L’Italia e l’eterno desiderio di rivalsa autoritaria che rischia di finire fuori controllo
- luglio 29, 2019
- in Editoriale
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La notizia del teenager americano bendato in caserma non è un fenomeno degenerativo degli ultimi anni ma il sintomo di malattie che vengono da lontano.
Lascerei parlare i tweet cancellati e i post su Facebook modificati nelle ultime 48 ore se dovessi tenere una lezione su cosa è il giornalismo e il contesto politico in Italia in questi mesi. L’impressione più potente è che una parte delle élite italiane, da Bruno Vespa a Riccardo Pacifici, abbia deciso di saltare ben oltre il populismo penale per abolire le leggi ordinarie e sospendere de facto lo stato di diritto. Soprattutto quando ci si ritrova con un ministro dell’Interno che difende a spada tratta dei carabinieri accusati – da una foto che sta facendo il giro del mondo – di aver ammanettato e bendato un teenager americano (coinvolto nell’omicidio di un loro collega) come se fossimo nella trama di film sulla Grecia dei colonnelli. Si consolida insomma una sfacciataggine diffusa, un desiderio antidemocratico che può essere rivendicato senza vergogna.
Questo e altri allarmi trovano rispondenza reale in un “paese” che è sembrato sino al marzo del 2018 non vorrei dire nascosto, ma perlomeno capace di concepire un senso del limite nelle sue aspirazioni autoritarie: e che oggi invece chiede apertamente, mettendoci nome e cognome, alle istituzioni di flagellare, torturare, spezzare le reni ai sospettati. La notizia dei “nordafricani assassini” messa in giro chissà come e chissà da chi; l’immagine di Natale Hjorth con gli occhi coperti da un panno in una caserma (“solo per 5 minuti” dicono i militari); l’intervista-monologo di Salvini a Unomattina che sembra uscita da un resoconto di un golpe africano descritto da Kapuscinski, vanno sommati alla vicenda di qualche settimana fa di un gruppo facebook dove i finanzieri parlano di uccidere Carola, i politici del Pd e di colpi di Stato. Riemergono insomma per l’ennesima volta i sedimenti di un’Italia arcaica, mai riformata, che si trasformano, mescolandosi con il desiderio di rivalsa autoritaria, in una “massa di reazione” che rischia di finire fuori controllo.
Ma l’errore principale che possiamo fare è considerare tutti questi come fenomeni degenerativi degli ultimi anni, piuttosto che il sintomo di malattie che vengono da lontano. Come se la Storia dell’autoritarismo italiano fosse iniziata con la Lega, con l’uso becero dei social o, per tornare a una memoria terrorizzante per molti millennial “impegnati” – il G8 di Genova.
Oggi fa certamente venire lo sconforto la mancanza di regole d’ingaggio aggiornate sulla comunicazione della Polizia. Come scrive il reporter Ciro Pellegrino, di Fanpage: “[Esistono] pagine social che condividono presunti identikit e foto di arrestati. Vengono accreditate da chi? Perché hanno così spazio? Perché non ci sono comunicazioni tempestive e ufficiali su temi così delicati? A chi giova la voce incontrollata?”. Sono domande legittime. È in questo contesto che ha luogo il tragico incidente in cui perde la vita il carabiniere Mario Cerciello Rega, di Somma Vesuviana. La sua morte, pur circondata tuttora da numerosi punti d’ombra, ha la sua causa immediata in una conduzione dissennata dell’ordine pubblico a Roma e nelle falle di comunicazione tra vari reparti. Ma la causa più lontana del disastro informazionale e politico che ne è seguito è da situare in una “cultura” dell’ordine pubblico che ha radici antichissime.
È la cultura a cui si rivolgono i “padri della patria” nel secondo Dopoguerra, che ricostruiscono l’istituto delle forze armate modellandolo su codici e codicilli ereditati pari pari dal fascismo. In alcuni casi, addirittura dai tempi di Crispi: come il famigerato “Casellario politico centrale”, che ancora nel 1961 tiene schedate decine di migliaia di sovversivi che andavano dai socialisti acqua e sapone ai sindacalisti meridionali, passando per gli anarchici (solo la “contestazione” dei Sessanta, penetrata nei corpi di polizia come nella chiesa cattolica o nelle caserme, lo farà abolire).
Dagli anni Cinquanta in poi, l’esercito italiano è uno sfogatoio occupazionale per quelle fette di territorio dalla povertà atavica, animate da credenze primordiali e leggi etiche che vengono tramandate da padre in figlio, familiarmente e anche professionalmente. La violenza domestica di cui molti rappresentanti delle forze dell’ordine si rendono protagonisti oggi (lo vedete mai Amore criminale?) nasce anche da questo doppio tormento esistenziale: una perdita crescente di “senso” in società in cui i diritti individuali si sono ampliati a dismisura – includendo anche quelli di minoranze “incongrue” e perquisiti – e dall’altro l’illusione di onnipotenza nella sfera privata. Tra ieri e oggi c’è un nemico comune, per l’eterno ducismo poliziesco: la “propaganda eversiva delle forze politiche di sinistra”, e “lo spirito dissolutore che in tempi di lassismo e confusione ha sempre generato il risorgere dell’anarchia”, per citare una relazione del prefetto di Asti del ‘69.
Ma c’è qualcosa di più che semplice odio (spesso ricambiato), e qualcosa di più profondo che un semplice gioco di cani contro gatti. Per decenni, il “lavoro di cittadinanza” tanto sognato dai discepoli odierni di John Maynard Keynes ha trovato realizzazione, nei paesi dallo sviluppo frenetico, disordinato e violento come l’Italia, mettendo letteralmente un manganello in mano ai disoccupati. Che sarebbero potuti diventare anche futuri anarchici. In una nazione ricostruita da imprenditori in canottiera e senza laurea, lo Stato centrista ha trovato così la quadra per finanziare il “miracolo” e traghettarci verso la globalizzazione degli anni d’oro: chiudendo tutti e due gli occhi sulla repressione padronale.
Così succede spesso che i segmenti sociali in competizione tra loro se le siano menate di santa ragione. Non fanno una grande analisi di classe, gli ultrà negli stadi, quando cantano “la disoccupazione ti ha dato un bel mestiere” rivolgendosi al nemico poliziotto, ma ci consegnano un’analisi lucidissima di quella sorta di “keynesismo di destra” che si è affermato in Italia in certi settori della nostra economia, e che oggi molti guardano come un orizzonte utopico: lo Stato metta la gente a scavare buche, e se proprio non può, gli metta un taser in mano. Deficit è progresso! Deficit è libertà! ripetono i radicalizzati delle teorie economiche eterodosse, con gli occhi spiritati del “commissario” Gian Maria Volontè in quel film di Elio Petri.
Più seriamente, va ricordato anche come la stampa italiana sia prona a farsi dettare i bollettini dalle questure da molti anni prima di Salvini, così come lo è quella dell’India postcoloniale o quella nazionalista britannica che si gasa per la Brexit. Perché, in fondo, un certo “civismo” aggressivo deve passare necessariamente anche per queste fasi di sudditanza dell’informazione, quando farebbe ridere con il passo dell’oca. Ma paralleli tra ieri e oggi si ritrovano anche negli adattamenti goffi delle élite alle domande sociali, quando le manganellate non bastano più: dal 1973 al 1976, il Corriere prova ad ascoltare la sinistra movimentista rinunciando a Montanelli e “aprendo” le sue porte al Pasolini più reazionario, così come dal 2014 al 2018 ospita le paraculate dei giornalisti economici che dopo decenni di fake news in senso montiano adesso diventano tutti grillini: e vai con le notizie approssimative di Federico Fubini sugli incendi in Attica causati dall’austerity ecc.
Va detto che ogni proposta correttiva nella gestione dell’ordine pubblico e del rapporto tra polizia e informazione ha un sapore tristemente “tecnocratico”, come rischia di essere in fondo un po’ tutto l’Illuminismo: vedi l’idea delle telecamere sui caschi, le gabbie di contenimento per manifestanti come già sono in uso in Gran Bretagna, o i numeretti identificativi. Cervantes diceva che la cavalleria era morta con la polvere da sparo, ma forse potremmo risparmiarci lo scontro fisico tra armate corazzate in kevlar e ragazzini con il volto bendato. Fatto sta che qualunque proposta di rendere quello scontro ai giorni nostri più corretto, è respinta in Italia vuoi per lo strapotere dei sindacati più ideologizzati, vuoi per il quieto vivere della politica; che d’altra parte nei Settanta deve fronteggiare una vera e propria guerra civile.
Le va dato atto di averla vinta, anche con se con un prezzo altissimo: il fallimento del “compromesso storico”, il disincanto di aree vastissime del paese, un cinismo generalizzato. Dalla metà dei sessanta ai primi ottanta c’è a dire il vero anche qualche timida riforma: quello stesso movimento studentesco (che sarà liquidato dai nazionalpopulisti nientemeno che come mandante morale della Troika e di Asia Argento) tenta di spiegare, anche con metodi populisti, che una stampa libera e una polizia sotto controllo sarebbero nell’interesse della stessa borghesia moderata.
Ma una borghesia moderata in Italia non c’è mai stata, e così quel movimento viene accolto prima con le calunnie (anche del Pci) poi a suon di botte e poi con le bombe: solo allora, dal 1969 in poi, si converte da un lato alla violenza e dall’altro a forme di Autonomia che – attenzione – non sono radicate in Derrida quanto nella ottusa chiusura delle nostre istituzioni. Che d’altra parte possono giustificarsi spiegando di essere rappresentative di un paese contadino cresciuto troppo in fretta.
Fanno impressione, ascoltate oggi, le parole di rara irresponsabilità del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1969, quando durante una manifestazione operaia muore un altro figlio del Meridione, Antonio Annarumma di Monforte Irpino, agente di polizia. Per ventiquattr’ore il viene ripetuto in tutti i telegiornali il suo appello contro il “barbaro assassinio” e l’invito a “mettere in condizione di non nuocere i delinquenti”. Fanno contrasto le parole del padre di Annarumma per chi gli ha ucciso il figlio, durante una carica ingiustificata: “ha perdonato Gesù Cristo, perdono anch’io”, dice in dialetto stretto. Come avrete capito, la mia non è la ricostruzione di un fattaccio di cronaca, ma della cornice di violenta impunità che accompagna la sua strumentalizzazione. Se non ci mettiamo mano, la bomba della borghesia declassata e avvelenata scoppierà davvero.
Paolo Mossetti
da Esquire
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La questione riguarda la tutela della dignità: diffondere un’immagine di un presunto assassino con mani legate e volto bendato è legittimo? Lo chiediamo a Carlo Alberto Romano presidente dell’associazione carcere e territorio di Brescia. Ascolta o Scarica.
Sulla vicenda, in particolare l’utilizzo politico da parte dei media che inizialmente hanno attrbuito l’omicidio a “due nordafricani” abbiamo sentito Italo di Sabato, dell’Osservatorio Repressione, autore di un articolo pubblicato sul tema. Ascolta o scarica
Il commento di Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio detenzione dell’Associazione Antigone che denuncia due suicidi in due giorni nelle carceri italiane, con una proposta per prevenire questo fenomeno permettendo ai detenuti maggiori contatti telefonici con i famigliari e garantendo il diritto all’affettività; l’esponente di Antigone commenta poi per la nostra Radio il trattamento riservato al giovane statunitense accusato per l’omicidio del carabiniere a Roma Ascolta o scarica