Vincere le elezioni non basta, perché non consente di rimuovere dal loro posto autorità locali che si sono impegnate a lungo per minare la democrazia. Per questo è importante la resistenza diretta
Lo scorso agosto, mentre le rivolte successive all’uccisione poliziesca di George Floyd continuavano a diffondersi negli Stati uniti, la senatrice dello stato del Virginia Louise Lucas si è vista recapitare una denuncia penale relativa al reato di danneggiamento di un monumento confederato nella città di Portsmouth. La polizia si è servita di una legge, di rara applicazione, relativa allo sfregio dei memoriali di guerra ed è arrivata al punto di indicare come possibile testimone la procuratrice distrettuale della città, Stephanie Morales, che pertanto sarebbe stata obbligata a ritirarsi dal caso in quanto persona informata dei fatti.
Questa vicenda, che vede due persone nere con cariche istituzionali messe sotto accusa da poliziotti bianchi, è finita sulle prime pagine nazionali e nella sua paradossalità illumina un problema assai diffuso: la volontà dei dipartimenti di polizia di interferire nella politica locale, talvolta con evidente indifferenza nei riguardi di quei funzionari eletti che sarebbero, in teoria, i loro responsabili. In un periodo in cui democratici e socialisti si affermano nelle urne elettorali, mentre si diffondono critiche contro uno stato sempre più carcerario, queste dinamiche pongono agli attivisti di sinistra domande problematiche.
Il problema non è nuovo e non sono solo i progressisti a dover affrontare tale dilemma. Il giornalista Jake Blumgart ha parlato con funzionari eletti di tutto il paese che hanno riferito atti di intimidazione nei confronti di quanti, tra loro, hanno provato a mettere in discussione il potere della polizia. Ad esempio, nella città di Costa Mesa, in California, un consigliere della giunta comunale, il repubblicano Jim Righeimer, ha raccontato di essere stato pedinato e minacciato da un investigatore privato che lavorava per un sindacato della polizia.
Le rivolte del 2020, nel contesto dell’atmosfera dell’America degli anni di Trump, hanno incoraggiato questo tipo di attività. Nello Utah il senatore Derek Kitchen è stato indagato con l’accusa di aver contribuito a pagare la vernice con cui alcuni manifestanti hanno fatto delle scritte sulla strada adiacente all’ufficio del procuratore distrettuale.
Fino ai nostri giorni i procuratori distrettuali erano in gran parte schierati dal lato della polizia e in genere hanno alle loro spalle una carriera come pubblici ministeri. Ma quando hanno cominciato a essere eletti procuratori democratici, la polizia ha rivolto la propria ostilità anche contro di loro. A Portland, nell’Oregon, ormai un punto nevralgico per le proteste e la repressione, la polizia ha espresso la propria rabbia contro il procuratore distrettuale Mike Schmidt, da poco eletto, accusato di non essere stato rigido nella persecuzione dei manifestanti. Pare che un poliziotto l’abbia definito «antifa» e «pagato da Soros». Altre tattiche sono meno appariscenti ma forse anche più efficaci. A Minneapolis Steve Fletcher, un consigliere comunale che aveva sostenuto la necessità di tagliare i fondi alle forze dell’ordine, ha accusato la polizia di arrivare sul posto sistematicamente in ritardo quando riceve una chiamata dalla sua circoscrizione elettorale, rallentando in maniera deliberata gli interventi sollecitati per telefono dai cittadini. Simili ritardi si sono verificati spesso a New York, come tattica di pressione della polizia contro il sindaco Bill De Blasio.
In alcuni casi la polizia cerca di far uso di un presunto sostegno pubblico per minare la legittimità dei pubblici ufficiali che criticano le forze dell’ordine. Sarah Salem, consigliera comunale della città di Poughkeepsie, nello stato di New York, è stata attaccata da un sindacato di polizia che ha chiesto al governatore di rimuoverla dal suo seggio per presunti pregiudizi contro la polizia.
Tutto ciò solleva una domanda inquietante per quelli di noi che sostengono la necessità di tagliare i fondi locali alla polizia. Le nostre richieste sono indirizzate a sindaci, consigli comunali e legislatori, che apparentemente sono i superiori dei poliziotti. Ma questa ipotetica relazione di autorità spesso risulta non essere effettiva nella realtà di tutti i giorni, dal momento che i funzionari eletti o agiscono come se la loro posizione fosse subordinata alla polizia, oppure sono esposti a rappresaglie per aver tentato di esercitare il diritto di supervisione sulle forze dell’ordine.
In ogni caso è difficile decifrare se la polizia stia esercitando un potere indipendente sulle autorità governative elette o stia semplicemente fornendo un alibi ai politici. Ad esempio, il sindaco De Blasio ha risparmiato la polizia di New York dai tagli del suo bilancio di austerity post-pandemia. Tutto questo nonostante la polizia lo abbia spesso attaccato pubblicamente in forme abbastanza bizzarre, fino al punto di aver diffuso informazioni riservate sull’arresto della figlia venticinquenne del sindaco durante una manifestazione. Il sindaco di New York non ha tagliato i fondi perché ha paura della polizia, o perché la polizia è un elemento indispensabile della strategia di governo preferita dai suoi grandi finanziatori, che sono perlopiù imprenditori immobiliari?
Forse è più utile pensare alla polizia come a una forma particolarmente visibile e relativamente autonoma della gestione locale del capitalismo. Nell’era di Trump sono salite alla ribalta le teorie del complotto di destra che evocano uno «stato profondo». Secondo queste tesi, esisterebbe una rete di efferati funzionari che lavorano in maniera permanente all’interno della burocrazia del governo, impegnati a minare l’attività del presidente Trump. Queste assurde fantasie dei sostenitori di Trump si possono respingere facilmente, ma è vero che la reale struttura istituzionale ha una continuità che va oltre l’avvicendarsi dei governi eletti.
Questa sorta di «stato profondo» esiste davvero, ma non va cercato nell’ombra dei corridoi nascosti del governo federale, quanto piuttosto nelle amministrazioni locali, dove l’impegno degli elettori è minimo e l’attenzione della stampa, lontano dalle grandi città, è scarsa. La polizia, assieme agli interessi di burocrati e uomini d’affari, è parte essenziale di questo apparato di potere.
Le connessioni tra polizia e capitalisti locali sono state spesso messe in evidenza dalla letteratura della radical urban theory. In particolare l’analisi marxista della gentrificazione ha mostrato come le politiche locali tendono a seguire i flussi del capitale immobiliare, con la polizia che ha il compito di far apparire sicura la città agli occhi dei residenti che i proprietari immobiliari cercano di attrarre.
Che significato può avere tutto questo per una sinistra che voglia provare a ottenere il potere, soprattutto a livello locale? I dibattiti sulla strategia socialista di solito si concentrano sulla questione di come e se impegnarsi all’interno dello stato, soprattutto attraverso le politiche elettorali. Questi dibattiti spesso si basano sull’idea, data talvolta per scontata, che si possano individuare le situazioni in cui la democrazia elettorale ha un carattere borghese e quelle in cui non ce l’ha. In questo caso i socialisti orientati all’azione elettorale sostengono generalmente che la sinistra debba far concorrere i propri candidati cercando di ottenere il potere attraverso le urne elettorali, anche se molti dubitano che si possano introdurre sostanziali riforme socialiste in un sistema che non ha estirpato alla base le relazioni di proprietà del capitalismo.
L’esistenza di uno «stato di polizia profondo» complica in certo modo questa narrativa. Cosa possiamo fare se esistono istituzioni che non rendono conto alle autorità elette, che attirano su di sé il sostegno dei capitalisti locali e detengono il monopolio dell’uso della violenza sanzionato dallo stato? Abbandonare il terreno elettorale non sarebbe consigliabile, dato che una strategia esplicitamente extra-parlamentare sarebbe facilmente isolata.
Dobbiamo quindi prepararci alla possibilità che un socialismo elettorale possa essere destituito non solo da grandi colpi di stato a livello nazionale, come quello che sconfisse Salvador Allende in Cile, ma anche da dozzine di meno evidenti piccoli Pinochet, sostenuti da capitalisti locali. Vincere le elezioni non basterà a rimuovere dal loro posto autorità locali che si stanno impegnando a minare la democrazia. Per questo è così importante la resistenza diretta, realizzata anche attraverso manifestazioni di protesta e altre mobilitazioni non elettorali. Questo non perché la polizia possa essere «sconfitta» in senso militare, ma perché il suo potere dipende, più che dalle pistole, dalla legittimazione popolare.
Nei mesi successivi all’assassinio di George Floyd i sondaggi hanno mostrato un marcato spostamento dell’opinione pubblica: ampie maggioranze sostenevano che la morte di Floyd fosse un indice di problemi più vasti all’interno delle forze dell’ordine. Questa posizione era però minoritaria nel 2014, all’epoca in cui furono uccisi Mike Brown e Eric Garner. Ma nel corso del 2020 i sondaggi hanno rilevato uno slittamento del consenso riguardo a queste problematiche. La precarietà delle opinioni dimostra che la legittimità della polizia può essere indebolita dai movimenti sociali e non deve essere data per scontata come un fatto immutabile.
Mentre sto scrivendo queste righe, l’incertezza sulle elezioni del 2020 rende ancora più urgente il fatto di fronteggiare il potere della polizia. Mentre la destra cerca di instillare dubbi sulla legittimità di una eventuale sconfitta di Trump, si profila la possibilità che sarà necessaria una resistenza di massa per forzare il trasferimento di potere che di solito le elezioni garantiscono ordinariamente. La polizia, coi suoi sindacati schierati dalla parte di Donald Trump, sarà un fattore importante in ogni strategia reazionaria volta a conservare il potere, soprattutto se si considera che è sempre più apertamente coordinata con milizie private di estrema destra.
Combattere il potere della polizia non rappresenta una forma alternativa alla conquista delle cariche elettive né all’introduzione di cambiamenti strutturali nel sistema di relazioni private del capitalismo. Può essere piuttosto una condizione necessaria per realizzare entrambi questi scopi.
Peter Frase – membro del comitato editoriale di Jacobin. Ha conseguito un PhD in sociologia, e scrive su In These Times e Al Jazeera. Ha pubblicato Quattro modelli di futuro (Treccani, 2019).
Traduzione a cura di Alberto Prunetti.