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Livorno: in piazza con i familiari delle vittime dello Stato

Una città mezza vuota, pareva Livorno, al passaggio del corteo delle madri, donne con una rosa in una mano e l’altra a tenere lo striscione con le foto dei loro figli, «uccisi dallo Stato». Qualcuno ha “consigliato” i bottegai a restare chiusi. Qualcuno le ha osservate passare, chiuse tra cordoni di polizie, dall’alto di un marciapiede. «Anche noi fino a ieri eravamo sul marciapiede», dirà Ornella, ferita da quella distanza. Ornella è la madre di Niki Aprile Gatti, un ventiseienne di Avezzano arrestato per truffa informatica e quattro giorni dopo trovato morto in una cella di Sollicciano. Poche ore prima aveva dichiarato di voler collaborare alle indagini. Era il 28 giugno di due anni fa. Ornella si batte contro l’archiviazione. Si batte da sola. Tutte le madri alla testa delle mille persone in corteo possono raccontare una solitudine che le assedia da quando sono state costrette a scendere quel marciapiede. Maria è “scesa” dal 25 luglio 2008, da quando il suo Manuel Eliantonio è stato ucciso dalla detenzione a Marassi. Manuel aveva scritto a casa, alle sue «bamboline», che lo stavano ammazzando di botte e riempiendo di psicofarmaci. Doveva uscire pochi giorni dopo ma l’hanno trovato morto – inalazione da butano, si dice, ma il corpo è irriconoscibile – e il giudice giura di non riuscire a decifrare la scrittura di Manuel. Così Maria gliel’ha copiata quella lettera a caratteri cubitali. Anche in questo caso Maria ha resistito già a due tentativi di archiviazione.
Il corteo si snoda con le Reti meno invisibili (Haidi Giuliani, la mamma di Carlo e Maria Iannucci, la sorella di Iaio) lontane dalla testa e le Madri per Roma Città Aperta nate su impulso di Stefania Zuccari, la mamma di Renato Biagetti. E poi centri sociali, antiproibizionisti pisani, antifascisti che chiedono la libertà dei sette arrestati senza prove a Pistoia, anarchici, gente di Rifondazione e di Sinistra critica. Micropolemica per un simbolo del Prc su uno striscione: s’era detto di non portare bandiere e di non gradire passerelle di politici ma a molti è sembrata ghettizzante questa paura della politica. Haidi spiegherà dal microfono che non bisogna aver paura di organizzarsi e di incontrare altre forze organizzate. Il rischio è depotenziare «la critica radicalissima alla repressione – spiega Giovanni Russo Spena della direzione nazionale Prc – che scaturisce da questo primo incontro delle madri».
La famiglia di Bledar Vukai lotta da sette anni contro l’idea che il loro ragazzo, 21 anni, talento del football americano, si sia suicidato buttandosi giù da un ponte di 18 metri vicino Cremona. Anche i loro conti non tornano: il corpo non s’è sfracellato ma è pieno di lividi strani, come se li avesse causati – sostengono – una pistola elettrica. E’ morto dopo un’agonia di quattr’ore senza che un medico, dicono i genitori, gli si avvicinasse. Era uscito dal salumificio in cui lavorava e s’era trovato in mezzo a un incidente stradale di poco conto. Forse era stato inseguito dall’altra vettura, i verbali dei carabinieri non convincono. Claudio e Ida sono fratello e sorella di Stefano Frapporti, vengono da Rovereto assieme a parecchi manifestanti. Stefano aveva 49 anni, 32 dei quali passati in cantiere. Quella sera tornava in bici dal lavoro. E’ passato col rosso, pare, e i carabinieri in borghese l’hanno fermato. Stefano non ha niente addosso. Ma un verbale dice che avrebbe invitato l’Arma a casa per sequestrare due canne che aveva. Una strana perquisizione, «accurata» ma che non ha lasciato nulla fuori posto, scoverà cento grammi suppergiù di hashish, un po’ in una scarpiera, un po’ in qualche cassetto. I cento euro che aveva in tasca sarebbero, per i carabinieri il provento dello spaccio. Lo scontrino di un bancomat li smentisce. Alle 19 il fermo, alle 20 la convalida dell’arresto, alle 21.30 entra in carcere. Poco prima di mezzanotte è già morto. Per il pm è tutto normale, avrebbe avuto un’indole da suicida. Anche questa storia continua contro l’archiviazione.
La ginnastica deviata di certi apparati dello Stato è denunciata dagli striscioni e dai volantini che ciascuno ha portato a Livorno rispondendo all’appello di Maria, la madre di Marcellino Lonzi. A sette anni quasi da quell’undici luglio che ha stravolto la sua vita, Maria si batte ancora perché un processo pubblico spieghi cosa c’entra quel corpo massacrato in carcere con le cause naturali spacciate dalla versione ufficiale. C’è l’ultima perizia ma il pm non gliel’ha voluta dare prima del corteo.
Qualcuno ha dalla sua una vicenda giudiziaria più normale: a 80 anni Duilio Rasman marcia col bastone. Suo figlio, in cura al dipartimento di salute mentale da quando era tornato dal servizio militare, morì soffocato nell’irruzione in casa di quattro agenti. Era l’ottobre 2007. Più tardi un processo condannerà in primo grado i quattro a sei mesi per omicidio colposo. Duilio lo sa che non è finita qui, a marzo si va in appello. E se gli chiedi se sei mesi non gli sembrino pochi ti dice che «la risposta più grande è aver superato l’insabbiamento». Però nessuno mai gli ha chiesto scusa. Il sindaco di Trieste, la sua città, gli disse: «Ma cosa vuole, che venga a piangere sulla tomba di suo figlio?». Sua moglie da allora «piange ad alta voce, giorno e notte, che si lamentano i vicini». Anche loro sono ancora su quel marciapiedi. Mario Comuzzi anche arriva da Trieste. Suo figlio Giulio, 24 anni, pianista, perito informatico, in cura al Dsm, precipita da un tetto il 28 febbraio del 2007: «Una morte bianca insabbiata dal Dsm», dice lui e sul suo sito denuncia un sistema che in città punterebbe all’interdizione di migliaia di cittadini.
«Sono problemi di tutti – dice al microfono un militante del circolo operaio di Rovereto – non si può far finta di nulla». Ma la gente resta quasi tutta sul marciapiede. Le madri cercheranno insieme di capire perché.

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