L’infinita partita. Analisi della nuova ordinanza sul terrorismo
- dicembre 16, 2014
- in emergenza, lotte sociali, misure repressive, no tav
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Chiediamo perdono in anticipo per la lunghezza, ma l’argomento è delicato, molto tecnico e per certi tratti affronta due diverse visioni del mondo. Una sintesi eccessiva avrebbe sminuito la portata della questione che è, a nostro modo di vedere, fondamentale per i futuri equilibri della società. A Torino non si sta celebrando un processo contro degli anarchici, e forse nemmeno contro il movimento No Tav. Si stanno sperimentando i futuri assetti tra potere e diritti, governanti e singole persone. Per questo è importante seguire da vicino, a volte in modo pedante, quel che sta accadendo.
Sebbene la decisione della Cassazione sembrasse aver portato un po’ di buonsenso, allontanando lo spettro del terrorismo e del grottesco, la partita a scacchi non è ancora terminata..
Con una nuova ordinanza il tribunale di Torino ha rilanciato l’ipotesi del terrorismo rispetto all’azione avvenuta nella notte tra il 13 e 14 maggio 2013 contestandola ai tre arrestati su cui fin’ora era rimasta pendente: Lucio, Graziano e Francesco. I pm avevano come obiettivo quello di arrivare alla sentenza della Corte d’Assise con la decisione di un giudice che in qualche modo rispondesse alle critiche della Cassazione. Dopo averci provato con il Riesame, hanno trovato nel gip Federica Bompieri l’occasione per soddisfare la loro impellente esigenza.
La nuova ordinanza arriva a pochi giorni dal 17 dicembre e non può non sottolinearsi l’insolita tempistica. E’ un monito contro il movimento No Tav, ma a ben vedere anche contro qualunque movimento di protesta che in futuro vorrà opporsi in maniera diretta alle decisioni dei governanti. L’ordinanza risponde all’esigenza di una sola parte, l’accusa, dimentica di qualunque principio di ricerca della verità che vuole il magistrato, sia esso pm o giudice, impegnato nella valutazione di tutti gli elementi, anche quelli favorevoli agli imputati.
Diciamolo subito: l’ordinanza è scritta meglio di quella originaria contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Seguire le tracce indicate dalla Cassazione ha permesso un ragionamento giuridico più preciso offrendo un’unità narrativa che, a un occhio superficiale, potrebbe anche sembrare una ricostruzione. Si tratta però di una narrazione tossica che ha proceduto con un ragionamento a contrario: partendo da una premessa, l’esistenza del terrorismo, si sono presi solo i particolari che sembravano confermarla, tralasciando del tutto quelli che la negavano o sminuendo o piegando quelli che non si poteva fare a meno di considerare. La Cassazione ha fornito lo scheletro, il novello demiurgo ci ha appiccicato sopra brandelli di carne. Che poi la creatura sia in grado di stare in piedi o addirittura di camminare, è tutto un altro discorso.
Analizziamo l’ordinanza tenendo sempre bene a mente un fatto: si sta parlando del danneggiamento di un compressore. Né più, né meno.
Un pericolo concreto
La Cassazione aveva censurato l’ordinanza del Riesame su un primo punto: non basta l’aspetto psicologico per accertare l’esistenza di una finalità di terrorismo. Ovvero: non basta che chi agisce pensi di farlo con finalità terroristiche (sempre che sia possibile, tra l’altro) ma è necessario che l’azione sia in grado materialmente e concretamente di portare a quelle conseguenze. Nel nostro caso, come vedremo, lo stop ai lavori della Tav, un colpo quasi mortale alle istituzioni del Paese, la grave lesione del modello decisionale democratico e, di conseguenza, il grave danno internazionale per il Paese. Fiuuuù… ci siete? Lo sappiamo, effetto montagne russe.
Partiamo dal primo elemento: lo stop al cantiere. Nell’affrontare l’argomento ci imbattiamo subito in una anomalia. Nella sua prima ordinanza contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò il giudice Bompieri scriveva: “Nonostante i ripetuti attacchi l’attività del cantiere è, quindi, proseguita con regolarità e i primi 200 metri di scavo sono stati realizzati con l’utilizzo delle tradizionali tecniche di scavo”. Nonostante fosse contenuta in un capitolo che, così come altri, è stato ricopiato pari pari nella nuova ordinanza, questa frase è sparita. Non era ovviamente “utile” alla causa della procura. Tuttavia un giudice che cambia così radicalmente idea a seconda della bisogna di una delle parti non offre proprio quell’immagine di imparzialità che le regole deontologiche vorrebbero.
Andiamo avanti. Nei giorni successivi all’azione, da tutti i Tg e i giornali, ci è stato riversato addosso un profluvio di dichiarazioni dei ministri Lupi e Alfano: tenuta dello Stato, nessun arretramento, i lavori continueranno. Che fine hanno fatto queste dichiarazioni? Sparite anche queste. Ma se non bastassero le dichiarazioni d’intenti governative, ci sono i fatti a parlare: i lavori sono andati avanti. Addirittura quella sera stessa. Come è emerso nel processo, gli operai ripresero un’ora sola dopo l’azione.
Il gip più avanti tenta in qualche modo di puntellare la sua curiosa tesi parlando delle spese che lo Stato avrebbe sostenuto, dopo l’azione, per militarizzare l’area (come se l’esercito non fosse già presente in zona da anni). Di più: arriva a dire che lo Stato si trovò di fronte a una drammatica scelta: abbandonare l’opera oppure affrontare quei costi aggiuntivi per tutelare gli operai e il cantiere. Da dove lo si evince? Boh, una dichiarazione apodittica, senza alcun documento o testimonianza che comprovi questa lacerante scelta che l’Esecutivo dovette affrontare.
Il contesto
Ma passiamo oltre. Se non basta l’elemento psicologico, è necessario individuare dei criteri oggettivi che dimostrino il reale e concreto pericolo corso. Uno di questi è il contesto. Argomento già di per sé scivoloso perché stabilire quando esiste un contesto e quando no è piuttosto complicato. Lo stesso giudice Bompieri non era andata proprio benissimo con la prima ordinanza. L’atto riportava uno sterminato elenco di episodi, alcuni precedenti e altri addirittura successivi all’azione, raggruppati sotto un’unica sigla: minacce a giornalisti, avvocati, politici, lettere minatorie, danneggiamenti alle ditte che lavorano per il Tav, scritte sui muri… Il movimento No Tav è già di per se stesso piuttosto variegato con sensibilità, storie personali, forme di lotta piuttosto differenti. Ognuno fa un po’ quello che si sente. E non può essere una generica opposizione all’opera a riunirle a posteriori. La Cassazione era stata chiara: è del tutto indimostrato che quegli eventi abbiano la stessa matrice e siano riconducibili a un’unica regia.
La risposta del gip Bompieri è stata quella di epurare lo sterminato elenco dagli episodi successivi all’azione del maggio 2013 affidando a una “ricostruzione storica” del dirigente della Digos Giuseppe Petronzi il compito di fungere da collante tra i vari episodi. Ma al di là del fatto che sembra piuttosto curioso affidare proprio alla Digos (che in tutti questi anni non è riuscita a identificare alcuno degli autori) il compito di attribuirli a posteriori al movimento, non solo l’ordinanza non supera la critica della Cassazione, ma sembra dimenticarsi che alcune recenti inchieste stanno indagando sui tentativi di infiltrazione mafiosa nei lavori del Tav e sugli incarichi privati che alcuni poliziotti degli stessi uffici giudiziari avrebbero ottenuto per “proteggere” i macchinari di ditte operanti in Valle. Senza considerare l’appetitoso piatto servito da una politica piuttosto incline alla distribuzione di denaro: indennizzi alle ditte danneggiate dai No Tav sulla base di una semplice autocertificazione. Davvero è possibile ascrivere aprioristicamente tutti quegli episodi a un movimento che, anche quando violava la legge, lo ha sempre fatto rivendicando i propri atti? Il contesto sembra piuttosto sfilacciato e se si esclude quello che tutti sanno, ovvero che da vent’anni c’è un movimento che non vuole l’Alta Velocità nel suo territorio, resta ben poco. Stabilire che basti questo per rappresentare un contesto terroristico è davvero un po’ velleitario.
La consapevolezza di agire in un contesto terroristico
Non basta il contesto. Per la Cassazione serve anche dimostrare che chi agiva era consapevole di farlo in un contesto con finalità terroristiche. Tralasciando la tautologia, qui il gip si limita a riportare alcune lettere dal carcere degli arrestati che dimostrano sì un’adesione al movimento No Tav, ma da qui a individuarne un progetto terroristico ce ne passa. La consapevolezza sarebbe poi data dal fatto che gli indagati hanno precedenti indagini, sono anarchici, partecipano anche ad altre lotte contro i Cie, gli sfratti e quant’altro. Insomma: tutto l’armamentario del cosiddetto “Diritto penale del nemico” secondo il quale qualcuno non è colpevole per ciò che compie, ma per ciò che è e professa. Da sottolineare poi l’inserimento (senza alcun contraddittorio e senza alcuna valutazione da parte di un giudice) di una nota Digos del settembre 2014 che arriverebbe a identificare in alcuni indagati i partecipanti a un attacco al cantiere risalente a due anni prima! Bontà loro, quale fortunata coincidenza dopo due anni.
Gli obiettivi dei terroristi
Pericolo concreto, contesto e consapevolezza ancora non bastano. Per la Cassazione i presunti terroristi, per essere tali, devono perseguire uno dei seguenti tre obiettivi:
1) Intimidire la popolazione
2) Distruggere le strutture politiche, economiche e sociali fondamentali di una società
3) Costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto
Eliminando i primi due (la popolazione valsusina non sembrava per nulla intimidita, anzi, e puntare alla disarticolazione dello Stato partendo dal danneggiamento di un compressore sembra prenderla un po’ troppo alla lontana) resta da affrontare il terzo punto. La formulazione della norma è talmente generica (ringraziamo il parlamento per questo capolavoro) che la Cassazione si è sentita in dovere di porre dei paletti. Occhio, non basta che si voglia condizionare o indirizzare i poteri pubblici perché sussista il terrorismo. Perché “essenza della politica e della democrazia – scrive la Cassazione – è proprio quel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare, e in un certo senso di imporre, le scelte rimesse agli organi del potere pubblico”.
Questo è un passaggio fondamentale. Si scontrano due visioni del mondo piuttosto differenti. Da una parte la Cassazione che mostra un concetto di democrazia molto più ampio e ricco, dall’altra gli uffici giudiziari di Torino che sembrano averlo relegato in un angolo: la democrazia la si esercita una volta ogni cinque anni, apponendo una croce su un simbolo. Dopodiché i cittadini devono subire qualunque decisione dei loro governanti senza alcuna possibilità di dialogo, anche aspro, con i decisori politici, pena l’accusa di terrorismo. Beh, dice la Cassazione, un attimo: democrazia è un’idea un pelo più complessa e la sua ricchezza sta proprio nella possibilità che le persone hanno, in qualunque momento, di “disturbare il manovratore” quando le decisioni che prende vanno contro gli interessi della popolazione. Sareste stati zitti di un fronte a un Parlamento che approva le leggi razziali?
I misuratori oggettivi
Ma come si comprende, allora, quando un’azione rientra nel dibattito e quando invece trascende nel terrorismo? La Cassazione indica tre “misuratori oggettivi” che devono coesistere contemporaneamente perché si possa parlare di terrorismo.
a) La scala. La questione oggetto del contendere deve essere particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni di vita associata o mettere a rischio le attribuzione costituzionali. Più banalmente qualcosa di paragonabile altri due possibili obiettivi del terrorista: il dissesto delle istituzioni o l’intimidazione della popolazione.
b) La macrodimensione del fenomeno: alla costrizione dei poteri pubblici deve corrispondere un grave danno al Paese
c) L’illegittimità del metodo utilizzato per costringere i poteri pubblici. Ma attenzione – fa notare la Cassazione – equiparare una condotta illecita politicamente motivata e il terrorismo è improponibile.
Qui davvero l’escalation è da brividi. Ricordate? Eravamo partiti sempre dal nostro famoso compressore danneggiato. Problema: il compressore si trova nel cantiere della Tav che è un’opera che ha avuto vari avalli dal governo italiano e dall’Ue. Vent’anni di studi e accordi. Poco importa che fin da subito la popolazione fosse contraria. Poco importa che un parte della popolazione, numerosi intellettuali e addirittura dei parlamentari denuncino da anni che quelle scelte sono state prese calpestando qualunque iter democratico. Poco importa che l’Ue, indicata come parte lesa al processo di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, abbia fatto sapere di non avere alcun interesse a costituirsi parte civile. Qui c’è di più in ballo, dice il gip, che arriva a chiedere una condanna esemplare: c’è la tenuta del sistema.
Nell’ordinanza vengono inserite tre interviste al coordinatore del progetto per la commissione europea Brinkhorst, al presidente della delegazione francese presso la commissione intergovernativa per la realizzazione dell’opera, Besson, e al commissario governativo italiano Virano. Tutti e tre sostengono che l’opera è tra i progetti prioritari dell’Ue e dei governi italiano e francese e che interromperla sarebbe un disastro. Brinkhorst addirittura arriverebbe a sostenere che sono già stati stanziati 3,5 miliardi di euro dall’Ue e che sarebbe già stato deliberato il cofinanziamento al 40% dell’opera. Il che è francamente una novità visto che la domanda congiunta di Italia e Francia verrà presentata solo a febbraio. Ciò che però a noi qui interessa è che nell’ordinanza il nostro compressore, in un vortice di considerazioni ipotetiche che si sorreggono l’un con l’altra, viene lanciato in orbita e il suo danneggiamento diventa il grimaldello attraverso cui minare l’impianto democratico delle scelte del nostro Paese e dell’Ue, l’architrave che sorregge i rapporti tra i Paesi europei e le loro scelte di integrazione nella politica dei trasporti, in quella ambientale, in quella dello sviluppo, il simbolo dello stesso patto sociale che regola i rapporti sottostanti tra le forze sociali del nostro Paese. Danneggiarlo ha rappresentato, per il giudice, un grave danno per lo Stato che in questo caso non solo ha rischiato di veder messa a repentaglio tutta la rete ferroviaria europea e i suoi sviluppi, ma anche quello di essere visto dai propri partner europei e dalla stessa Ue come un soggetto politico incapace di perseguire le proprie decisioni assunte democraticamente. Rileggere queste parole alla luce delle ultime inchieste sul malaffare, sulla corruzione, sulle infiltrazioni mafiose è quasi una provocazione. Un pensiero, però, va al nostro compressore. A questo punto averlo spento sembra più un atto di clemenza: il poveretto non ce l’avrebbe fatta a sorreggere ancora per molto tutta questa responsabilità.
L’errore ripetuto: la contestazione dell’attentato alla vita
Il ragionamento, purtroppo, non è nuovo. Sono gli stessi identici concetti sostenuti nella requisitoria del processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. La totale adesione del gip alla visione dei pm è stata tale da incorrere anche nella sventura di riportare un errore materiale della procura. Avendo sostenuto in requisitoria che durante l’azione non ci fu alcun attentato alla vita, ma solo un attentato all’incolumità di chi quella notte era presente nel cantiere, i pm avevano inviato un’integrazione al gip chiedendo la revoca per uno dei capi d’imputazione. L’attentato alla vita, tuttavia, era presente anche in un secondo capo del quale, evidentemente, ci si era dimenticati. Beh, il risultato è che l’imputazione è rimasta. Per cui per gli stessi fatti e con lo stesso gip e gli stessi pm ora Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò si trovano contestato l’attentato all’incolumità delle maestranze; Lucio, Graziano e Francesco alla vita.
Il dolo e il collage delle dichiarazioni
L’aderenza totale del gip alle argomentazioni della procura si ritrova anche in un altro passaggio, tutt’altro che ininfluente. Una critica fondamentale sollevata dalla Cassazione verteva sul fatto che nell’ordinanza del Riesame si diceva che quella notte i No Tav avevano tirato a casaccio sul piazzale antistante il tunnel geognostico con il rischio di uccidere o far del male a qualcuno. Nel diritto si chiama “dolo eventuale”, ovvero quando qualcuno compie l’azione non con la precisa volontà di provocare una conseguenza, ma accettando che possa succedere. Il dolo eventuale è incompatibile con il reato di terrorismo. Non si può accettare eventualmente di essere terroristi, o lo si è dietro un preciso progetto o non lo si è. I pm hanno portato avanti questa ambiguità fino alla loro requisitoria, quando hanno sostenuto che in realtà l’obiettivo dei No Tav era quello di far del male, ma non di uccidere. Si chiama dolo volontario. Anche il gip, ovviamente, ha sposato questa nuova versione.
C’è un però. Giocare su più tavoli non sempre conviene alla procura. L’arresto di Lucio, Graziano e Francesco è avvenuto grazie a un’intercettazione ambientale nella quale, molto esplicitamente, uno degli interlocutori spiega che quella notte l’obiettivo era solo quello di danneggiare i mezzi, ma che non si voleva far del male alle persone.
Questo è proprio uno di quei tipici elementi a favore dell’imputato di cui un magistrato dovrebbe tener conto nella ricerca della verità. Ma qui, come abbiamo visto, siamo in un altro campo. Questa è una guerra senza quartiere che è stata dichiarata. Un processo politico, in tutto e per tutto. Il ragionamento del gip è dunque curioso: l’intercettazione ambientale è valida fino a un attimo prima di quella frase, e dunque i tre erano presenti e devono essere processati, ma non lo è più solo per quella frase. Perché? Semplice. Attraverso la tecnica del collage sono state prese singole dichiarazioni dal processo a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò per dimostrare che in realtà l’obiettivo era “oggettivamente” quello di far del male. Si cita, per esempio, la testimonianza del poliziotto che lanciò i lacrimogeni (e che a processo disse di essere stato fatto oggetto del lancio di una molotov), ma ci si dimentica della dichiarazione del suo commilitone che gli stava affianco (che vide le molotov ma disse che erano troppo lontane perché riuscissero a colpirli); ci si dimentica della consulenza del geometra Abbà che ha ricostruito dove sono cadute le molotov ( quella più lontana è stata ritrovata a 25 metri, mentre i poliziotti erano a 50 e più); ci si dimentica della testimonianza del dirigente del poliziotto che ha affermato in aula di aver dato l’autorizzazione a sparare i lacrimogeni con il lanciatore GL perché gli assalitori erano troppo lontani per essere raggiunti dal lancio a mano di un lacrimogeno. Stessa cosa dicasi per la testimonianza del sergente degli alpini Pagliaro, la cui macchina si vide sul piazzale solo dieci minuti dopo che tutto era finito. O ancora l’affermazione che il fumo del compressore in fiamme sarebbe stato incanalato dentro il tunnel attraverso il tubo di aerazione intossicando gli operai che vi si trovavano all’interno (e foto mostrano tutt’altro e soprattutto non viene mai citato il fumo di lacrimogeni. Evidentemente c’è un fumo ad hoc che intossica, quello dei No Tav). Il gip si è trovata di fronte a una tavola imbandita, ma invece di consumare un intero pasto ha deciso di spiluccare solo quello che le interessava. Ma un processo per terrorismo, quando ballano condanne sui trent’anni, non può essere affrontato come una dieta ipocalorica.
Cosa c’è in ballo
La partita a scacchi non è finita. E quel che più preoccupa è che si cerca in continuazione di cambiare le regole del gioco. A Torino si sta affrontando uno dei processi più delicati e pericolosi degli ultimi anni che potrebbe avere effetti terrificanti nei confronti di chiunque si trovi a una manifestazione per cercare di indirizzare, o come scrive la Cassazione “al limite anche imporre” una decisione diversa al governo. Invece di avere a che fare con una Giustizia super partes, si ha l’impressione di combattere un coagulo di poteri in cui, per quanto le risultanze mostrino un’altra storia e per quanto grottesca possa apparire la ricostruzione dei pm, alla fine si torna sempre al punto di partenza: il terrorismo. Abbiamo la brutta sensazione che il terrorismo ci sia davvero, ma non secondo la definizione che si è diffusa a partire dal ‘900. Assomiglia più a quello originario del ‘700, quando con quella parola s’indicava una pratica di chi governa e non di chi si oppone. Ora la speranza è che la Corte d’Assise, il 17 dicembre, non venga intossicata. Perché il fumo c’è e viene incalanato fin dal primo giorno, ma non è quello del compressore.