistenza, non inserito in Costituzione, ma oggetto di ampia discussione in Assemblea costituente.
Oggi, tuttavia, viviamo una deriva autoritaria, una rivoluzione passiva contrassegnata da un neoliberismo che stringe legami sempre più stretti con l’autoritarismo (il modello Bolsonaro, che non è solo in Brasile…) e la Costituzione è accantonata come anacronistica. Non è un caso: la Costituzione racconta un’altra visione del mondo, un progetto di trasformazione nel segno dell’emancipazione; esprime anch’essa, nel contesto dell’egemonia neoliberista, dissenso e, come il dissenso, è neutralizzata (non a caso un Report del 2013 della J. P. Morgan criticava le Costituzioni del Sud Europa, perché troppo morbide con il diritto di protesta, troppo garantiste nel riconoscere i diritti dei lavoratori, dotate di esecutivi troppo deboli). La lotta – come ricordava Gallino – «condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere» non tollera dissenso, non ammette alternativa, è il TINA (There Is No Alternative) thatcheriano. La diffusione del nazionalismo, con la sua identità artificiale e conservatrice della triade “Dio, Patria e famiglia” è utile in tal senso a compattare e a distrarre dal conflitto sociale: omologa, in una logica non di conflitto e pluralismo, ma di amico-nemico; rappresenta l’altra faccia della repressione.
Vediamo alcuni nodi del filo nero della criminalizzazione del dissenso:
1) il ricorso alla categoria dell’emergenza e normalizzazione dell’emergenza. Sono tanti i contesti che possono citarsi come esempio: la legislazione antiterrorismo post 2001; la gestione dell’immigrazione; l’emergenza sanitaria con il suo lascito di ampio ricorso ai Dpcm;
2) la sicurezza come “ordine pubblico” contrapposta alla sicurezza dei diritti, come termine nel cui nome restringere i diritti; lontana dall’idea di sicurezza sociale;
3) la restrizione tout court dello spazio dei diritti. Il riferimento è in specie al diritto che in modo particolare veicola dissenso: il diritto di riunione. Pensiamo alla direttiva Lamorgese del 10 novembre 2021, che segue la direttiva Maroni del 2009, che limita, nelle modalità e nei percorsi, le manifestazioni, violando l’art. 17 Costituzione; e al ricorso, in tal senso, a strumenti come le ordinanze dei sindaci (art. 54 TUEL) e le ordinanze prefettizie (art. 2 TULPS);
4) la creazione di zone a divieto di accesso, sottratte alla protesta: zone rosse, aree di interesse strategico nazionale (per tutte, il caso dell’area del cantiere interdetta in Val Susa);
5) l’utilizzo dello strumento penale come diritto penale del nemico. Qui l’elenco è lungo: a) si incide sulla legislazione: introduzione o reviviscenza di nuove fattispecie di reato (la punizione dei rave, il reato di blocco stradale) e aggravamento delle pene (il reato di occupazioni di terreni ed edifici); b) si ricorre in maniera distorta a (ovvero si abusa di) strumenti come le misure di prevenzione e le misure cautelari (sorveglianza speciale, obbligo di dimora, foglio di via); c) si utilizzano qualificazioni giuridiche inappropriate, ovvero sovradimensionate (terrorismo, strage contro la sicurezza dello Stato, ma pensiamo anche alla dilatazione della resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale); d) si devia dal fatto, dalla condotta, verso il tipo d’autore;
6) l’utilizzo in chiave repressiva anche del diritto civile o amministrativo: risarcimenti danni, multe, DASPO urbano;
7) il ricorso, nei rapporti di lavoro, a licenziamenti e sanzioni disciplinari per punire chi agisce il conflitto sul lavoro, rivendica diritti, sciopera (per tutti, il caso dei lavoratori della logistica a Piacenza);
8) il ricorso, in senso ampio, alla figura del nemico e alla logica dicotomica amico-nemico. Pensiamo al linguaggio bellico della pandemia e alla criminalizzazione dei no vax e, soprattutto, all’impossibilità di contestualizzare la guerra in Ucraina e di criticare l’invio delle armi senza passare come “putiniani” e nemici. Possiamo ragionare in proposito di militarizzazione della democrazia;
9) la criminalizzazione della solidarietà: la solidarietà da principio costituzionale diviene azione da perseguire con strumenti penali e amministrativi. Il riferimento è, in primo luogo, al codice di condotta di Minniti per (contro) le ONG che salvano vite in mare (2017), al decreto Salvini-bis (decreto legge n. 53 del 2019), al recente decreto Piantedosi (decreto legge n. 1 del 2023);
10) la disumanizzazione e la criminalizzazione di alcune categorie di persone, le «vite di scarto» (Bauman): migranti, poveri, carcerati… La storia della criminalizzazione dei migranti è emblematica: si inizia con il “clandestino” e si finisce con considerare il richiedente asilo alla stregua del truffatore che cerca un escamotage per entrare nel territorio dello Stato. È la colpevolizzazione della povertà, la messa in atto di necropolitiche, che altro non sono – per usare un vecchio termine – che politiche di classe, con il fine di “colpire” determinate classi e scaricare la responsabilità delle diseguaglianze.
Si reprime in tutti questi casi chi agisce un conflitto, con azioni politiche, con la solidarietà, con il suo esistere (migranti, poveri…). Si intende negare l’esistenza del conflitto: chi vive le diseguaglianze non è un oppresso, un subalterno, ma un imprenditore di se stesso che ha fallito in un sistema intoccabile. E poi c’è la repressione preventiva del dissenso, del conflitto: che passa attraverso le controriforme di scuola e università che ne depotenziano, se non distruggono, le potenzialità di luoghi di creazione e discussione di sapere critico, di capacità critica; come era scritto in un documento della Pantera, asservire la ricerca «equivale a sostenere l’impossibilità di criticare il presente». Per tacere del dissenso che non si può esprimere a livello di rappresentanza grazie a leggi elettorali escludenti. Tutto questo in contrasto con la Costituzione che riconosce il conflitto, valorizza la partecipazione, persegue l’emancipazione, garantisce i diritti, sancisce come principio la solidarietà.
Come reagire? Non c’è altra soluzione che continuare ad agire il conflitto, a esercitare pensiero critico, a disobbedire all’egemonia neoliberista. Come scriveva Erich Fromm: «Nell’attuale fase storica, la capacità di dubitare, di criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro per l’umanità e la fine della civiltà». È attraverso il dissenso e la disobbedienza che passa la critica dell’esistente, che si può trasformare lo stato di cose presente, ovvero che può vivere la possibilità di un altro futuro, ovvero, a fronte della devastazione ambientale e della guerra, di un futuro. Torniamo alla Costituzione. Parlare della Costituzione oggi è fonte di disagio, ma anche di una consapevole speranza: il disagio è quello di parlare di un diritto inattuato, quasi di un sogno più che di una norma giuridica, di sentirsi illusi o anacronistici; la consapevole speranza deriva, invece, dal fatto che la Costituzione esprime un’utopia concreta, principi profondamente radicati nella storia: la Costituzione – ricordiamolo – è nata dalla Resistenza, da una lotta, da un conflitto. Radicamento nella storia significa anche appartenenza alla dialettica della storia, con i suoi corsi e ricorsi: la Costituzione può essere argine contro la barbarie e insieme terreno su cui costruire. Sta a noi. La Costituzione – parafrasando Che Guevara – può essere la nostra casa ambulante, fondata su emancipazione, liberazione, uguaglianza, solidarietà, conflitto, dissenso, se noi, nelle proteste per l’ambiente, nelle lotte per la casa, nei luoghi di lavoro e di studio, siamo le gambe che la fanno camminare. E per farla camminare, oggi, è necessario andare in direzione ostinata e contraria, possibilmente in tanti e uniti.
Intervento svolto nell’assemblea “Libertà è stare zitti/e?”, organizzato a Torino, il 3 febbraio da Comitato per l’acqua pubblica Torino, Acmos, Anpi Grugliasco, Attac Torino, Csoa Askatasuna, CUB, Extinction Rebellion, Fridays for Future, Incursioni Saporite, Mamme in piazza per la libertà di dissenso, NoTav, Si Cobas Torino, Ultima generazione.
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