“Non siamo animali”, grida un ragazzo, mentre un poliziotto gli intima di tornare indietro. A fianco a lui un gruppo di uomini trascina un carretto carico di valigie. Una bambina si è addormentata sul cumulo di sacchi. “Ma dove dobbiamo andare? Stiamo sulla strada da tre giorni”, dice qualcuno di loro. “Abbiamo fame, lasciateci andare almeno in paese a comprare del latte per i nostri figli, altrimenti finisce che qui muore qualcuno”, urlano gli uomini in inglese.
Un altro ragazzo si avvicina a un giornalista e gli chiede di aiutarlo a comprare qualcosa da mangiare. Ha i soldi, ma la polizia non gli permette di muoversi. Migliaia di persone sono ammassate lungo la strada che collega il campo profughi di Moria, il più grande d’Europa, distrutto da un incendio divampato nella notte tra l’8 e il 9 settembre, e la città di Mitilene, sull’isola di Lesbo. Lo schieramento di poliziotti in tenuta antisommossa impedisce ai profughi di raggiungere la città e ogni tentativo di rompere il blocco è respinto dagli agenti, che sono arrivati a sparare i lacrimogeni sui profughi. Dall’hotspot di Moria continua a salire una colonna di fumo nero provocato da un secondo incendio e per ore un elicottero dei vigili del fuoco vola basso sulle teste degli sfollati. Sono stati giorni di vento e di caldo afoso.
Gli incendi appiccati in diversi punti del campo nella notte dell’8 settembre sono divampati velocemente, inghiottendo la baraccopoli e il centro di detenzione costruito nel 2015. Quello che resta è un cumulo di cenere, gli ulivi carbonizzati, gli scheletri delle tende e un odore acre di carbone e di gasolio. All’interno del centro di detenzione le strutture di ferro si sono piegate per il calore, le lamiere si sono deformate. Il paesaggio è quello di una città esplosa. Il giorno successivo all’incendio, i rifugiati sono tornati in piccoli gruppi a vedere cosa resta di quella che per mesi o per anni è stata la loro casa. Alcuni hanno provato a recuperare qualche oggetto personale risparmiato dalle fiamme: delle bombole del gas, delle bottiglie d’acqua.
Che ne sarà di noi?
Altri sono venuti solo a vedere cosa resta del campo di Moria, la baraccopoli-fortino, simbolo dell’inasprimento delle politiche europee dell’immigrazione a partire dal 2015. Hassan Mohammed si è avvolto un fazzoletto intorno alla testa e alla bocca per ripararsi dal sole, ma anche per proteggersi dal coronavirus. “Che ne sarà di noi?”, chiede, mentre guarda spaesato il campo distrutto. Non era certo un luogo bello, anche prima dell’incendio: le baracche del cosiddetto olive grove, l’uliveto, non avevano accesso all’acqua corrente né all’elettricità ed erano circondate da immondizia. Le tende, molte artigianali, erano insicure e inadeguate, ma ora la situazione è ancora più grave e le prospettive incerte.
Mohammed, originario della Somalia, ha perso i suoi documenti nell’incendio e teme che il processo per chiedere l’asilo possa diventare ancora più complicato. Negli ultimi due giorni non ha mangiato e ha dormito in un campo di sterpaglie. “I volontari distribuivano i pasti, ma ora da due giorni non viene più nessuno e noi abbiamo fame”, afferma. Le sue preoccupazioni sono legate anche al coronavirus perché alcuni ragazzi somali che vivevano nella sua stessa tenda sono risultati positivi al test del covid-19. “Non avevano sintomi”, racconta.
Ma poi sono risultati positivi al test. Mohammed è negativo, ma gli mancano informazioni sulla malattia e teme che siano state proprio le tensioni dovute alla situazione sanitaria a scatenare il panico tra gli abitanti di Moria. Nelle ultime settimane, infatti, almeno 35 persone erano risultate positive al covid-19 ed erano state messe in isolamento, ma tutto il campo profughi era in lockdown da 179 giorni. Per il governo greco sarebbero stati alcuni dei residenti del campo ad appiccare l’incendio, come era già successo in passato, per protestare contro la situazione nel campo durante la lunghissima quarantena.
Senza trasferimenti
Il 10 settembre il portavoce del governo greco Stelios Petsas ha annunciato che gli sfollati di Moria non saranno trasferiti sulla terraferma, accusandoli di aver provocato l’incendio: “Alcune persone non rispettano il paese che le sta ospitando, sembra che non vogliano ottenere un passaporto, né una vita migliore”. Il 9 settembre 400 minori non accompagnati sono stati trasferiti sulla terraferma, ma il governo ha annunciato che tutti gli altri sfollati rimarranno sull’isola, nonostante il campo sia stato distrutto e che saranno alloggiati temporaneamente a bordo di tre navi: due militari e un traghetto, che tuttavia non sono ancora arrivate a Lesbo.
Il timore che il campo profughi venga ricostruito ha alimentato anche le proteste degli abitanti di Lesbo che il 10 settembre hanno bloccato tutte le strade per accedere al centro del paese di Moria. Come avevano fatto lo scorso febbraio hanno usato camion, auto, massi per bloccare il traffico e impedire ai mezzi governativi e non governativi di raggiungere i profughi che dormono sulla strada e il centro di detenzione distrutto. “Non vogliamo che il campo sia ricostruito, negli ultimi cinque anni è stato tutto sulle nostre spalle, ora è arrivato il momento di evacuare l’isola”, afferma Lefterios, uno dei manifestanti del check point allestito sulla strada che collega il paese di Moria al campo profughi.
“Negli ultimi giorni abbiamo vissuto una situazione senza precedenti con incendi quotidiani”, ha aggiunto Yiannis Mastroiannis, uno dei leader delle proteste. “Abbiamo raggiunto il limite”. Da gennaio in Grecia è entrata in vigore una nuova legge sull’asilo che rende ancora più difficile ottenerlo, inoltre il governo guidato da Kyriakos Mitsotakis all’inizio dell’anno aveva sospeso i trasferimenti sulla terraferma, rendendo la situazione sulle isole greche ancora più insostenibile, annunciando il progetto di costruire nuovi campi. Dopo le proteste degli abitanti, a fine marzo i trasferimenti erano ripresi, ma il campo profughi era arrivato a ospitare in ogni caso 13mila persone, sei volte di più della sua capienza, stimata in duemila ospiti.
L’hotspot di Moria era stato costruito nel 2015 per volere dell’Unione europea nell’ambito dell’Agenda europea sulle migrazioni che prevedeva che nel centro le persone arrivate dalla Turchia via mare rimanessero solo per pochi giorni, per essere identificate prima di essere trasferite sulla terraferma e in altri paesi dell’Unione europea attraverso i ricollocamenti. Nel 2017 tuttavia il programma di reinsediamento dalla Grecia e dall’Italia è stato sospeso e le isole greche si sono trasformate in carceri a cielo aperto. La crisi sanitaria ha solo detonato una situazione che era già al collasso, nell’indifferenza delle autorità europee.
L’11 settembre la vicepresidente della commissione europea Margaritis Schinas dovrebbe arrivare sull’isola di Lesbo per discutere di un possibile pacchetto di aiuti alla Grecia dopo l’incendio di Moria. Inoltre il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel si sono impegnati ad accogliere 400 minori non accompagnati provenienti dalle isole greche e in tutta Europa il 10 settembre si sono svolte proteste per chiedere un intervento risolutivo dell’Unione europea in favore dei profughi di Lesbo. Tuttavia tardano ad arrivare risposte concrete e si teme che il trasferimento sulle navi messe a disposizione dal governo greco possa alimentare ulteriori proteste e tensioni.
Mentre si prepara a passare la terza notte consecutiva sulla strada, Zainab Naderi, una ragazza afgana di 19 anni è sconfortata: “Abbiamo perso la speranza”. Naderi ha una protesi a una gamba fin da bambina e non ce la fa più a dormire per terra. La mostra come un atto di accusa per le autorità che non si stanno occupando neppure dei più vulnerabili. A fianco a lei, seduta sotto a un ulivo, c’è un’altra ragazza con il figlio di quattro anni. Il bambino dorme stremato steso su una coperta. “Non mangia da due giorni”, mormora la madre.