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Libia, dal business del traffico a quello della detenzione.

Le politiche del Ministro Minniti e di tutto il governo italiano hanno rapidamente trasformato il mercato del traffico di esseri umani. In un Paese come la Libia dove non esiste alcuna forma di stato di diritto e le persone vengono detenute, vendute o uccise come nulla fosse.

In Libia i miliziani sono passati «dal business del traffico al business della detenzione», hanno capito che l’Italia e l’Europa li paga per arrestare i migranti. Così Nancy Porsia, free lance e profonda conoscitrice di Nord Africa e Medio Oriente, descrive la situazione in Libia. In questi giorni, il Paese che si affaccia sull’altra sponda del Mediterraneo è tornato sulle prime pagine dei giornali italiani mostrando gli effetti perversi degli accordi stipulati da Minniti con i vari gruppi armati che controllano il territorio. Ieri poi, sono state diffuse le immagini di un vero e proprio mercato degli schiavi, dove uomini e donne vengono venduti e acquistati. Commentando i video dello scontro in mare tra Ong e Guardia costiera libica che ha causato decine di morti in mare, la reporter non ha paura di definire «scandaloso» il permesso riconosciuto ai mezzi libici di pattugliare il mare fino a 30 miglia di distanza dalla costa, ben al di fuori delle acque nazionali. La sua testimonianza è molto utile per mettere nel posto giusto i pezzi del complesso puzzle libico, dove gli attori in gioco sono molteplici e le loro alleanze e interessi estremamente variabili.

Ieri sono successi due fatti importanti prima il responsabile dell’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ha definito «disumani gli accordi tra Italia, Europa e Libia», poi la CNN ha mostrato il video dei migranti venduti dai trafficanti. Cosa sta succedendo?

Le Nazioni Unite sono a conoscenza di chi gestisce le carceri, ci sono due gruppi: uno formato dagli ufficiali storici che risalgono ai tempi di Gheddafi; l’altro dai miliziani che recentemente sono passati dal business del traffico a quello della detenzione. Come noi in Italia abbiamo il business dell’accoglienza, in Libia avevano quello del traffico. Oggi, hanno capito che l’Italia e l’Europa pagano per incarcerare i migranti e che, al tempo stesso, continuare con le attività di traffico è diventato troppo pericoloso. L’Italia e l’Europa avevano bisogno di un governo fantoccio come quello di Serraj per poter far partire il piano di un potenziale contrasto dei trafficanti.

Secondo te quale messaggio ha voluto mandare l’Unhcr e perché si è espressa solo ora, dopo che gli accordi sono già stati conclusi da molto tempo?

L’Unhcr dice che l’accordo Europa-Italia-Libia è disumano perché sanno benissimo quali sono le condizioni nelle carceri. Il comunicato del Commissario Al Hussein attacca direttamente il blocco navale creato dalla Guardia Costiera libica nel Mediterraneo con il supporto dell’Italia. È assurdo: non si può creare un blocco navale quando non esistono le condizioni a terra per garantire un minimo di rispetto dei diritti dei migranti. Anche in un’ottica di amministrazione e di rispetto dei confini devi comunque premurarti che le condizioni a terra siano quanto meno accettabili. Il governo italiano sapeva che il blocco navale avrebbe creato nell’immediato un’impennata del numero di persone nelle carceri. È stata una follia. Minniti ha pressato talmente tanto che ha invertito le azioni, i numeri dei migranti sul territorio libico sono saliti e la Libia non è ancora pronta.

Quando parli di blocco navale a cosa ti riferisci?

In seguito agli accordi del “Minniti Compact”, tra il governo italiano e la Guardia Costiera libica, è stato di fatto creato un blocco navale. Per la prima volta questa estate le navi libiche hanno iniziato a operare un pattugliamento serrato,con l’obiettivo di non far passare nessun barcone. Fino a luglio del 2017, la Guardia Costiera libica fermava qualche barcone, ma sempre e solo per una questione di opportunismo politico, ossia quando aveva la necessità di battere cassa con l’Italia e l’Europa. Oppure faceva operazioni di salvataggio. Non dobbiamo dimenticare che quando un pescatore libico chiamava la Guardia Costiera perché un natante era in difficoltà, le autorità marittime si mobilitavano per il salvataggio. Il salto di qualità c’è stato nel pattugliamento che prima non avveniva. Il pattugliamento non veniva fatto anche per mancanza di risorse e di mezzi. Dalla fine della rivoluzione, che ha portato al defenestramento del regime di Gheddafi, quelle poche imbarcazioni che la Guardia Costiera aveva in dotazione sono andate distrutte nei bombardamenti NATO. Tanto è vero che anche le famose quattro imbarcazioni veloci, le cosiddette speed boat, quelle che erano state date da Maroni nel 2008 in ottemperanza al “Patto d’amicizia Italo-Libico” erano state restituite all’Italia per essere riparate. Nel febbraio 2017, quando Serraj è andato in visita a Roma, l’Italia ha riattivato il trattato di amicizia al solo fine di restituire queste imbarcazioni.

Ci sono delle collaborazioni in mare tra navi italiane e libiche nel mar Mediterraneo?

Gli italiani hanno aspettato che ci fosse un governo legittimo o presunto tale, come quello di Serraj, per poter esternalizzare il controllo dei confini su quella frontiera mobile che è il Mediterraneo. La Marina italiana offre supporto logistico, ha inviato una nave da guerra all’interno delle acqua libiche e in caso di necessità interviene per sostenere i mezzi libici. Ad esempio, durante il primo salvataggio, operato un mesetto fa, sono stati gli italiani a fornire i giubbotti salvagente. Si tratta di una sorta di affiancamento, un modo per aggirare il divieto di respingimenti in mare. Negli anni passati, il governo italiano è già stato condanno dalla CEDU (Corte Europea per i Diritti dell’Uomo) per i respingimenti di massa, al fine di evitare possibili ripercussioni da parte della comunità internazionale, le autorità italiane hanno messo la Guardia Costiera libica nelle condizioni di fare i respingimenti. L’Italia ha fornito i mezzi che erano bloccati nei cantieri navali della penisola e l’Europa ha offerto i training alla Guardia Costiera per svolgere questa attività. La criminalizzazione delle Ong è stata un’operazione preventiva, in quanto puntava a eliminare occhi scomodi che potessero essere testimoni di ciò che avveniva.

Nei giorni scorsi sui principali siti di informazione sono stati pubblicati alcuni video che mostravano come molti migranti siano affogati durante uno scontro tra la Ong Sea Watch e la Guardia Costiera libica. Il tutto è avvenuto sotto la supervisione di un elicottero della Marina italiana. Questo è un primo tragico effetto del blocco navale di cui parli.

Quanto è successo il 6 novembre è ancora da capire in tutte le sue parti, i libici hanno abbandonato la zona di soccorso quando c’erano ancora uomini in mare. È scandaloso che ai libici sia permesso il pattugliamento a 30 miglia dalla costa, io credevo che, almeno per decenza, sarebbero rimasti nelle acque libiche, ossia fino alle 24 miglia. Il fatto che il soccorso sia avvenuto nelle 30 miglia vuol dire che gli italiani stanno spingendo questa delega fino alle sue estreme conseguenze. La dinamica dell’incidente è molto complessa, ci sono dei video che mostrano come i libici avessero agganciato il gommone. Da quello che ho visto io, l’operazione si stava compiendo in una dinamica classica. All’arrivo di Sea Watch, i migranti hanno creato il parapiglia a bordo perché avevano capito che dall’altra parte c’era la loro unica possibilità di raggiungere l’Europa. C’è un video in cui si sente chiaramente che i libici dicono via radio al comando europeo di tenere alla larga la Ong altrimenti ci sarebbero stati problemi.

Nei tuoi articolo parli di «industrializzazione» nella gestione dei migranti in Libia, di una struttura mafiosa che in accordo con le milizie libiche controlla i confini e le frontiere. Ci puoi definire questo concetto da un punto di vista pratico?

È chiaro che il vuoto di potere in Libia ha creato terreno fertile per organizzazioni criminali pre-esistenti a livello regionale. In Libia, queste organizzazioni criminali, che si possono considerare di tipo mafioso, sono ancora in via di assestamento. Quindi lo sfruttamento del territorio libico è in mano a mafie già consolidate come quella nigeriana, quella etiope, quella eritrea e quella sudanese. Negli ultimi due anni, abbiamo assistito a un incremento esponenziale del numero di donne nigeriane vittime di tratta. In realtà, i libici hanno un po’ preso lezioni da queste mafie già ben strutturate, che, come sappiamo, sono presenti anche in Europa. Sono organizzazioni che vantano una filiera che va dall’Africa al Nord Europa. Io parlo di industrializzazione, poiché ritengo che la Libia sia diventata un’area privilegiata per chiunque voglia fare business sul traffico.

Un’opportunità sfruttata dalla mafia nigeriana e sudanese che hanno portato quello che era un mercato ancora di dimensioni ridotte a un mercato industriale. A partire dal Sudan e dal Niger, la mafia si era organizzata per offrire vari pacchetti di viaggio da quello più economico a quello più costoso. I libici sono a libro paga di questa mafia. Per come leggo la realtà, i libici lavorano al dettaglio ma i grossisti sono i nigeriani o i sudanesi. Lavorano come se fossero un’agenzia, prima vendono il pacchetto e poi hanno i loro collaboratori lungo tutto il percorso, un controllo del territorio che arriva fino in Germania. In un contesto criminale di questo tipo, i libici hanno iniziato a vederci l’opportunità di guadagno e si sono organizzati per avere la propria fetta di torta. Nell’assenza totale di apparati di governo gli ufficiali, come quelli che ho denunciato pubblicamente, della Guardia Costiera di Zawiya si sono ritrovati sulla linea del fronte e ne hanno approfittato entrando in affari con i trafficanti. La loro zona di mare fino a poco tempo fa era la più battuta. Ora, dopo la famosa guerra di Sabrata, la pressione è diminuita. Zawiya non è più così importante, perché è una zona indefinita e non si parte più da lì.

Antonio Sanguinetti, Daniela Galiè da DinamoPress

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Libia, mercato degli schiavi: ottocento dinari, il prezzo di una vita

Le immagini del mercato degli schiavi in Libia, prodotto dalle politiche di Minniti, si riflettono nello sguardo di una ragazza di origini ghanesi, nata e cresciuta in Italia (e ancora in attesa di cittadinanza). Quanto vale un essere umano?

Credo di essere una bella ragazza.

Attraente, slanciata, culo grosso, tette grosse, 1.77 di altezza, belle labbra carnose e, un’accozzaglia di caratteristiche fisiche che ti creano sempre il pubblico da Zoo intorno.

Sono la classica ragazza africana che la gente comune non si farebbe alcun problema a definire panterona, leonessa, tigre, secondo i dettami del lessico zoologico che si utilizza per definire la “bellezza selvaggia” delle donne nere.

Quanto paghereste per comprarmi?

Quanto spendereste per potermi avere in un qualunque momento della giornata, che io lo voglia o no?

Tu che leggi, che guardi le mie e foto, che mi mandi messaggi privati complimentandomi con me per la mia bellezza, a te chiedo, quanto andresti a prelevare dal bancomat per poter fare del mio corpo quello che vuoi senza che io possa dire una sola parola?

Quanti soldi mettereste sul tavolo per comprarvi una nera come me? Fisicamente resistente, piuttosto istruita, che parla bene l’italiano e se la cava con l’inglese?

Quanto?

Potreste picchiarmi, farmi preparare la cena, mandarmi a prendere i bambini a scuola o tenere in ordine la casa. Potreste violentarmi o chiedermi anche un massaggio ai piedi, o semplicemente un po’ di compagnia. Farei volentieri la badante ai vostri anziani, magari a quelli malati che sono soli e vorrebbero unicamente qualcuno che li accudisse.

Io, se qualcuno mi comprasse, lo farei perché non sarei più una donna ma una cosa per cui è stato stabilito un prezzo. E le cose, quando le compri sono tue. Ci puoi fare quello che vuoi.

Se non vi viene in mente un prezzo, pensate che in Libia anche oggi, una ragazza come me, verrà venduta ad un prezzo che non supererà i mille euro. Tanto costa la vita di un migrante, quando i barconi vengono respinti e si ritorna in Libia, non più come donne e uomini liberi, ma come schiavi.

Pensavo a questo ieri sera, a quanto costerebbe la mia vita e il mio corpo se un domani perdessi sulle coste libiche quel pezzettino di carta che mi hanno rilasciato in posta l’altro giorno e che attesta il mio nome, cognome e luogo di nascita.

Ma sono sicura che, anche se avessi delle carte, qualcuno mi prenderebbe e mi venderebbe, semplicemente. E questo perché i neri in Libia valgono meno della lota che si azzecca a terra alla fine di un concerto.

E non lo dico perché questa mattina mi va di fare la vittima o di far incazzare qualcuno. Lo ha detto la CNN, con un reportage che denuncia la vendita di donne e uomini africani a Tripoli; che i migranti, gli africani in particolare, ogni giorno vengono venduti sulle coste Libiche, in una vera e propria asta di uomini a cielo aperto.

Mentre guardavo il video, si riuscivano a distinguere le voci dei venditori, voci ferme di uomini d’affari che ti rassicuravano sulla qualità e la resistenza del corpo nero.

Può lavorare, guarda come è forte, non si stanca, ha braccia forti, è resistente…

Immaginavo me stessa in quell’asta. Cercavo di cacciare dalla testa quel pensiero ma era difficile guardarmi allo specchio senza riconoscermi in quegli uomini.

Cosa avrebbero detto di me per convincere qualcuno a comprarmi? Che cosa dicono Delle migliaia di ragazze giovanissime, delle bambine che ogni giorno, dopo essere state respinte in mare dalla nuova Italia di Minniti, spariscono tra i cunicoli le sabbie libiche?

Che se verranno stuprate non piangeranno perché sono abituate già alle carceri libiche, a uomini che ti stuprano per tutto il giorno finché non muori o ti ammazzi da sola?

Ho la nausea per quello che scrivo perché so che è vero, ed è difficile da digerire persino per me.

Dovevo immaginarmi nei loro panni per fissare meglio nella mente l’odio che provo per ciò che l’Italia sta facendo ai migranti, ma per me è facile perché come ho detto, quando mi guardo allo specchio mi chiedo se somiglio davvero a tutte quelle persone, a tutti quegli africani e quelle africane non raggiungeranno mai l’Italia, che verranno venduti e che spariranno nel circuito della tratta. E voi, bianchi, italiani, quando vi guardate allo specchio cosa vedete riflesso davanti a voi?

Il volto di Minniti che si complimenta con se stesso per una politica dell’immigrazione che provoca assassini e stupri su larga scala? Osservate la pelle pallida e le mani, pensando che siano sporche di sangue quanto quello del Ministero degli Interni?

Che cosa vedete? Che cosa provate?

Io credo che le corrispondenze cromatiche non bastino a spiegare come stanno veramente le cose in Italia e, cosa pensino gli italiani di tutta questa faccenda e del modo in cui stiamo creando l’ennesima pagina di Storia popolata di mostri ed incubi che attingono ad un passato fascista, schiavista, neocoloniale, criminale.

Minniti non rappresenta l’Italia, perché io la conosco bene ed è stato in questo Paese che ho imparato cosa significhi essere solidali, rinunciando a riconoscersi solo attraverso quei privilegi di razza e classe che ti consentirebbero verosimilmente di comprare una persona come me.

Minniti con le sue politiche è riuscito a trasformare la lotta al traffico dei migranti in un traffico peggiore: quello degli schiavi.

I Barconi carichi di persone, dal momento esatto in cui vengono respinti diventano Navi Negriere, come quelle disegnate con inchiostro di china che abbiamo imparato a conoscere e dimenticare in quelle due misere pagine di Storia dedicate alla tratta degli schiavi africani.

Nessuno è al sicuro dai rigurgiti della Storia, non lo sono io e probabilmente non lo sarete nemmeno voi.
Ma di una cosa sono certa: 800 dinari libici è il prezzo che l’Europa e che, questa Italia del PD ha dato alla vita dei migranti.

Andate a convertirli in euro e conoscerete il prezzo della vita di migliaia di persone, il prezzo della mia stessa vita se dovessero espellermi in Ghana e decidessi di fare ritorno in Italia passando dalla Libia come migliaia di miei connazionali.

Ottocento dinari, il prezzo di una vita.

Il racconto è tratto dal profilo facebook di Djarah Akan