di Sylvain Bourmeau da Aoc media  (traduzione e commenti di Salvatore Turi Palidda)

Se per caso la RN dovesse andare al potere al termine delle elezioni legislative o durante le prossime presidenziali – questo secondo caso si rivelerebbe più probabile del primo – la responsabilità del giornalismo politico sarebbe seriamente coinvolta. Non che i giornalisti, nel complesso, vogliano la vittoria dell’estrema destra, la netta maggioranza di loro vota più per la sinistra. Non sono le loro convinzioni o le loro opinioni politiche che devono essere prese in considerazione, ma piuttosto il loro modo di svolgere il proprio lavoro: la loro pratica professionale ha permesso, per diversi decenni, di promuovere e mantenere l’ascesa al potere del Fronte Nazionale e poi del RN. È indubbiamente opportuno parlare più precisamente d’ideologia professionale, nel senso dato dalla sociologia della scuola di Chicago, da quella di Everett C. Hughes o di Anselm Strauss [NT: approccio alquanto sconosciuto in Italia]. È impossibile definire qui nei dettagli tutti i contorni dell’ideologia professionale dominante del giornalismo politico – che per molti versi condensa e caricatura l’ideologia professionale del giornalismo in generale. Concentriamoci semplicemente su alcuni tratti salienti, prendendo come esempio nelle ultime notizie non solo il trattamento mediatico riservato all’estrema destra – di cui è già stato ampiamente dimostrato quanto abbia partecipato alla coproduzione della strategia di “normalizzazione” creato da Marine Le Pen – ma anche quello del suo attuale principale avversario, il Nuovo Fronte Popolare, nonché quello del blocco macronista che, per due volte, è salito al potere cercando di sostituire la tradizionale divisione destra/sinistra con una “io e il resto del mondo contro la RN” che avrà avuto l’effetto meccanico di rafforzare il partito di estrema destra [NT: in entrambe le sue elezioni a presidente Macron ha vinto solo perché al ballottaggio è stato votato dall’elettorato di sinistra e dagli ecologisti per non far vincere Le Pen].

Molti di noi si saranno sicuramente interrogati, in questi giorni, sulle ragioni che spingono molti media a offrire un trattamento mediatico di questa nuova unione della sinistra che ci appare parziale, un trattamento che, allo stesso tempo, ci dà la sensazione di servire oggettivamente il suo principale avversario [NT: vedi infra anche Le Monde e Libération hanno di fatto sposato la causa di Macron attaccando destra e sinistra, per esempio un editoriale de Le Monde ha come titolo: L’antisémitisme de droite ou de gauche, un même poison /l’antsemitismo di destra o di sinistra lo stesso veleno, continuando ad usare l’infondata accusa di antisemitismo a Mélenchon]. E questo ci sembra tanto più irresponsabile in quanto non si tratta di un avversario qualunque, ma di un partito di estrema destra, il cui programma prevede una misura illegale, la “preferenza nazionale”, per la quale il pubblico ministero del tribunale di Nanterre ha appena condannato i dirigenti RN a sei mesi di carcere con sospensione della pena. Un partito i cui leader sono ancora (e per fortuna) esclusi dalle interviste sulle principali testate della stampa, come Le Monde o Libération.

Attribuire tutti questi biais (distorsioni) alla personalità e all’agenda politica dei loro attori o alla presunta malafede dei loro principali presentatori militanti significa non sapere nulla del funzionamento dei media. Bolloré e i suoi scagnozzi rappresentano un problema serio, sono lungi dall’essere l’intero problema e senza dubbio non sono la parte principale del problema [Balloré è diventato il nuovo boss dei media in Francia]. Come capire che, senza rendersene conto per un momento, i giornalisti che detestano l’estrema destra hanno contribuito quotidianamente con la loro pratica professionale a farla prosperare dall’inizio degli anni ’80? Come possiamo capirlo dopo l’incontro pubblico organizzato a Montreuil la scorsa settimana da attrici e attori della società civile, e alla quale hanno partecipato tutte le forze che costituivano il Nuovo Fronte Popolare, dimostrando un’unità elettorale senza precedenti da decenni? Quanti sono state le testate che hanno preferito dare spazio ai dissensi a sinistra? [NT: da anni c’è una continua demonizzazione di Mélenchon che certo è in parte apparso come una sorta di “padre-padrone” del suo partito, La France insoumise, ma non ha nulla a che fare col mostro ambiguo che spesso dipinto nella maggioranza dei media]. Non si può certo immaginare che Xavier Niel chiami il direttore editoriale di un giornale di cui è azionista.

Se vogliamo darci i mezzi per comprendere ciò che appare così strano a molti lettori, è questa famosa ideologia professionale dominante e i suoi biais (distorsioni) che devono essere aggiornati. E questo in una prospettiva sempre risolutamente di miglioramento perché non si tratta in alcun modo di indebolire il giornalismo, ma piuttosto di rafforzarlo con l’apporto di una dimensione critica e riflessiva delle scienze umane e sociali.

 Primo biais (distorsione): la tirannia dei “piccoli nuovi fatti poco veri”

Basta aprire un giornale qualsiasi o, meglio, scrollare sino a stordirsi sul suo fil X per capire di cosa si tratta. Riprendiamo, tra le mille altre possibilità della scorsa settimana, l’esempio dell’incontro di Montreuil. Sia Le Monde che Libération, come molti altri giornali, hanno inviato giornalisti sul posto. I loro articoli danno un resoconto molto congruente di ciò che accadde quella sera nella piazza del municipio. Eppure i loro titoli sono in netto contrasto.

Libération: “Nous avons retrouvé l’envie d’avoir envie”: le Nouveau Front Populaire lance sa campagne”; Le Monde: “Un meeting du Nouveau Front Populaire à Montreuil parasité par les divisions de La France Insoumise” .

(Libération: “‘Abbiamo riscoperto il desiderio di volere’: il Nuovo Fronte Popolare lancia la sua campagna”; Le Monde: “Una riunione del Nuovo Fronte Popolare a Montreuil parassitata dalle divisioni di La France Insoumise”.)

 Come comprendere queste scelte di titoli così diverse, anche se gli articoli riportano sostanzialmente allo stesso modo ciò che è accaduto? La spiegazione, tanto semplicistica quanto pigra e, a mio avviso, falsa, consisterebbe nell’affermare che Le Monde è un giornale più a destra di Libération, e quindi ostile al Nuovo Fronte Popolare [NT: va invece detto che Le Monde resta quasi sempre il principale organo che vuole essere più istituzionale di tutti persino delle più alte cariche dello Stato e di fatto sostiene più Macron che il NFP -Nuovo Fronte Popolare].

Mi sembra che dovremmo cercare la risposta nell’ideologia professionale piuttosto che nell’ideologia stessa. Laddove Libération ha voluto evidenziare la grande novità, il fatto che per la prima volta dopo molto tempo la sinistra lancia la sua campagna unitaria e che ciò suscita ottimismo nelle sue fila (questo è il senso del titolo dell’articolo), Le Monde ha preferito segnalare una notizia secondaria ma più recente, partendo dal presupposto che la notizia del Fronte delle sinistre fosse già nota, il giornale della sera (Le Monde esce sempre il pomeriggio) ha evidenziato un piccolo fatto vero: l’ingerenza, seppur molto marginale, in questo incontro da parte di alcuni attivisti della LFI vicini a Jean-Luc Mélenchon e molto in minoranza quella sera a Montreuil.

Il giornalismo, per definizione, privilegia il nuovo, ciò che noi chiamiamo appunto notizia, quella che il grande sociologo americano, Robert E. Park, che fu prima giornalista, chiamò “il crepitio delle notizie”, la schiuma in superficie che troppo spesso maschera le correnti di fondo che attraversano la società, che proponeva di riferire al concetto di Big News. E fu proprio per affrontare questa Big News che Park concepì alla fine del XIX secolo – insieme a un altro discepolo del filosofo John Dewey – l’idea di una rivista scritta da filosofi, psicologi e ricercatori di scienze sociali, Thought News. Questo progetto, che poi non ha visto la luce, è rimasto non solo un sogno per Park ma per molti: è il modello e il prototipo del giornale che state leggendo, AOC.

Ciò che Park rivela nel forgiare il concetto di Big News è la tendenza alla novità del giornalismo, la tirannia di nuovi piccoli fatti veri. Non che dovremmo preferire le vecchie grandi fake news! Ma dando sistematicamente troppa priorità alla novità, distruggiamo la gerarchia dell’informazione. Questa tendenza inerente alla pratica stessa del giornalismo si è fortemente accentuata non solo a causa della trasformazione digitale e dei social network ma di fatto a partire dall’invenzione dell’informazione continua: già a metà degli anni ’80 France Info arrivò a proporre ogni sette minuti modi diversi ciascuno tempo (nel tentativo di non stancare gli ascoltatori) di organizzare le notizie, dando sempre il primo posto alle ultime notizie (breaking news), per quanto microscopiche possano essere (per esempio, il pareggio in una partita di calcio). Per dire e ridire che ciò che conta sono le “piccoli fatti veri”, un mantra ormai brandito come magico antidoto alle fake news, è a dir poco ingenuo e rivela la povertà dell’epistemologia del giornalismo.

Cosa sono questi “piccoli fatti veri” se non contestualizzati, articolati e soprattutto gerarchici? Lo schermo opaco della nuvola di fumo prodotta dal crepitio delle notizie e che copre la grande notizia, la vera informazione. La grande accelerazione di questo relativismo generalizzato produce e mantiene la confusione, che va sempre a vantaggio dell’estrema destra.

Secondo biais (distorsione): l’ossessione per la devianza

A parte la novità, c’è un altro modo per spiegare la scelta del titolo di Le Monde per l’incontro di Montreuil: il giornalismo ossessionato dalla devianza. Sono tre criminologi canadesi, Baranek, Chan ed Ericson, che hanno meglio documentato questo grave biais (distorsione) giornalistico. In Visualizing deviance mostrano dettagliatamente e sulla base di una lunga indagine ciò di cui, nelle scuole di giornalismo, si preferisce ridere piuttosto che far riflettere: la famosa battuta, attribuita al magnate della stampa Max Aitken, dell’uomo che morde un cane. Come non vedere in questa formula (“A dog that bits a man is a news story; a man that bits a dog is a scoop”) la quintessenza di ciò che gli inglesi chiamano newsworthiness, cioè ciò che fa notizia. E infatti succede che uno scoop canino di questo tipo venga pubblicato secondo questa pagina di France Bleu…

Un altro modo per sottolineare questa parzialità del metodo giornalistico, e cosa si intende per “devianza” in senso molto ampio, consiste nell’osservare che un sociologo non ha motivo, quando lavora alla SNCF (Ferrovie dello Stato), di interessarsi più ai treni che arrivano in ritardo piuttosto che a quelli che arrivano in orario, mentre i giornalisti, in realtà, sono interessati solo ai treni che deragliano. A forza di comportarsi come giudici del salto in lungo, ossessionati dalle assi (o dai cani) morsicati, i giornalisti creano, quotidianamente, rappresentazioni della realtà profondamente distorte e spesso provocanti ansia. Prendere atto di ciò non significa però invocare ogni anno a Natale un giornalismo di buona notizia come Jean-Claude Bourret o un giornalismo di soluzioni come Libé, ma piuttosto prendere coscienza di questo biais (distorsione) intrinseco per cercare di controllarlo meglio più consapevoli di questa distorsione, i giornalisti non presterebbero tanta attenzione alle notizie, per definizione eccezionali, e si concentrerebbero più spesso su eventi ricorrenti, la cui frequenza solo il metodo statistico può evidenziare. Ma è sempre il contrario che prevale, e le notizie atroci vengono evidenziate come “rappresentative” anche se le statistiche dimostrano il contrario. Questo è, per fare solo un esempio, ciò che sta accadendo con un’idea costantemente incarnata e messa in scena dai media anche se totalmente smentita dalle indagini sociologiche: la cosiddetta tendenza all’abbassamento dell’età della delinquenza questo biais (distorsione) offre all’estrema destra il materiale di sicuritarismo di cui si diletta da quasi 40 anni [NT: su questi aspetti a proposito della mediatica criminalizzazione degli immigrati si veda Razzismo democratico e ivi in particolare il capitolo di Maneri oltre a Polizie sicurezza e insicurezze]. Non basta ricordare il caso Papi Voise e il suo trattamento mediatico a pochi giorni dal primo turno delle elezioni presidenziali del 2002, che videro la qualificazione di Jean-Marie Le Pen, è importante anche rendersi conto che più o meno grandi vicende Papi Voise si producono quotidianamente e non solo alla vigilia di scadenze elettorali decisive.

Terzo biais (distorsione): la fabbrica rituale della sacrosanta “obiettività”

Un classico modo per il giornalismo di proporre di risolvere la controversia che potrebbe sorgere su uno di questi eterni affari Papi Voise che alimentano i canali di informazione continua, certi programmi di intrattenimento ma anche le pagine dei giornali più o meno seri consiste nell’organizzare un dibattito tra un leader politico che sfrutta una notizia del genere e un ricercatore coraggioso che cercherà di convincere con cifre e curve a suo sostegno. Presentando le posizioni dei due interlocutori come semplici opinioni contraddittorie, sappiamo troppo chi, in generale, vince questo tipo di partite agli occhi dei telespettatori… Ma questo dispositivo non è, lungi dall’essere sufficiente, riservato ai televisori dei canali più populisti. Occupa addirittura un posto centrale nel cuore della pratica giornalistica, come ha dimostrato la sociologa americana Gaye Tuchman in un articolo fondamentale pubblicato nel 1972, Objectivity as Strategic Ritual : An Examination of Newsmen’s Notion of Objectivity. L’ideologia dei giornalisti, quella a cui impariamo ad aderire nelle scuole di giornalismo prima di metterla in pratica e rafforzarla, sta infatti nel fatto di credere che si produce la famosa, sacrosanta “obiettività” apponendo in un articolo due contraddittori, e anche, se possibile, opinioni ortogonali. Queste assumono talvolta, in certi tipi di articoli, la forma di ciò che i giornalisti chiamano “il contraddittorio”, lontanamente ispirato alla logica giudiziaria che funge da loro modello. C’è da chiedersi anche perché i giornalisti, e ancor più i giornalisti d’inchiesta, preferiscano sempre, quando svolgono inchieste, prendere a modello il GIP piuttosto che il sociologo – elemento di grande risposta che risiede senza dubbio nell’attenzione alla devianza di cui ho parlato rispetto al biais (distorsione) precedente. [NT: qui l’autore dà troppo nobiltà al sociologo o all’universitario mentre nella maggioranza dei casi questo tipo di esperti accademici sposano quella stessa ideologia che lui denuncia cioè il discorso dominante intriso di luoghi comuni edulcorati con parvenza “scientifica”/obiettiva -vedi i già citati libri in italiano].

Come un ingenuo empirismo nei confronti dei piccoli fatti veri, questa fiducia dei giornalisti nella possibilità di far emergere la scintilla della “verità” – che, per falsa modestia, preferiscono chiamare “oggettività” – si sfregare insieme due opinioni antagoniste come si strofinerebbero due silex  rivelando il carattere a dir poco grossolano della loro epistemologia. Se fossero ricercatori in scienze sociali, vedrebbero in questo processo una modalità di oggettivazione molto rudimentario, e cercherebbero di immaginarne altri, soprattutto di moltiplicarli. Innanzitutto smetterebbero di parlare ad alta voce di oggettività e preferirebbero evocare processi di oggettivazione necessariamente parziali [NT: fra gli esempi di esperti sociologi e universitari che anche loro foraggiano i luoghi comuni reazionati basti ricordare quelli che agitano i dati sulla sovra-rappresentazione degli stranieri nelle carceri per dire che questa è la prova che gli immigrati sono più delinquenti degli italiani, così come negli Stati Uniti i neri e gli ispanici lo sarebbero più dei bianchi, senza quindi osservare che proprio queste statistiche confermano la prassi di criminalizzazione razzista e delitto di faciès cioè di aspetto che guida le polizie e buona parte della magistratura].

Questo piccolo mestiere artigianale di verità così raffazzonato si rivela in realtà disastroso. Basta prendere l’esempio del cambiamento climatico per capirlo: ci sono voluti anni (troppo) lunghi perché diventasse molto (troppo) costoso in termini di credibilità per un giornalista riportare l’opinione di uno scettico climatico di fronte a uno studioso ampiamente riconosciuto dai suoi pari. A proposito, se la scienza funzionasse come il giornalismo, gli scienziati piattoterrestri potrebbero presentare documenti alle conferenze di astrofisica.

Ragionando per analogia e mantenendo l’esempio caricaturale della rotondità della terra, si vede chiaramente come su molti argomenti i giornalisti spesso si vantano di aver messo di fronte un astrofisico serio e un piattoterrestre poiché, in fondo, certamente la Terra è grossolanamente rotonda ma è ancora un po’ appiattito ai poli, vero? Parlando di poli, notiamo che uno degli effetti più notevoli di questo rituale manicheo di produzione di oggettività consiste nell’esacerbare la polarizzazione. In questo modo ha largamente contribuito alla penetrazione delle posizioni di estrema destra nel dibattito pubblico. E non solo nel dibattito ma soprattutto nella creazione stessa di rappresentazioni della realtà molto contrastanti, lasciando progressivamente prendere piede l’idea di una società fratturata, presa dalla “febbre” e quindi sull’orlo della guerra civile come si vuole lo ripetono in maniera molto performativa gli editorialisti che stanno lentamente ma inesorabilmente scivolando verso l’estrema destra. [NT: a proposito dell’enfasi perpetua per la cosiddetta percezione dell’insicurezza fatta passare come verità indiscutibile da amministratori locali, politicanti e funzionari dello Stato in particolare delle polizie, senza mai dire di quali insicurezze effettive si parla e quali sono quelle atte a fabbricare l’opinione pubblica, si veda Nota a proposito dell’uso strumentale corrente del termine percezione].

Quarto biais (distorsione): quando le opinioni diventano fatti

C’è qualcosa di strano nel sentire i giornalisti evidenziare sempre piccoli fatti veri, come se esibissero la garanzia della loro “neutralità”, una sorta di standard ISO di buona pratica professionale. Un piccolo esercizio ci permette di capire meglio perché si sentono obbligati a esagerare con questa certificata neutralità: leggere un articolo qualsiasi e provare a identificare ciò che costituisce informazione, e meglio ancora, informazione esclusiva. Si prenda un altro oggetto e si ripeta l’esercizio. Ben presto ci si rende conto di quanto le informazioni appaiano piuttosto rare sui giornali. A maggior ragione negli articoli di giornalisti politici. Ciò che chiamano informazioni nella maggior parte dei casi sono semplicemente opinioni riportate. Detto questo, ecco le informazioni. A margine di una recente decisione su Arcom, il Consiglio di Stato ha avuto la saggezza di non distinguere troppo tra informazione e opinione, il che sarebbe in pratica irrealizzabile poiché i giornalisti passano il loro tempo a sfumare il confine tra le due. Per verificarlo, si torni agli articoli appena letti per trovare informazioni e questa volta si cerchino le opinioni… Il 7 dicembre il quotidiano Le Monde ha pubblicato due articoli dedicati al RN (il partito di Le Pen). Un cosiddetto articolo di informazione, nelle pagine politiche, e un editoriale, quindi di opinione, nelle pagine di dibattito. Il primo articolo sembra informativo, si intitola “RN e Marine Le Pen accelerano la loro normalizzazione in un clima favorevole al pluralismo” (“Le Rassemblement national et Marine Le Pen accélèrent leur normalisation dans un climat favorable au pluralisme” ) e si basa principalmente sui risultati di un sondaggio d’opinione (un sondaggio Verian-Epoka per l’annuale Le Baromètre informativo Monde-France info). Tenendo conto del fatto che ormai una maggioranza relativa delle 1006 persone interrogate ritiene che la RN non rappresenti un pericolo, si autorizza quindi Le Monde a ritenere che la standardizzazione della RN sia informazione, un piccolo fatto vero. Il secondo articolo, l’editoriale, sembra, per il suo status e la sua collocazione nel giornale, dare un parere, che peraltro vincola l’intero titolo poiché il testo non è firmato, si intitola “‘Difronte alla “normalizzazione del RN, un’apatia colpevole” (Face à la « normalisation du RN une coupable apathie”) e offre un’analisi del modo in cui questa “normalizzazione” è stata intrapresa da Marine Le Pen. In effetti, fin dal titolo, con il semplice uso delle virgolette per inquadrare la parola “standardizzazione”, questo editoriale fornisce un’importante informazione: la suddetta “standardizzazione” va presa con le pinze, si tratta innanzitutto di una strategia attuata da questo partito di estrema destra. Allora qual è l’articolo di opinione? Certamente il cosiddetto articolo di cronaca, che non prende questa precauzione, prende per oro colato l’idea di “normalizzazione” e amplifica così il carattere performativo della strategia discorsiva dell’estrema destra. È attraverso questo tipo di meccanismo, riprodotto quotidianamente per anni dai giornalisti politici, che la stampa ha coprodotto con la RN la “normalizzazione” dell’estrema destra, come dimostrano numerosi lavori di sociologia politica. [NT: Riferendosi a Foucault, J. Butler tratta la performatività già nel suo primo saggio Performative Acts and Gender Constitution, fatto analizzato anche da Garfinkel in Agnese].

Quinto biais (distorsione): angoli non sempre molto dritti

Un altro articolo di Le Monde (sì, è il quotidiano francese che leggo con più assiduità, ma ogni volta avrei potuto prendere molti esempi da altre testate) permette di cogliere un quinto biais (distorsione) frequente del giornalismo in giornalismo generale e politico in particolare. A differenza degli altri, questo biais (distorsione) è più spesso accettato come tale, viene addirittura insegnato come un’arte nelle scuole di giornalismo: i giornalisti lo chiamano “l’angolo”, i sociologi preferiscono, seguendo Erving Goffman, parlare di framing. Questo biais (distorsione) è inevitabile, e non si tratta di mettere in discussione l’idea che dobbiamo tagliare la “realtà” per poterla osservare e descrivere. Le scienze sociali non procedono molto diversamente quando ci invitano a “costruire un oggetto”. La differenza, tuttavia, sta nella frequente assenza di riflessività [critica] nella pratica giornalistica. Questo è un po’ il modo in cui generalmente riconosciamo questa pratica professionale: a sentirli i giornalisti non avrebbero mai il tempo del debriefing e ancor meno di porsi delle domande su ciò che fanno mento lo fanno. Eppure scegliere un angolo è bene ma con cognizione di causa è molto meglio. Veniamo all’esempio di questo recente articolo di Le Monde. Va detto che la cosa mi ha particolarmente scioccato (e devo riconoscere la mia accresciuta sensibilità e la mia parzialità sull’argomento). Nell’edizione del 19 giugno, Le Monde ha quindi pubblicato un articolo dal titolo “Lo scenario di RN per la privatizzazione della radiodiffusione pubblica non convince il settore”. Sì, letto bene. Che strana costruzione di un oggetto sicuramente direbbe un sociologo [critico]. Il punto non è quindi semplicemente la volontà di RN di privatizzare il settore audiovisivo, di cui senza dubbio si è già letto troppo. Il punto non è nemmeno il fatto che i professionisti interessati sono preoccupati per il progetto di privatizzazione dell’emittenza pubblica, un punto che ha tuttavia il vantaggio di essere piuttosto attuale dato il recente progetto di fusione governativa che sta già mobilitando questi professionisti. No, il punto è il modo in cui la RN intende agire (e non il principio stesso della privatizzazione) non convince gli attori (cioè soprattutto quelli che potrebbero riacquistarlo) … Avendo condiviso questo titolo di Le Monde con un grande voce della radio pubblica che si riconoscerà, questi ha risposto sobriamente: “si chiama angolo, anche se sono d’accordo con te che non è il più rilevante”. La RN può comunque ringraziare l’angolo non molto dritto e anzi un po’ storto, che le ha permesso di inserire stabilmente nell’agenda politica questo progetto di privatizzazione che, non si sa mai, potrebbe essere utile anche ad altri.

Sesto biais (distorsione): 45 milioni elettori o il giochino del benchmarking Cosa scegliere

La scelta di questa angolazione permette anche, ampliando, di evidenziare un altro biais (distorsione) del giornalismo politico, un biais (distorsione) relativamente recente e che spesso si presenta come un progresso, una garanzia di serietà: il giornalismo di benchmark per programmi politici.

In Computing the News, un importante libro, purtroppo non ancora tradotto in francese, il sociologo Sylvain Parasie (che oggi dirige il Medialab di Sciences Po) mostra come questa pratica giornalistica sia nata negli anni ’60 negli Stati Uniti riguardo alla valutazione dei servizi pubblici. Una pratica importata per la prima volta in Francia da riviste come L’Express e Le Point con i loro dossier che diventano molto problematici nella “classifica” degli ospedali o delle scuole… Da qualche tempo, i dipartimenti politici di alcuni giornali hanno preso l’abitudine di trasformarsi in laboratorio di sperimentazione della Fnac negli anni ’80 o di copiare gli editoriali di Cosa scegliere (Que Choisir) o 60 milioni di consumatori. Dobbiamo senza dubbio vedere qui, andando contro gli insegnamenti della più seria sociologia politica, la progressiva imposizione dell’idea stessa del Cevipof anni ’80 (ancora) di un elettore razionale e calcolatore, che vorrebbe ottimizzare le sue scelte… Oltre a ciò tradisce un grande malinteso su cosa significhi votare, questo trattamento giornalistico contribuisce in primo luogo a una forma di depoliticizzazione dei temi che avvantaggia doppiamente l’estrema destra: in primo luogo considerandola alla stregua degli altri partiti, accettando che sia un partito come gli altri e quindi contribuendo alla sua strategia di “normalizzazione”, gli si dà credibilità agli occhi dei cittadini a differenza di RN che ha capito benissimo che i programmi non contano nulla o quasi in una campagna, al punto che semplicemente non ne ha. In vista di queste elezioni legislative, la sinistra prende sul serio le ingiunzioni giornalistiche di produrre un programma dettagliato e quantificato e fa la brava studentessa, accettando così di depoliticizzarsi in gran parte tecnicizzando. Questo biais (distorsione) giornalistico quindi non solo avvantaggia la RN, ma ostacola seriamente la sinistra.

Settimo biais (distorsione): redattori alla ricerca insaziabile di personaggi

Ultimo dei biais considerati per questo articolo (ma ce ne sono molti altri che dovrebbero essere analizzati): la personalizzazione. Il lessico inglese del giornalismo ci permette di comprendere meglio la centralità della personalizzazione in questa pratica professionale. In inglese un articolo, qualunque esso sia, si chiama story. E chi dice storia, dice personaggi. Un giornalista ha sempre bisogno di personaggi che incarnino e abitino i suoi articoli. In politica, e in Francia, questo biais è fortemente accentuato dall’eccessiva presidenzializzazione del regime. Costruire personaggi e dare loro l’etichetta “presidenziabile” è lo sport preferito dei giornalisti politici. La popolarità ha aggiunto una nuova dimensione alla personalizzazione, adottando un approccio giornalistico già evidenziato all’inizio del XX secolo da Robert Park con il suo concetto di human-interest stories. La versione più contemporanea di questo trattamento mediatico – la presentazione di sé su Tik Tok – oggi ha solo bisogno che i media la legittimino nell’arena politica ufficiale, per considerarla in breve il modo in cui questo biais (distorsione) avvantaggia i leader RN è ovvio: non c’è impresa politica più personale, più dinastica, più celebre di quella della famiglia Le Pen dall’inizio degli anni ’80 – dalla benda sull’occhio ai gattini nella foto. Ma questa distorsione ostacola drammaticamente anche la sinistra quando la sua strategia è l’unione (il Fronte Popolare), collettiva e rifiuta di rispondere alla domanda su chi sarebbe il primo ministro in caso di vittoria del Nuovo Fronte Popolare. Ciò non impedisce a Les Échos di pubblicare un sondaggio Opinion(my)way secondo cui per il 25% degli intervistati Raphaël Glucksmann sarebbe il miglior primo ministro del Nuovo Fronte Popolare, né a Libération di riprendere questa informazione in grande evidenza sul suo account Instagram non esitando a titolare “Glucksmann. Primo ministro preferito dai francesi in caso di vittoria della sinistra”… Va anche aggiunto che ciò non impedisce a Jean-Luc Mélenchon di dichiararsi su France 5 “ovviamente” pronto a diventare Primo Ministro, garantendosi così il suo status di star nei media e di RN, Bardella si è affrettato a ritwittare queste “informazioni”, vale a dire queste dichiarazioni.

Considerare tutti queste distorsioni significa rendersi conto di quanto fare giornalismo politico sia sempre, che ce ne si renda conto o meno, fare politica con altri mezzi. Cercare di nasconderlo dietro un’ideologia professionale di neutralità non fa che avvantaggiare l’estrema destra. La cosa più strana, ma senza dubbio caratteristica di un’ideologia professionale efficace, è constatare fino a che punto la maggior parte dei giornalisti si comporta come se ciò che scrive o dice pubblicamente non avesse alcun tipo di effetto sul mondo che si propone di descrivere. Che performance!

Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000 

News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp