L’obiettivo è colpire le lotte sociali e sindacali e disciplinare categorie di persone considerate pericolose o sgradite: dai lavoratori sfruttati della logistica a chi reagisce all’emergenza abitativa
di Italo Di Sabato
Il disegno di legge “sicurezza” a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto è l’ultima tappa di un lungo percorso politico, che ha avuto inizio una ventina di anni fa con la nascita delle politiche di sicurezza urbana ma che affonda le sue radici in visioni e rappresentazioni della società elaborate in fasi storiche precedenti, e in particolare nell’Italia liberale e nel periodo fascista.
Si tratta, in sintesi, di un progetto di controllo sociale che prevede l’impiego di specifici strumenti per disciplinare categorie di persone considerate pericolose o sgradite. Uno spartiacque nel rapporto tra conflitto sociale e governi di questo Paese. Un ulteriore provvedimento emergenzialistico, che altro non è se non una risposta del neoliberismo in salsa italiana, rappresentato dalle ventate di populismo che devono molto del proprio successo alla paura e alla percezione di insicurezza. Tuttavia in questo caso la strategia è più fine: non punta solamente ad un tornaconto elettorale facendo “ammalare di terrore” e pompando odio sociale, ma individua e colpisce precisi soggetti. Ovvero tutti coloro che per l’uno o per l’altro motivo rappresentano presenze disarmoniche e incompatibili con lo spazio sociale. Ma a ben vedere, dietro non vi è solo una questione estetica, moralizzante e paternalistica puntata sulla sicurezza e sul decoro. Vi è piuttosto una strategia ben precisa di attacco repressivo contro tutta una grande fascia di composizione sociale a cui non possono essere garantiti diritti, reddito e assistenza.
Una volta individuate le classi laboriose a cui possono essere elargite elemosine (sia sul piano dei diritti che del reddito) senza inceppare la “legge del valore”, per tutti gli altri, la “feccia”, non c’è più posto: per questo bisogna attivare dei violenti meccanismi di espulsione e neutralizzazione.
Sulla scia di questa cultura forcaiola il governo vuole mandare anche un messaggio chiaro alle forze dell’ordine, incoraggiandole ad adottare un approccio repressivo nei confronti di categorie già vulnerabili, ora anche indesiderabili.
Il disegno di legge 1660, approvato il 18 settembre alla Camera dei deputati e (al momento in cui scriviamo) in discussione al Senato, pur collocandosi nel solco del panpenalismo repressivo che connota da molti anni e trasversalmente la risposta delle istituzioni alla protesta, al dissenso e al disagio, costituisce un deciso arretramento giuridico e culturale, in senso antidemocratico, nel rapporto tra le istituzioni, e i loro apparati repressivi in particolare, e i cittadini. Infatti, oltre a costituire un notevole “salto in avanti” nella stretta repressiva e nella costruzione di quello che potremmo definire un vero e proprio “diritto penale del nemico”, aspira a ridisegnare alcuni istituti mutandone profondamente la natura e ponendoli al di fuori del quadro costituzionale.
È un disegno di legge caratterizzato dalla volontà evidente di reprimere qualsiasi forma di lotta e di conflitto sociale, andando a colpire i vari movimenti e le lotte sociali in maniera specifica e dettagliata. Si intendono reprimere e punire gli eco-ambientalisti, i lavoratori della logistica, gli attivisti del movimento per il diritto all’abitare, chi si oppone alle grandi opere, i detenuti che protestano nelle carceri, e gli immigrati nei centri di detenzione. Si tratta di un decreto repressivo concepito in modo organico, che costituisce quindi un salto di qualità dell’azione repressiva dello Stato.
È il diritto penale come catarsi elettorale che si manifesta attraverso un continuo rilancio di inasprimenti delle pene, introduzione di nuove figure di reato, riduzione dei benefici processuali e penitenziari, promessa di un sistema repressivo più efficace, che genera politiche sicuritarie e induce nell’opinione pubblica la convinzione che lo Stato di diritto sia incompatibile con la sicurezza.
Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del livello di criminalità, la percezione di insicurezza e paura – alimentate da politica e media – genera consenso verso chi si propone come giustiziere. Ma non è la morte della politica, bensì la proliferazione della politica populista: è una giustizia emotiva amministrata per soddisfare gli umori del popolo. Negli ultimi decenni, governi di centrodestra e di centrosinistra hanno utilizzato la sicurezza come generatore di consenso, arrendendosi all’incapacità di filtrare le pulsioni securitarie dell’elettorato.
L’effetto di queste politiche, nel lungo periodo, è stato quello di far diventare concetti come “legalità”, “tolleranza zero”, “decoro” delle parole d’ordine che sono diventate le fondamenta di un vasto movimento reazionario di massa, ideologizzando che l’unico modello di sicurezza accettabile sia quello penale e repressivo. Una cultura legalitaria come affermazione dell’unica ideologia permessa, quella del mercato, dove la politica è presentata come gestione dell’esistente. Più si è fortificata l’ideologia legalitaria e più è cresciuto il rancore individuale, l’altro percepito come concorrente, che è sempre l’altro un gradino al di sotto di noi. È la sopraffazione del consenso sulla critica, in particolare la critica del potere.
Imporre la legalità come valore in sé significa negare il conflitto, le lotte sociali e politiche. Qualsiasi conquista è sempre avvenuta su una rottura della legalità. Il giustizialismo crescente della politica e il trionfo del populismo penale hanno contribuito al declino ulteriore dei modelli di Stato sociale in favore del ritorno dello Stato etico e penale. L’educazione alla legalità non è stato altro che sottrazione di legittimità e propaganda di conformità. Da anni nel nostro Paese la legalità è stata trasformata nell’occasione di produrre l’accettazione acritica della legge, e l’illegittimità del dissenso e della contestazione. E infatti, gradualmente, il concetto di legalità ha finito col produrre la stigmatizzazione del “conflitto”, fino alla completa criminalizzazione. A scuola, in piazza e in ogni luogo, ci si riempie la bocca della “cultura della legalità”, al fine di formare quei famosi cittadini di domani rigorosamente apolitici e straordinariamente obbedienti. In poche parole conformi alla legge, trasformando la politica nel cimitero della giustizia sociale.
L’esaltazione delle qualità salvifiche del potere giudiziario ha fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri. È il filo nero che attraversa il ddl sicurezza: la negazione del conflitto che si situa nello spazio della guerra contro le lotte sociali, il dissenso, i poveri, i migranti, i marginali, i “dannati della terra”.
L’orizzonte della trasformazione è sostituito dalla repressione; l’immaginazione e la pratica del cambiamento soffocati a colpi di reati; la democrazia diviene una mera parvenza che copre una gestione autoritaria e blinda un modello economico-sociale strutturalmente diseguale. Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia legalitaria, giudiziaria e penale, non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate. Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio panpenalista.
articolo pubblicato sul numero 11/2024 della rivista Left
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