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Lo sciopero della fame: un atto politico di resistenza

in memoria di Bobby Sands, Patsy O’Hara, Juan Jose’ Crespo, Jose’ Manuel Sevillano, Barry Horne, Feride Harman, Helin Bolek, Ebru Timtik …e  tutti gli altri

Quaranta anni fa – nel 1981 – in Irlanda del Nord morivano in sciopero della fame Bobby Sands e altri nove prigionieri repubblicani irlandesi. Nello stesso periodo e nell’identico modo perdeva la vita in una prigione spagnola il militante dei Grapo Juan José Crespo Galende, basco.

Venti anni fa, nel 2001, toccava a Barry Horne – anarchico antispecista dell’ALF – per le conseguenze di alcuni lunghi scioperi della fame.

Niente di nuovo per l’Eire.

Prima e dopo di loro – e via via fino ai nostri giorni –  tanti altri prigionieri politici si sono incamminati – immolandosi – su quel sentiero senza ritorno. Se la storia delle rivolte irlandesi era già costellata di scioperi della fame fino alle estreme conseguenze, negli ultimi anni il maggior numero di vittime è costituito da esponenti della sinistra rivoluzionaria turca e curda. Senza dimenticare tutti quei prigionieri baschi (etarras ma non solo) e dei Grapo che – sottoposti all’alimentazione forzata – sopravvissero, ma rimanendone devastati fisicamente e psicologicamente.

Per la mia generazione il primo caso eclatante (ben oltre i digiuni, più che altro simbolici, di qualche pacifista o radicale) era stato quello di Holger Meins, morto a 33 anni nel carcere di Wittlich.

Il militante della Raf tedesca (nome di battaglia Starbuck) era già noto e apprezzato come artista, fotografo e cineoperatore. Arrestato nel giugno del 1972,  al momento del decesso (9 novembre 1974) pesava meno di 45 chili (misurava un metro e novanta di altezza). Era in sciopero della fame da circa due mesi per protestare contro le condizioni in cui versavano i detenuti politici e la morte sarebbe dovuta alle lesioni interne provocate dall’uso di una cannula per l’alimentazione forzata con le stesse dimensioni del tubo digerente.

Un passo indietro.

Raramente – penso – la tragica morte di un rivoluzionario è stata altrettanto “spettacolarizzata”, mercificata, strumentalizzata…quanto quella di Bobby Sands.

Più di lui, soltanto Ernesto Guevara de la Serna.

Tentativi di strumentalizzazione a volte ignobili (vedi il “sidro Bobby Sands” commercializzato da Casa Pound di Bozen), a volte solamente squallidi. Come un ambiguo sito  dove gli articoli sull’Irlanda e sul Movimento repubblicano si mischiavano con interventi compiacenti nei riguardi di personaggi come Giusva Fioravanti (interviste e lettere comprese). Alimentando quella sovrapposizione tra destra e sinistra già propagandata dai nazi-maoisti di  Lotta di popolo e da Terza Posizione. In questo caso, tra l’ esaltata “azione” dei NAR – sostanzialmente una squadra della morte analoga a quelle lealiste UVF e UFF o a quelle antibasche tipo GAL – e la lotta di liberazione dei Repubblicani irlandesi. Ma su questi tentativi di mistificazione da parte della Destra (compresa quella rosso-bruna) sono già intervenuto fin troppo direi. *

Ammetto invece di aver sottovalutato un altro genere di strumentalizzazione. Anzi, di appropriazione indebita. Da parte dei soliti intellettuali di estrazione borghese che mentre beatificavano Sands e compagni, contemporaneamente di fatto ne mascheravano (tradivano?)  l’identità sociale. Come lo stesso Sands ricordava, gli hunger strikers del 1981 provenivano tutti dalla working class. In senso lato ovviamente: anche un giovane disoccupato del Bogside o di Falls road resta comunque “classe operaia”. Proletariato diciamo.

Ma questo non emerge quasi mai (se non in forma di compiacente, aristocratico paternalismo) dagli articoli e dai volumi prodotti- a  scadenza regolare, praticamente ad ogni anniversario –  da tali personaggi. I quali, per inciso, magari in contemporanea ci riservano entusiastiche recensioni di libri come il fuorviante, mistificante “Patria” di Fernando Aramburu, oggetto di elogi sperticati e sproporzionati. Qualche demente si era spinto fino al punto di definirlo la “versione basca di Delitto e castigo”. Direi piuttosto che ricorda quella miriade di  romanzetti gialli, di produzione inglese, dove i militanti dell’Ira venivano rappresentati come frustrati e psicopatici (per approfondire l’argomento, vedi l’intervista a Gerry Adams su “Tutti i colori del verde sotto un cielo di piombo” ed. Scantabauchi).

Capisco che scrivere sulla stampa cattolica (comunque ben disposta, comprensiva verso i correligionari irlandesi) o “revisionista” (in senso lato) implica qualche compromesso e qualche rimozione. Ma non comprendo come si possa  accettare senza una piega la criminalizzare degli etarras, dei prigionieri politici baschi dopo aver santificato i provisionals, i prigionieri repubblicani…

Misteri della fede?

Una precisazione. Ovviamente occorre distinguere. Ci sono borghesi e borghesi. Da un lato i Giampaolo Pansa, dall’altro, per citarne un paio, i fratelli Rosselli.

Per esempio. Nonostante abbia preso qualche cantonata (presumo per ingenuità) consentendo a una ex esponente di Terza Posizione di presentare – pubblicamnte in sede prestigiosa – la biografia di Bobby Sands, una brava giornalista e scrittrice vicentina si era già guadagnata i galloni sul campo. Sia andando a indagare sulle violazioni dei Diritti umani in Irlanda in tempi non sospetti (ancora nel 1982), sia – per dirne una – partecipando alla manifestazione del 1984 in cui venne ucciso Sean Downes (e continuando a fotografare anche durante il micidiale assalto della RUC).

1981: IL MONDO ASSISTE ATTONITO AL MARTIRIO DI DIECI RIVOLUZIONARI IRLANDESI

La morte di Bobby Sands nel 1981 ha rappresentato per molte persone, più giovani, di mia conoscenza un evento di quelli che ti segnano, ti cambiano se non proprio la vita, almeno la percezione della stessa (oltre che della Storia, della politica…).

Per chi scrive le cose andarono altrimenti. Dopo una militanza iniziata nel 68, grossomodo, ritenevo di aver concluso il mio impegno (per stanchezza esistenziale, sensazione di impossibilità nel cambiare le cose, riflusso…fate voi) con le manifestazioni, talvolta dure, a cui avevo partecipato nel 1974 (esecuzione di Puig Antich) e nel 1975 (vedi le proteste per l’uccisione di Varalli, Zibecchi, Boschi e Micciché e, in settembre, per la fucilazione di due etarra – Txiki e Otaegi -e di tre militanti del FRAP). Per qualche anno mi dedicai ad altro, pur mantenendo un interesse, una curiosità per quello che nel mondo si muoveva e agitava (con qualche incursione nella Spagna post-franchista, per esempio…). Poi era arrivato lo sciopero della fame dei militanti repubblicani e il tragico epilogo. Piantai tutto (quasitutto, a dire il vero) e partii per Belfast. Da allora sostanzialmente ho continuato, bene o male. Colpa sua, di Bobby. E accidenti a lui che potrebbe essere ancora al mondo. Era infatti più giovane di me e la cosa mi colpì molto (fino ad allora erano stati soprattutto compagni miei coetanei a morire: Salvador Puig Antich, Saltarelli, Franco Serantini, Txiki…). A distanza di tanti anni, visto anche come poi sono andate le cose in Irlanda, mi chiedo se ne valesse veramente la pena. Ma questo non toglie nulla al suo coraggio, al suo autentico eroismo e a quelli dei suoi nove compagni.

Un breve riepilogo, per non dimenticare che comunque “la vita è breve, usiamola per calpestare i tiranni” (cito a memoria).

Sembra soltanto ieri e invece sono passati quasi 40 anni. Sotto gli occhi attoniti di una vecchia Europa sazia e soddisfatta, 10 giovani repubblicani irlandesi sacrificavano la loro vita per rivendicare diritti inalienabili come quello dell’autodeterminazione e per il riconoscimento dello status di prigioniero politico per chi viene incarcerato nel corso di una guerra di liberazione.

Lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze fa parte della tradizione celtica irlandese. Ma quello condotto con estrema determinazione dai prigionieri degli H Block, più che un esplicito richiamo al diritto tradizionale gaelico e alle leggi druidiche, rappresentava un atto prettamente politico all’interno di un processo collettivo di liberazione.

Sono oltre una ventina i detenuti politici irlandesi morti nel secolo scorso in sciopero della fame.

Il primo di questa lista è Thomas Ashe, uno dei protagonisti della “Pasqua di Sangue” dublinese del 1916, morto nel 1917 dopo essere stato costretto a ingerire cibo per forza. Nel 1920 moriva Terence McSweeney, sindaco di Cork, detenuto

nel carcere di Brixton (Londra), dopo 74 giorni di sciopero della fame. Nel corso della medesima protesta morirono anche Fitzgerald Michael e Murphy Joseph. Nel 1923, durante la vera e propria guerra civile tra l’Ira e i sostenitori dello

“Stato Libero”, disposti ad accettare la divisione dell’isola, nel carcere irlandese di Montioy persero la vita dopo oltre 40 giorni di sciopero della fame Andrew Sulli-van e Dennis Barry.

Sempre in Irlanda, nel carcere di Arbour Hill, nel 1940 morirono dopo 50 giorni di sciopero della fame Jack McNeela e Tony d’Arcy. In un altro carcere irlandese la stessa sorte toccò a Joseph Witty. Nel 1943, dopo 31 giorni di sciopero della fame e della sete, si spegneva nel carcere di Dublino il volontario dell’Ira Sean Mc Caughey.

All’inizio degli anni Settanta la situazione in Irlanda del Nord precipita: il 6 febbraio 1971 l’Ira uccide un soldato inglese (vittima che va ad aggiungersi ai soldati già uccisi nel 1969 dai cecchini protestanti) e la reazione non tarda; il 9 agosto dello stesso anno viene introdotto l’internamento a tempo indeterminato (quella stessa mattina 342 uomini, in prevalenza cattolici, furono arrestati) durante il quale sarà regolarmente impiegata la tortura fisica.

Si intensificano gli scontri di strada e il 30 gennaio 1972 le truppe inglesi massacrano tredici persone inermi a Derry (“domenica di sangue”).

Due mesi dopo Londra riprende in mano direttamente l’amministrazione dell’Ulster e “concede” ai detenuti repubblicani lo status di prigionieri politici. Ma la pressione giudiziaria si fa sempre più pesante. Nel 1973 vengono introdotti

i tribunali speciali, senza giuria, e nel 1974, con l’introduzione del “Prevention of terrorism act”, il fermo di Polizia viene portato a sette giorni. Nel periodo immediatamente successivo lo sciopero della fame provoca altre due vittime nelle carceri inglesi: Michael Gaugham nel 1974 e Frank Staff nel 1976.

Intanto era stato revocato lo status di prigioniero politico.

Il 27 ottobre del 1980 inizia negli H Block del carcere di Long Kesh (soprannominato “Maze”) uno sciopero della fame che, dopo essere stato sospeso a Natale e ripreso il 1 marzo 1981, porterà alla morte di 10 militanti repubblicani. Che i loro nomi possano vivere per sempre nella mente, nel cuore e nelle lotte di tutti gli oppressi e sfruttati del mondo. Più forti della morte.

La mattina del 5 maggio 1981, dopo 66 giorni, muore Robert Gerard Sands. Nato a Belfast nel 1954 da madre cattolica e padre protestante, era entrato nell’Ira a soli 18 anni. Quando morì ne aveva 27. Oggi Bobby è sepolto a Milltown, il cimitero cattolico di Belfast-Ovest, posto lungo le “Falls” (Falls Road), la famosa arteria repubblicana. Qui riposano molti martiri della causa irlandese: combattenti come Bobby Sands e Joe McDonnel o semplici cittadini assassinati dalla Polizia come Sean Downes. Ricordo che il 16 marzo 1988 Milltown fu teatro di una brutale aggressione armata da parte di un fanatico lealista (miliziano filobritannico), conclusasi con una strage di cattolici, ai danni di un corteo funebre.

Il 14 maggio, dopo 59 giorni di sciopero, muore Francis Hughes, di 25 anni. Soprannominato “il Che Guevara dell’Ulster”, nel ’78 era stato arrestato e condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso otto soldati inglesi.

Raimond McCreesh muore il 21 maggio, dopo 61 giorni. Entrato nell’Ira a soli 16 anni, fu arrestato nel ’76 dopo un’imboscata contro l’esercito. Quando morì aveva 24 anni ed espresse al fratello sacerdote che l’assisteva il desiderio che la sua morte non provocasse alcuna violenza. Patsy O’Hara si era staccato dall’Ira e unito, nel 1975, all’Inla (Irish NationalLiberation Army) di Derry. Dopo l’arresto subì in carcere ogni tipo di violenza fisica e psichica. Morì il 21 maggio all’età di 24 anni. Nel 2015 anche sua madre, Peggy O’Hara, se n’era andata per sempre. L’avevo conosciuta e visitata a casa sua, a Derry, in un paio di occasioni. Mi ha lasciato, oltre a una drammatica intervista** dove raccontava quei giorni di immenso dolore, anche alcune foto del figlio e una toccante dedica sul libro che mi aveva regalato (“The irish Hunger Strike” di T. Collins).

E nel 2018, in gennaio, è morta la mamma di Bobby Sands, Rosaleen.

L’8 luglio 1981, dopo 61 giorni di astensione dal cibo, moriva Joe McDonnel, membro dell’Ira di Belfast e il più anziano del gruppo. Fra i compagni che sostituirono i primi quattro morti toccò a lui sostituire Bobby Sands, insieme al quale era stato arrestato e con cui oggi è sepolto. Martin Hurson era stato arrestato nel novembre del ’76 per cospirazione e detenzione di esplosivi. Portato a Long

Kesh, venne interrogato e torturato. Morì il 13 luglio, a 24 anni, dopo 46 giorni di sciopero della fame.

Kevin Lynch, militante dell’Inla, fu arrestato nel ’76 in seguito all’uccisione di un poliziotto, venne torturato e condannato a dieci anni, Iniziò lo sciopero della fame il 23 maggio e morì il 21 agosto, all’età di 25 anni.

Kieran Doherty, già attivissimo militante dell’Ira, durante lo sciopero della fame svolse un ruolo di leader, riconosciutogli dagli altri detenuti, soprattutto nei contatti con la Chiesa. Morì il 2 agosto, a 25 anni, dopo essere riuscito a sopravvivere senza cibo per 73 giorni. Thomas McIlwee, esponente dell’Ira, passò la maggior parte della sua prigionia nel blocco di punizione. Quando morì, dopo 62 giorni di sciopero della fame, aveva solo 23 anni.

Emblematica la vita di Micki Devine. Vissuto fin da bambino in condizioni di estrema povertà (raccontò di aver spesso patito la fame), fu uno dei primi membri dell’Inla di Derry. Iniziò lo sciopero della fame a metà giugno e morì il

20 agosto, a 27 anni. Altri due prigionieri vennero salvati quando ormai erano in coma. Uno di loro, Pat McGeown, è morto nel 1994. L’altro, Lawrence McKeown, scrittore e conferenziere, è rimasto segnato a livello fisico.

Ho avuto l’onore di incontrare (e ospitare a casa mia) McKeown negli anni novanta durante un giro di conferenze. Naturalmente gli chiesi dove avesse trovato la determinazione per aggiungere anche il suo nome alla lista dei volontari che avrebbero dovuto sostituire i compagni morti durante la protesta. «È praticamente impossibile – mi aveva detto – capire perché siamo arrivati a questa decisione senza conoscere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti, dopo che ci era statotolto lo status di prigionieri di guerra. Le condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava in grado di modificarle. Eravamo tutti molto giovani, tra i 20 e i 30 anni. La maggior parte quando erano entrati in carcere erano poco più che adolescenti. Tra di noi c’era molta unione, molta solidarietà e forti convinzioni politiche, le stesse che mi avevano portato a entrare nell’Ira, ben sapendo che la prospettiva della prigione e della morte era tutt’altro che remota.

Vedere con i miei occhi la dura repressione subita dai detenuti non ha fatto altro che rafforzare le mie convinzioni. Il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarci, di farci apparire come delinquenti comuni. Dovevamo ribellarci per dimostrare che le nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali». Aveva poi aggiunto che «molti volontari dell’Ira prigionieri sono morti in sciope-ro della fame negli anni Venti, Quaranta, Settanta… E così via fino al 1981. In tutto i detenuti politici irlandesi morti durante uno sciopero della fame negli ultimi 80 anni sono 22. Di tutti loro possiamo dire che sono “Morti perché altri fossero liberi” (come è scritto sulla tomba di Micky Devine e Patsy O’Hara, a Derry nda).

Anche lo status di prigioniero politico era stato ottenuto, nel 1972, con uno sciopero della fame. Venne poi ritirato nel 1976».

La loro decisione quindi non fu certo presa alla leggera. «Per quanto mi riguarda – proseguiva McKeown – ero ben consapevole che questo sciopero sarebbe stato portato fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno; chi sarebbe morto e chi sarebbe sopravvissuto. Avevo pensato molto a quali sarebbero state le conseguenze per la mia famiglia… Io ero sposato ma almeno non avevo figli, diversamente da altri volontari, come Bobby Sands…».

Le richieste fondamentali degli scioperanti di Long Kesh erano cinque, strettamente collegate alla rivendicazione dello status di prigionieri politici: non in-dossare uniformi carcerarie, non svolgere lavori penali, libertà di studio e associazione,

possibilità di ricevere visite e pacchi, diritto alla riduzione della pena. Tali richieste, anche se in maniera non plateale e senza la reintroduzione formale dello status di prigioniero politico, vennero poi ricono-sciute e soddisfatte nella sostanza.

Ai primi di novembre del 1981, infatti, dopo la fine dello sciopero della fame, il ministro Prior presentava le sue riforme carcerarie che comportavano per i detenuti repubblicani del “Maze” il permesso di indossare i propri vestiti, la possibilità di beneficiare della riduzione della pena ecc. Niente altro da aggiungere che non sia già stato detto dai diretti interessati con il loro gesto così radicale e definitivo.

Per quanto mi riguarda: «In qualunque luogo mi sorprenda la Morte, seppellite il mio cuore a Milltown».

JUAN JOSE’ CRESPO GALENDE (Kepa): UN COMUNISTA BASCO  (19 giugno 1981)

Allo sciopero della fame dell’inverno e della primavera del 1981 (contro i maltrattamenti, le torture e il regime di isolamento totale – incomunicacion absoluta – utilizzato nel carcere di massima sicurezza di Herrera de la Mancha) aderirono inizialmente diversi detenuti, sia di ETA che dei Grapo. Nonostante in seguito alcuni avessero via via rinunciato (anche, va detto, per non subire l’alimentazione forzata e questo spiega in parte la differenza di comportamento con i prigionieri irlandesi) verso la metà di maggio 1981 i detenuti in huelga de hambre erano ancora circa una sessantina.

Crespo, un comunista basco originario Las Karreras (Bizkaia), era stato arrestato nel settembre del 1979 e condannato a 37 anni di carcere. Detenuto inizialmente a Carabanchel (Madrid), venne trasferito prima a Zamora e infine a Herrera (a causa sia della spettacolare evasione di cinque Grapo nel dicembre 1979, sia delle sue azioni di protesta).

La situazione dei prigionieri (già molto dura in quelle che venivano dette “carceri si sterminio”) diventava insostenibile dopo il tentato golpe del febbraio 1981 (sembra che il generale Pardo avesse dato ordine di fucilare immediatamente i detenuti appartenenti a ETA e ai Grapo).

Di fronte agli ulteriori inasprimenti dopo qualche giorno nelle carceri spagnole riprendevano le proteste (altri scioperi della fame della durata di circa sessanta giorni si erano svolti in precedenza).

Del resto i baschi abertzale lo hanno sempre detto e sostenuto. In realtàil tentato golpe del febbraio 1981 era in parte riuscito. O almeno la sua rappresentazione spettacolare. E ovviamente pensavano sia al peggioramento della condizione dei detenuti, sia al Piano Zen e alla ricostituzione delle squadre della morte (vedi il GAL che riciclava i mercenari del BVE).

Crespo aveva iniziato a rifiutare il cibo 14 marzo, sopravvivendo poi per altri 96 giorni.

Dal 27 aprile, insieme ad altri tre militanti della stessa organizzazione, venne portato nell’ospedale penitenziario di Carambachel. Ufficialmente per “precauzione medico-sanitaria”.

Ai primi di giugno l’amministrazione carceraria – tramite gli avvocati – proponeva un compromesso: la sospensione della protesta in cambio di un miglioramento – definito “sustancial” – della situazione carceraria. In particolare la riduzione del tempo (fino ad allora di 23 ore al giorno) in cui i prigionieri rimanevano chiusi in cella. Avrebbe riguardato soltanto le ore notturne, mentre durante il giorno potevano aver accesso al cortile e alla sala della televisione.  Proposta rifiutata in quanto i prigionieri, per lunga esperienza, non si fidavano di promesseverbali, ma pretendevano un accordo scritto. Il 24 maggio 1981 sul quotidiano basco Egin veniva pubblicato un articolo sulla situazione di Crespo (ormai quasi cieco e senza voce) giunto al sessantesimo giorno di digiuno totale. La morte sopraggiungeva il 19 giugno. Una dozzina di altri militanti riporteranno danni irreparabili.

Il 25 maggio 1990 un altro esponente dei Grapo, in huelga de hambre da 175 giorni contro la dispersione, moriva (dopo essere stato alimentato a forza) all’Hospital Gregorio Maranon di Madrid.

Il suo nome era José Manuel Sevillano Martin. Studente-lavoratore, prima di aderire ai Grapo, aveva fatto parte del Sindicato Obreros del Campo, del Colectivo Cultural de Marchena e del Comité Anti-Otan.

Un proletario, un comunista.

Uno che difficilmente verrà mai ricordato da quei borghesi che da anni sfornano libri a manetta, tipo strenne, sugli scioperi della fame del 1981 in Irlanda e su Bobby Sands in particolare. Personaggi che su queste tematiche si sono costruiti talvolta una vera e propria carriera, acquistando comunque credenziali e riconoscimenti pubblici (al contrario chi si occupava di baschi, curdi o comunisti turchi a cui – caso mai – capitava piuttosto qualche minaccia o avviso di garanzia).

TURCHIA: scioperi della fame del 1996

Pur nel silenzio pressoché generale che circonda la questione dei diritti umani in Turchia (e quella curda in particolare), lo sciopero della fame dei prigionieri nell’estate 1996 ha goduto di qualche risalto sui media. Ad avviare lo sciopero il 27 marzo 1996  furono i prigionieri curdi (con richieste espresse in 24 punti). Circa diecimila prigionieri si davano il cambio ogni 10 giorni. Poi, verso aprile-maggio, aderirono alla protesta i detenuti della sinistra rivoluzionaria turca e – a quel punto – alcune organizzazioni decisero di portarlo avanti fino alle estreme conseguenze. Morirono in 12, tra turchi e curdi:

Altan Berdan Kerimgiller, Ilginc Oskeskin, Ali Ayata, Huseyin Demircioglu, Aygun Ugur, Mujdat Yanat, Hicabi Kucuk, Yemliha Kaya, Ayce Idil Erkmen, Osman Akgun, Hayati Can, Tahsin Yilmaz.

In luglio il capo del governo Necmettin Erbakan aveva minacciato varie volte di far intervenire l’esercito nelle carceri. Tuttavia, forse temendo la condanna dell’opinione pubblica mondiale, si vedeva costretto a fare alcune concessioni. L’accordo raggiunto, pur non contemplando la totalità delle richieste, prevedeva migliori condizioni per tutti i prigionieri e la fine del sistema carcerario repressivo. Eppure, benché minimi –ad esempio non c’era quello sullo statuto di prigionieri di guerra– i punti dell’accordo poi non vennero rispettati.
 Lo sciopero era quindi ripreso, quasi senza soluzione di continuità con quello appena concluso. Condotto sopratutto da curdi, si concludeva con la morte di altri quattro militanti.
 Da settembre, i prigionieri curdi stavano preparando una ulteriore mobilitazione nelle carceri. Venutone a conoscenza, il 22 settembre 1996 il governo ha sferrato un attacco contro una quarantina di militanti ammassati nella stessa cella nel carcere di Amed (Diyarbakir): 14 sono stati uccisi (a sprangate, secondo l’organizzazione umanitaria Inshan Haklari Demegi). I 23 feriti sopravvissuti all’aggressione sono poi stati incriminati per “rivolta contro lo Stato” (rischiando quindi la pena di morte). Dato che lo Stato si era rimangiato le concessioni fatte ai prigionieri, i movimenti di opposizione turchi e curdi avevano indetto per il 27 settembre una giornata di protesta in tutto il territorio dello Stato. Era perciò evidente che con l’attacco ai prigionieri del 22 settembre, l’esercito aveva voluto, in un colpo solo, anticipare la manifestazione e stroncare la ribellione nelle carceri.
Vanno segnalate alcune coincidenze che riguardano il ruolo del nostro Paese in Medio oriente. Ai primi di settembre, poco dopo la sospensione dello sciopero della fame, Romano Prodi era stato il primo capo di stato occidentale a recarsi in Turchia per incontrare Erbakan. Costui, forte anche della riconquistata “rispettabilità” di fronte agli alleati occidentali, potrebbe aver colto l’occasione per mettere in pratica quanto aveva minacciato in luglio. Successivamente (ottobre 1996), Suleyman Demirel, presidente della Turchia, veniva ricevuto da Rutelli, sindaco di Roma, e da Cacciari, sindaco di Venezia. Ricordo che l’Italia all’epoca era (ed è tuttora presumibilmente) il terzo partner commerciale di Ankara. Sia la visita di Prodi in Turchia che quella di Demirel in Italia, avevano ridato fiato e credibilità internazionale al regime turco, permettendogli di agire contro i prigionieri e contro l’opposizione. Il 16 ottobre 1996 si registrava una nuova aggressione della polizia speciale a Diyarbakir, stavolta in tribunale. Sette detenute politiche erano state assalite e ferite mentre deponevano. Riportate in cella, non venivano ricoverate in infermeria, nemmeno di fronte alle proteste delle altre detenute contro le quali si sono scagliati i secondini. Sulle prigioniere sono stati riscontrati segni evidenti delle percosse: gambe spezzate, ecchimosi agli occhi, emorragie interne, fratture del setto nasale. A due prigioniere sono stati danneggiati i reni in modo irreparabile. L’IHD (Associazione turca per i diritti umani) ha denunciato la “libertà d’azione data esplicitamente e personalmente dal ministro della giustizia Sevket Kazan alle squadre speciali della polizia”. Nonostante la durissima repressione (che solo negli ultimi tre mesi del 1996 causava almeno una trentina di vittime) i prigionieri politici non hanno mai smesso di lottare. Nuovi scioperi della fame e altre iniziative di protesta sono state avviate in tutti gli istituti carcerari (a Diyarbakir, Elazig, Erzurum, Aydin, Konya, Amosya, Ordu…) dopo che il governo non aveva rispettato gli accordi per un allentamento del regime durissimo attualmente in vigore. Un terzo sciopero della fame si era concluso il 14 novembre 1996, con un accordo simile al precedente, ma nuovamente disatteso e seguito dalla repressione. Particolarmente grave la situazione nel carcere di Aydin, dove alcuni prigionieri curdi (Ali Kaya, Faysal Dal, Karim Karatas, Muslum Ogur, Omer Uyun) sono stati ricoverati con emorragie gastriche e uno, Remzi Ozcicek, con gravi problemi ai reni (come conseguenza del prolungato digiuno). I portavoce dei prigionieri curdi, Yasar Aslon e Remzi Tunrikulu, dichiaravano che le lotte sarebbero continuate fino a quando nelle carceri turche proseguirà la pratica della tortura e le uccisioni di prigionieri. Nel dicembre 1996 altre due prigioniere politiche curde si suicidavano per protesta, impiccandosi.

Turchia 1997: due mesi di sciopero della fame e poi la beffa (maggio 1997)

Nel maggio 1996 fa i prigionieri politici curdi e turchi appartenenti alle formazioni PKK, TKP-ML e DHKP iniziavano uno sciopero della fame per opporsi alla politica carceraria di annientamento praticata dallo stato turco. I media europei cominciarono ad occuparsi della protesta soltanto dopo il primo morto. Mentre Necmettin Erbakan, capo del governo, minacciava di far intervenire l’esercito per fermare lo sciopero , altri militanti perdevano la vita. Alla fine, nel carcere di Erzurum, situato a nord di Van tra le montagne curde, si conteranno dodici morti. Pochi giorni dopo, ai primi di settembre 1996, Romano Prodi era stato il primo capo di un governo occidentale a visitare il suo omologo turco, Erbakan. Con la sua visita (preceduta di qualche mese da quella di Scalfaro), Prodi ridava fiato e credibilità al regime turco e, indirettamente, la possibilità di agire con i metodi di sempre nei confronti dei prigionieri. Infatti il 22 settembre 1996 l’esercito turco operava un vero e proprio massacro nel carcere di Amed uccidendo una dozzina di prigionieri del PKK e ferendone molti altri. Tutte le vittime, come risulterà in seguito, avevano avuto il cranio sfondato a sprangate. Nonostante questi tragici eventi, nei mesi successivi a vari premier turchi (tra cui il presidente Suleyman Demirel) verrà offerta la possibilità di ricambiare la visita del premier italiano, sia a Roma che a Venezia. Oggi il carcere di Erzurum è nuovamente al centro di una possibile tragedia e ancora una volta il ruolo dell’informazione non omologata potrebbe risultare decisivo. Più di 40 prigionieri politici curdi sono in sciopero della fame dal 10 marzo 1997. Per tutto il mese sono stati privati di ogni cura medica e, ormai alla vigilia del sessantesimo giorno, hanno praticamente raggiunto il “punto di non ritorno”. Anche se decidessero di interrompere lo sciopero, probabilmente subiranno comunque danni irreparabili. Il 16 aprile 1997 una delegazione di avvocati e operatori delle associazioni turche per i diritti umani ha raggiunto il carcere, ma le è stato impedito di parlare con i prigionieri, compresi i tre che per protesta rifiutano ogni cura medica. L’avvocato Kazim Genc ha dichiarato che, a suo avviso “le autorità vogliono dimostrare la loro onnipotenza”, aggiungendo che sono “inconfutabili le prove di maltrattamenti, insulti e minacce ai prigionieri”.
Inoltre, nei confronti di dieci prigionieri da lungo tempo in totale isolamento, viene proibita “ogni comunicazione interna ed esterna”. Tre sono le richieste avanzate dai militanti in sciopero della fame: che venga avviato un dialogo con incontri settimanali con la direzione del carcere; la fine dell’isolamento per i dieci prigionieri che hanno dato inizio allo sciopero; trattamenti più umani.
Evidentemente quella che alcuni media avevano salutato come “una vittoria dei diritti dei prigionieri” e che era costata tante vite umane è stata nuovamente vanificata dalla crudele politica repressiva del regime turco. E ora le organizzazioni umanitarie che hanno cercato, invano, di visitare i detenuti chiedono di inviare messaggi di protesta (“non offensivi”, raccomandano temendo ritorsioni sui prigionieri) al ministro Sevket Kazan e al direttore del carcere di Erzurum, Kakki Koylu.
Come in precedenti, analoghe emergenze, si conferma l’importanza delle organizzazioni non governative e umanitarie. Non soltanto nel denunciare le violazioni dei diritti umani, ma anche nel promuovere iniziative che (come la recente Conferenza di Roma) possono favorire una soluzione politica, rompendo il muro dell’indifferenza internazionale. Non promette comunque nulla di buono l’ordine, arrivato ieri dalle autorità di Ankara, con cui è stata vietata la “Conferenza di pace” in programma per domani e dopodomani nella capitale turca (8 e 9 maggio 1997). La conferenza, la prima di questo genere organizzata dall’Associazione turca per i diritti umani, era sostenuta da Danielle Mitterand, vedova del presidente francese Francois. Vi avrebbero partecipato numerose Ong da Italia, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti. Oltre a Luisa Morgantini, (Associazione italiana per la Pace) e a Claudia Roth (esponente del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo) alla Conferenza avrebbero dovuto partecipare alcuni esponenti della fondazione Sakharov. Il sopraggiunto divieto sarebbe dovuto a “motivi di sicurezza”. Secondo le autorità turche, l’iniziativa avrebbe potuto generare “provocazioni e incitamenti”. Quanto ai partecipanti, sono stati definiti “persone che avrebbero potuto nuocere all’integrità territoriale dello stato e della nazione”. Una spiegazione già nota e scontata.

Il 10 maggio 1997 lo sciopero della fame nel carcere di Erzurum (iniziato il 10 marzo e a cui avevano preso parte una quarantina di prigionieri politici curdi) veniva interrotto. Secondo quanto ci ha detto una portavoce dell’ERNK (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan), la direzione del carcere avrebbe dato ai militanti assicurazioni di “poter aver incontri con i familiari e garanzie contro le torture”. Inoltre sarebbe stato posto fine all’isolamento per quei dieci prigionieri che avevano iniziato lo sciopero.
“Naturalmente – ha proseguito l’esponente curdo – resta necessario vigilare affinché non si tratti solo di promesse. Bisognerà vedere cosa accadrà a Erzurum nei prossimi giorni, nelle prossime settimane”. Ancora una volta potrebbe risultare di una certa efficacia il ruolo dell’informazione, soprattutto nei paesi europei. Infatti “ciò che maggiormente temono le autorità turche è che qualcuno muoia in prigione sotto i riflettori della televisione, come è accaduto l’anno scorso proprio a Erzurum. Temono che l’opinione pubblica occidentale apra gli occhi e cominci a dubitare della reale presenza di democrazia in Turchia. Solo in questi casi qualche prigioniero, malato o in sciopero della fame, viene curato. Altrimenti viene lasciato morire. Proprio oggi abbiamo saputo che, in un altro carcere, un nostro compagno sta morendo per una malattia polmonare che avrebbe potuto essere facilmente curata. Ripeto: lo stato turco si preoccupa solo della sua immagine a livello internazionale. Se sui prigionieri di Erzurum calasse nuovamente l’indifferenza dei media, tra qualche settimana saremmo al punto di prima”. Proprio perché non venga a scemare la preoccupazione per quando accade nelle prigioni turche e nei villaggi curdi, la diaspora in Europa ha lanciato una nuova iniziativa, in collaborazione con l’associazione “Initiave Appel von Hannover”. Il progetto è quello di un Treno della Pace (a cui dovrebbero partecipare almeno 600 persone da tuta Europa) che, partendo da Bruxelles, giunga nella città di Diyarbakir il 1 settembre 1997 (Giornata contro la guerra). I “Viaggiatori della Pace” (rappresentanti di organizzazioni internazionali per i diritti umani, di partiti, chiese, associazioni e Ong) nelle stazioni di Bruxelles, Francofore, Vienna, Budapest, Bucarest e Sofia potranno organizzare manifestazioni e conferenze stampa. In 11 scompartimenti speciali la gente avrà modo di conoscersi, parlarsi e prepararsi per il meeting che si terrà a Istanbul e il festival finale a Diyarbakir. Il messaggio rivolto ai governi europei e a quello turco, ci dicono gli organizzatori “sarà semplice e breve: è ormai tempo per la pace. Una pace basata sul rispetto dei diritti umani e civili della giustizia sociale. Democrazia, libertà e pace sono una necessità urgente, nonché l’unica possibilità in Kurdistan”. Nelle intenzioni degli organizzatori “prima del Grande Festival per la Pace organizzato a Diyarbakir, gruppi selezionati di partecipanti al viaggio in treno avanzeranno le richieste del popolo curdo per una soluzione democratica ai ministri, ai media e ad altre istituzioni turche attraverso incontri, discussioni, dibattiti”.
Questa iniziativa è nata come risposta concreta ai numerosi appelli da parte di turchi e curdi per la pace e per un dialogo politico, considerati “l’unica strada verso la democrazia, per una fine duratura del conflitto e una soluzione del problema curdo”.
“Noi speriamo – dichiarano gli esponenti della diaspora curda – che la risposta del governo turco tenga in considerazione le richieste del popolo curdo. Uno dei più importanti segnali di volontà di pace e cambiamento dell’atteggiamento del governo sarebbe la scarcerazione immediata di Leyla Zana, Ismail Besikci e degli altri deputati, scrittori e giornalisti attualmente detenuti”.

E poi, il 13 maggio, l’ennesima doccia fredda. Vien quasi da pensare che – se non fosse una cosa tanto tragica – sembrerebbe quasi una telenovela. Lo sciopero della fame iniziato il 10 marzo 1997 e portato avanti eroicamente per quasi due mesi dai prigionieri politici del PKK si era concluso pochi giorni fa dopo che la direzione del carcere aveva detto di accettare le richieste dei detenuti: stop a torture e maltrattamenti e sospensione dell’isolamento per i dieci prigionieri che avevano iniziato lo sciopero della fame. Ma evidentemente Istanbul aveva promesso ai detenuti un trattamento umano solo per convincerli a porre fine allo sciopero. Già sapendo che non avrebbe mai tenuto fede ai patti. Infatti, a distanza di pochi giorni, sono riprese le minacce, i maltrattamenti, le detenzioni in isolamento totale. Tutto quanto insomma aveva generato la protesta.
Purtroppo questo è solo l’ultimo esempio, non certo l’unico, dell’arroganza e del disprezzo per i diritti umani di cui stanno dando prova da anni le autorità turche. Basti pensare alla reazione dell’ambasciatore turco a Roma, Umut Arik, all’appello per un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri turche e del trattamento riservato ai firmatari del documento del 7 maggio 1997. Sottoscritto da 46 parlamentari italiani, era stato poi inviato all’Associazione turca per i diritti umani (Ihd) e all’ambasciata turca. Arik aveva risposto con una lettera inaccettabile: una sequela di insulti senza costrutto che ha creato un incidente diplomatico. Nel tempestivo appello si protestava perché le autorità turche avevano impedito che si tenesse la Conferenza internazionale per la pace convocata per l’8 maggio 1997 dall’Ihd ad Ankara. I deputati sottolineavano come la legge che vieta di parlare del Kurdistan è la stessa che tiene in carcere intellettuali come Besikci e che ha consentito di non fare uscire per un mese il quotidiano “Demokrasi” nelle edicole. Nell’appello si chiedeva al governo turco di evitare atti repressivi e a quello italiano di condizionare i propri rapporti con la Turchia all’effettiva democratizzazione del Paese, alla garanzia dei diritti umani e civili e all’avvio di un dialogo di pace. Delirante, almeno sotto certi aspetti, la risposta dell’ambasciatore. Umut Arik ha accusato l’onorevole De Cesaris (Rifondazione comunista), l’uomo che ha inviato l’appello, di aver carpito la buona fede dei colleghi, promuovendo “un documento di sostegno ai terroristi del PKK e di attacco all’integrità statuale turca”. Poi, credendo evidentemente di trovarsi in un’aula militar-giudiziaria turca, non ha trovato di meglio che definire gli estensori dell’appello “membri di organismi di sostegno al PKK e al terrorismo” e la recente Conferenza di Roma “un sostegno al terrorismo” a causa del messaggio di Ocalan e della mozione finale.
Alle invettive di Arik sembrano fare eco i commenti di certa stampa (v. il “Corriere Mercantile”) e televisione (in particolare il Tg1) in merito a un’inchiesta genovese della Finanza. Due turchi, arrestati con ingenti quantitativi di droga, si sarebbero dichiarati membri del PKK e questo consentiva a qualche sprovveduto giornalista di descrivere il partito curdo come una “banda di spacciatori guidata dalla famiglia del famigerato Ocalan” che smercerebbe in Italia quintali di eroina per finanziare la guerriglia. Forse i colleghi ignorano che la mafia turca, spacciatrice dell’80% dell’eroina in Europa, è in realtà protetta dal governo di Ankara e combatte, ricambiata, contro il PKK. Sorvolando poi sul fatto che della famiglia di Ocalan ormai rimane in vita soltanto un fratello e che i rappresentanti in Italia del partito curdo non fanno che denunciare con forza i mercanti di droga e di profughi.
Per l’ERNK si tratta di “una ennesima, vergognosa provocazione”. Non a caso due mesi fa il Consiglio di sicurezza nazionale turco, in un documento che doveva rimanere segreto, ma che è stato scoperto e divulgato dalla stampa curda, ordinava di “costruire campagne di discredito nei confronti del movimento curdo in Europa”.
Non è la prima volta che spacciatori turchi, scoperti dalla polizia, si dichiarano del PKK. Accadeva anche negli anni ‘80. Sia in Italia (a Milano) che in Francia, Belgio e Germania. Lo fanno per provocazione, per acquisire meriti dal governo turco, o anche per non correre il rischio di venire estradati in Turchia. “È strano – ci ha detto Ahmet Yaman (rappresentante dell’ERNK che ha già chiesto di poter parlare con il magistrato genovese che si occupa dell’inchiesta) – che la magistratura non sia al corrente di questi precedenti. Anche perché stavolta la provocazione è più pesante: si criminalizza un intero partito e il suo stesso leader. L’ingente quantità di droga sequestrata, i legami con la mafia italiana e il silenzio della stampa turca di regime fanno pensare che i due turchi arrestati, spacciatisi per militanti del PKK, siano in realtà pezzi grossi della connection mafiosa e che la montatura serva a coprire qualcosa. Stiamo indagando e ne riparleremo”.
Sempre dall’ERNK proviene un’altra precisazione in merito alla notizia (riportata dalla stampa il 10 maggio 1997) di 140 guerriglieri curdi uccisi dall’esercito in prossimità della frontiera irachena. In realtà, secondo le fonti dell’ERNK, il bilancio delle vittime dello scontro sarebbe assai diverso: sei partigiani curdi e quasi un centinaio di soldati turchi morti. È stata poi confermata la voce di un sensibile aumento di ricoveri in ospedali psichiatrici di reduci turchi dal fronte, in particolare da Dersim, ancora cinta d’assedio da circa 100mila soldati.

Barry Horne: un anarchico antispecista  (5 novembre 2001)

Nel novembre 2001 moriva in carcere, per le conseguenze di una serie di scioperi della fame e della mancanza di cure adeguate, l’anarchico antispecista Barry Horne.

E ancora una volta potevamo dire che “ingiustizia è fatta”. Quanto allo sfruttamento e all’oppressione di esseri senzienti potevano continuare indisturbati.

Mi ero occupato varie volte del caso di Barry Horne, un militante animalista detenuto nelle carceri inglesi. Come movimento U.N.A. (Uomo-Natura_Animali) avevamo espresso pubblicamente solidarietà alla sua lotta, portata avanti in prima persona con vari scioperi della fame, uno dei quali nel 1998 era durato ben 68 giorni.

Con la sua protesta Barry chiedeva la fine immediata di ogni pratica vivisezionista praticata dall’industria dei cosmetici, così come i laburisti avevano promesso (ma non mantenuto) in campagna elettorale. Chiedeva anche l’istituzione di una “Royal Commission” che affrontasse seriamente ogni aspetto della vivisezione, moderna forma di tortura considerata inaffidabile da un sempre maggiore numero di medici e ricercatori, ma indispensabile per garantire i profitti delle multinazionali.

Era stato condannato a diciotto anni di carcere per azioni dirette in difesa dei diritti degli animali ovunque sottoposti ad incredibili sofferenze: esseri che non possono scrivere appelli per far valere le proprie ragioni o ribellarsi al dominio dell’uomo. Barry Horne era colpevole di un crimine che ha soltanto un nome: compassione, un sentimento ormai inammissibile in un sistema basato sullo sfruttamento e sull’oppressione di esseri umani, di animali e della natura.

Le sue condizioni di salute erano alquanto peggiorate in seguito ai lunghi scioperi della fame. I danni sugli organi vitali erano stati da subito evidenti. Tuttavia gli era stata negata la possibilità di un adeguato ricovero ospedaliero e non era stata modificata la sua categoria A, ossia di prigioniero considerato “pericoloso e violento”, anche se un diverso trattamento detentivo ne avrebbe migliorato la situazione psicofisica.

Nel dicembre del 1999 c’era stata la possibilità di una revisione della sua situazione carceraria e in quanto associazione avevamo intrapreso una campagna di sensibilizzazione in suo favore. Temendo comunque il peggio, già allora avevamo scritto: “Se la sua categoria di prigioniero non verrà modificata ora se ne riparlerà soltanto fra un anno. Sempre che per allora esista ancora un prigioniero di nome Barry Horne.” Purtroppo, come forse era prevedibile, il 5 novembre 2011 il generoso esponente del movimento animalista (un proletario, un ex spazzino di 49 anni diventato un simbolo della lotta per i diritti degli animali) è morto in seguito ai danni subiti con gli scioperi della fame (l’ultimo risaliva a pochi mesi prima, come protesta contro gli indiscriminati olocausti per l’epidemia di afta) e per la mancanza di cure e assistenza. Venga ricordato di fronte all’indifferenza di chi si ostina a non vedere i sterminio (laboratori, macelli, allevamenti…) che la “razza padrona” ha costruito e dove i nostri fratelli animali vivono e muoiono nel terrore.

Continui scioperi della fame dei prigionieri politici turchi (2000-2001-2003-2003…)

Feride Harman era stata arrestata nel settembre 1996 durante un’operazione di polizia contro il DHKP-C (Partito-Fronte rivoluzionario di Liberazione del Popolo). Si trovava rinchiusa nella prigione di Malatia il 19 dicembre 2000, nel giorno dell’irruzione della polizia nelle carceri dove si svolgeva lo sciopero della fame. L’operazione, denominata con macabra ironia “ritorno alla vita”, costò quella di 32 prigionieri. Il 28 luglio 2001 Feride entrò in sciopero della fame con il sesto gruppo di volontari. Di fronte al deterioramento delle sue condizioni di salute venne trasferita nell’ospedale Nunume ad Ankara dove subì la violenza dell’alimentazione forzata (classificata da Amnesty International come una forma di tortura). Malgrado tutto continuò nella sua protesta. Il 23 agosto 2002, al 399° giorno di sciopero della fame, fu rimessa in libertà condizionale, continuando nel suo digiuno ad oltranza in una “casa della Resistenza” a Istanbul-Aksaray. È morta il 15 dicembre 2002 alle ore 20,30 dopo 512 giorni di sciopero della fame. Era la quinta persona che perdeva la vita in tal modo dopo il cambio della guardia in Turchia, con l’arrivo al potere dell’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo).

Con la sua morte le vittime della protesta iniziata nell’ottobre 2000 contro le celle d’isolamento “F” arrivarono a quota 102. La sua vicenda è analoga a quella di ogni altro Hunger Striker; da Lale Colak, morta a 26 anni il 9 gennaio 2000, a Yusuf Araci, morto il 26 marzo del 2003, numero 106 della tragica lista. E la macabra contabilità è purtroppo destinata a continuare dato che alcuni militanti dell’organizzazione Devrimci Halk Kurtulus Cephesi sembrano intenzionati a proseguire nella loro estrema protesta anche dopo che altre formazioni avevano optato per la sospensione di questa forma estrema di lotta. Non bisogna poi dimenticare i più di 400 detenuti, ex detenuti e parenti rimasti irreparabilmente danneggiati a livello fisico e psichico dopo la sospensione dello sciopero.

Per cercare di comprendere le ragioni di questa lotta disperata, su cui la stampa internazionale sembra aver voluto stendere un velo poco pietoso, abbiamo potuto vedere in anteprima il video “F” del regista turco Metin Yegin, presentato finora soltanto al Festival del cinema curdo di Londra del 2003. Il film è stato proiettato il 16 agosto 2003 a Malga Zonta, all’interno delle iniziative (campeggio antifascista, commemorazioni, dibattiti) per il 59° anniversario dell’eccidio operato dai nazisti. Contiene numerose interviste a militanti in sciopero della fame (parenti ed ex detenuti nelle “case della Resistenza”), alcuni dei quali nel frattempo sono morti. Anche a voler prendere le distanze da una forma di lotta così estrema, colpisce l’incredibile lucidità e dignità di questi giovani che in nome della solidarietà si avviano verso un vero e proprio martirio.
Attualmente (ottobre 2003) sono più di diecimila i detenuti politici rinchiusi nelle galere turche. A opporsi al trasferimento nelle nuove celle di segregazione e isolamento denominate “F” sono stati soprattutto i militanti curdi e di alcune formazioni della sinistra rivoluzionaria (DHKP-C e TIKP). Da quando, nell’ottobre del 2000, è iniziata la protesta contro l’introduzione delle celle “F” sono ormai più di un centinaio i militanti morti a causa dello sciopero della fame o trucidati dalla polizia turca durante i ripetuti tentativi di sospendere la protesta manu militari. Due episodi in particolare hanno superato, per la loro insensata efferatezza, il muro di omertà e silenzio che avvolge la lotta e la sofferenza dei prigionieri.
Il 19 dicembre 2000 ci fu l’irruzione nelle carceri durante la quale morirono ben 32 persone. Le successive inchieste dimostrarono che molti detenuti erano stati deliberatamente dati alle fiamme dalla polizia (che poi aveva cercato di mascherare la cosa come “suicidi”). Il 22 novembre 2001 più di mille agenti e militari, preceduti da decine di blindati e ruspe e accompagnati dal fuoco dei cecchini appostati sui tetti, andarono all’assalto del piccolo quartiere di Armutlu (Istanbul) dove da circa un anno proseguiva lo sciopero della fame di ex detenuti rimessi in libertà e di familiari dei prigionieri . Bilancio immediato: almeno sei morti, decine di feriti gravi, centinaia di arresti e la distruzione con il fuoco delle “Case della resistenza”.
Va anche sottolineato che, grazie al ruolo di primo piano attribuito dagli Usa alla Turchia, i processi di repressione in tutto il paese sembrano destinati a subire un’ulteriore accelerazione, non solo nei confronti della resistenza curda o dell’estrema sinistra turca, ma anche di ogni altra forma di dissenso. Lo stanno scoprendo a loro spese pacifisti, ambientalisti (come gli attivisti di Greenpeace arrestati l’anno scorso ad Aliaga) e anarchici. Anche contro questi ultimi sono state utilizzate le CSE-DGM (Deviet Guvenlic Mahkemesi). Si tratta di veri e propri tribunali speciali, inizialmente istituiti per giudicare gli indipendentisti curdi, ma che poi sono stati utilizzati anche per semplici reati di opinione. È stato questo il caso di alcuni giovani libertari di Usak arrestati per aver distribuito dei volantini durante una manifestazione sindacale. Recentemente anche pacifisti e anarchici sono stati rinchiusi nelle celle di tipo “F”..
Il 13 ottobre 2003 nel carcere di Buca è scoppiata l’ennesima rivolta, immediatamente sedata con la forza. Le richieste dei detenuti erano minime: accesso a medici e medicine, possibilità di telefonare, oltre naturalmente al rifiuto dei trasferimenti nelle celle di tipo “F”. Sempre in ottobre l’IHD ha lanciato la campagna Non tacere sulla tortura. Nei primi sei mesi del 2006 si contano 18 persone uccise dalle forze di sicurezza e altrettante sono state ferite. Sei detenuti sono morti per mancanza di cure mediche, sei si sono dati fuoco per protesta e almeno otto si sono suicidati. Due persone arrestate sono morte nelle mani della polizia. 27 i morti in scontri armati e 22 i militanti politici assassinati. Da gennaio a giugno 2006 si contano almeno 200 persone torturate nei luoghi di detenzione e altrettante quelle torturate fuori da caserme e commissariati. E nel Kurdistan, con la ripresa degli scontri tra esercito e guerriglieri, i morti si contano nuovamente a centinaia.

Gianni Sartori

(continua…)

*http://csaarcadia.org/fascisti-tenete-giu-le-mani-dallirlanda/

**http://csaarcadia.org/in-memoria-di-peggy-ohara/

***Significativa la testimonianza di un ex POW e HS: Gerard Hodgins.

Due particolari circostanze – aveva dichiarato in un’intervista – mi hanno spinto ad accorgermi finalmente dell’inganno che Adams aveva tessuto. La prima, uno sciopero dei locali collaboratori scolastici per i salari e le condizioni lavorative, che lo Sinn Féin sostenne finché non riuscì ad ottenere la carica al ministero dell’educazione e di conseguenza la responsabilità di risolvere la questione; ma proprio allora i lavoratori in sciopero furono abbandonati e denunciati dallo Sinn Féin.
In secondo luogo, la morte, nello stesso periodo, di una delle più grandi personalità che l’umanità abbia conosciuto: Brendan Hughes.
Ho assistito allo show di Gerry Adams che sputava menzogne su Brendan Hughes per la gioia dei media, e sfruttava la sua morte per costruire la propria immagine e il proprio profilo mentre le oscure voci della sua propaganda bombardavano con vili chiacchiere e pettegolezzi la memoria e l’integrità di ‘The Dark
(in riferimento alla controversa questione dell’uccisione da parte dell’IRA, sembrerebbe su ordine di Gerry Adams, di una vedova e madre di dieci figli, eliminata in quanto presunta informatrice nda).

Inoltre, ho osservato come alcuni miei ex-compagni provenienti dalla mia stessa classe socio-economica sono diventati in breve tempo altamente benestanti, in grado di permettersi automobili da 60.000 sterline e numerose proprietà in giro per l’Europa (qualche anno fa un compagno irlandese mi parlava della “Armani Brigade” nda) mentre le nostre aree sono rimaste i ghetti di povertà che erano durante la guerra; ogni pretesa di Socialismo è stata abbandonata da una leadership che non ha esitato a saltare nel letto di una Tigre Celtica che presto avrebbe esaurito le forze. Il fascino e gli status symbol del potere divennero, ai piani alti dello Sinn Féin, più importanti dell’utilizzare quello stesso potere per il bene del popolo. Alla fine, non aspiravano che a diventare i nuovi esponenti di una classe media attenta a mantenere inalterate le istituzioni e a collezionare premi per i suoi servigi allo stato.
Forse, l’esempio più lampante di quanto Adams e i suoi si siano ormai discostati dalle loro origini repubblicane è la loro sconcertante mancata azione per rimediare alla crisi irrisolta nella prigione di Maghaberry, dove i prigionieri Repubblicani sono vittime di brutalità e di umiliazioni in scenari che hanno troppo dei giorni più bui della Blanket Protest negli H-Blocks”.

Stando a quanto si poteva leggere nel libro Blanketmen  di Richard O’Rawe (pubblicato nel 2008 e ampliato nel 2010 con Afterlives), ancora all’inizio di luglio (1981) il governo inglese avrebbe offerto agli hunger strikers una soluzione onorevole: l’accettazione di quattro delle cinque richieste. Una proposta che consentiva la sospensione dello sciopero e quindi la salvezza di almeno sei di loro (già troppo tardi per Patsy O’ Hara, la quarta vittima). Ma tale opportunità non sarebbe stata colta da Adams e dagli altri dirigenti del Sinn Fein (già ben avviati sul percorso elettoralistico) e nemmeno ne vennero informati i prigionieri.

In proposito sempre Gerard Hodgins aveva dichiarato:

Le rivelazioni sulle trattative clandestine fra Gerry Adams e gli inglesi sono un argomento che richiederebbe di essere trattato con maggior franchezza e profondità; ma si tratta di un segreto strettamente protetto di cui né Adams né gli inglesi sembrano avere molta intenzione di discutere. No, non sapevo di questi colloqui durante lo sciopero della fame, e nessuno degli hunger strikers venne informato sull’estensione delle offerte britanniche. Le notizie si diffusero soltanto all’interno di una ristrettissima cerchia di persone; essenzialmente, Adams condusse l’hunger strike per giovare al suo personale obiettivo politico, e questo è reso indiscutibilmente palese non solo dal fatto che abbia rifiutato l’offerta del 5 luglio, ma anche che abbia evitato di informare gli hunger strikers del contenuto dei suoi colloqui con gli inglesi e della natura delle loro offerte”.

**** Ovviamente tale imborghesimento “elettoralistico” (alla Andrea Costa per intenderci) della leadership repubblicana certo non basterà per togliere il sonno a quei giornalisti e “addetti ai lavori” di estrazione borghese che da anni, a ogni scadenza e anniversario, ci riversano addosso l’ennesima strenna sull’Irlanda e gli irlandesi.

Quanto a Gerry Adams, questa è la sua versione sulla questione della morte di McConville:

Conoscevo bene Brendan Hughes. Meglio di Ed Moloney o Anthony McIntyre (rispettivamente autore e collaboratore del libro Voices from the Grave in cui veniva riportata la testimonianza di Hughes nda). Lui non stava bene e non lo è stato per un periodo molto lungo, anche durante il lasso di tempo in cui ha rilasciato queste interviste. Brendan era contrario anche alla cessazione della lotta armata dell’ IRA e al processo di pace. Questo era un suo diritto (…).

Respingo assolutamente ogni accusa secondo cui io abbia avuto mano o o preso parte, nell’uccisione e nella scomparsa di Jean McConville o in una qualsiasi delle altre accuse che vengono promosse da Ed Moloney”.

Da segnalare anche le dichiarazione rese nel 2012 al Sunday World da Louise Devine (figlia di Mickey Devine, militante dell’INLA, la decima e ultima vittima dello sciopero):

“Esiste ormai una montagna di prove sull’esistenza di un’offerta degli inglesi, che fu accettata dalla direzione carceraria dell’IRA, ma venne respinta dalla dirigenza esterna (tra l’altro par di capire che l’INLA, nonostante la partecipazione dei suoi militanti allo sciopero, venne tenuta completamente all’oscuro anche solo dell’esistenza di trattative nda). Se mio padre avesse saputo di quella proposta, avrebbe terminato il suo sciopero. Era un uomo giovane con due figli che adorava e meno di due anni ancora da scontare in prigione. Aveva tutte le ragioni per continuare a vivere. Invece ha trascorso sessanta giorni d’agonia ed è morto per niente, perché gli inglesi erano già disposti a soddisfare quasi tutte le richieste dei prigionieri (…). Voglio delle risposte. Avevo solo cinque anni quando ho visto mio padre agonizzare e poi morire in quel campo di concentramento che era la prigione di Long Kesh. Mi sono seduta sul suo letto e lui non riusciva neanche a vedere me e mio fratello perché era cieco. Mi ricordo le lacrime che gli colavano sul viso quando l’abbiamo lasciato per l’ultima volta”.

 

Comments ( 2 )

  • Gianni Sartori

    Sapevo di aver dimenticato qualcosa nella mia – per quanto fin troppo lunga e dettagliata – ricostruzione dei principali scioperi della fame di prigionieri politici.
    Si trattava di questo episodio del 1992 (dei baschi rinchiusi nella prigione di Salto del Negro) che ho ritrovato casualmente in rete. Originariamente era stato pubblicato, mi pare, da Frigidaire.
    Rimedio con un “autocommento” (sempre che a qualcuno possa interessare, se non altro per la Storia). Segnalo che anche in questo caso la sospensione dello sciopero era dovuta all’alimentazione forzata (come invece – in genere – non avveniva in Irlanda).
    G:S:

    SCIOPERO DELLA FAME DEI PRIGIONIERI BASCHI
    Una lotta di cui la stampa, anche quella di “sinistra”, non ha parlato
    Questo articolo era stato scritto alla fine di maggio, mentre lo sciopero della fame iniziato il 24 aprile 1992 era ancora in corso. Chi scrive aveva ampiamente informato in proposito anche giornali come “il Manifesto” e “Avvenimenti” che, in quanto quotidiani o settimanali, avrebbero potuto darne notizia tempestivamente.
    Ma evidentemente i presunti depositari dell’informazione di sinistra non hanno ritenuto opportuno informare i loro lettori (nemmeno sotto forma di ‘lettera al direttore’), forse per non turbarne le democratiche coscienze o per non compromettere l’idillio tra Occhetto e Gonzalez.
    In compenso su Avvenimenti del 22 luglio venivano riprese pari pari, alcune infamie divulgate dalla stampa spagnola (“Cambio 16”) per screditare e ridicolizzare il Movimento di Liberazione Nazionale Basco (v. la rubrica “Pianeta”, a cura di Laura Franza).
    Nel frattempo i Prigionieri Politici Baschi di Salto del Negro hanno deciso di interrompere la loro protesta, dieci giorni dopo che avevano iniziato lo sciopero della sete e che erano stati sottoposti all’alimentazione forzata, in seguito ad un accordo raggiunto con il direttore del carcere (in merito al lavoro carcerario, all’isolamento…).
    Al fine di garantirsi i prigionieri hanno preteso che i termini dell’accordo venissero resi noti anche a persone estranee alla prigione, in qualità di testimoni.
    Onde evitare che si ripetesse quanto era accaduto all’inizio dell’anno quando gli accordi ottenuti in circostanze analoghe erano poi stati completamente ignorati dalla direzione che pure li aveva sottoscritti.
    Resta comunque, a mio avviso, inalterata la gravità della situazione e dell’infamia compiuta dalle autorità spagnole: aver violato ancora una volta ogni rispetto della dignità personale dei prigionieri sottoponendoli alla tortura dell’alimentazione forzata.
    Come definire quelli del Manifesto e di Avvenimenti che, pur essendone stati debitamente informati, non ne hanno dato a suo tempo notizia?
    Forse, suggerisco, “complici”?
    Gianni Sartori

    I Prigionieri Politici Baschi rinchiusi nella prigione di Salto del Negro (Las Palmas de Gran Canaria), che da circa un mese erano in sciopero della fame, verso la fine di maggio avevano iniziato anche quello della sete: immediata è scattata la reazione del governo spagnolo che evidentemente non voleva veder aleggiare l’ombra di un altro Crespo o Sevillano sopra i festeggiamenti spettacolari delle Colombiadi.
    I compagni sono ora fissati ai loro letti, legati mani e piedi, impossibilitati a muoversi, alimentati a forza con il siero attraverso flebo e cannule…
    Stiamo forse per assistere alla replica della tragedia di due anni fa quando il compagno Sevi morì dopo 176 giorni di “huelga de hambre” e tanti altri compagni rimasero per quasi un anno legati in quel modo indegno?
    Probabilmente le autorità spagnole vogliono ribadire ancora una volta che il disprezzo degli Stati per la dignità umana non ha limiti; che ad un prigioniero intenzionato a rivendicare comunque i più elementari diritti umani si nega anche l’estremo atto di rivolta, di autodeterminazione e rispetto di se stessi…
    Nelle sempre più indegne condizioni in cui versano i Prigionieri Politici Baschi non è consentito nemmeno tracciare una linea e dire: da qui in poi, basta. Basta con le percosse, le umiliazioni, la tortura, l’isolamento, la mancanza di cure…
    Per quelli che non vogliono “pentirsi”, abiurare non c’è alternativa… negli ultimi anni si è scatenata la peggior foga repressiva della socialdemocrazia spagnola; è venuta in particolare ad accentuarsi la tradizionale politica di rottura della omogeneità della comunità dei prigionieri. Contemporaneamente sono stati mantenuti ed inaspriti i metodi di vero e proprio annientamento fisico dei detenuti; al fine di ottenere il “ravvedimento”, naturalmente.
    Tutto questo è un’ulteriore conferma della sostanziale natura di ostaggi dei Prigionieri Politici Baschi.
    Queste in sintesi le linee direttrici della politica carceraria del governo spagnolo:
    a) dispersione, sia a livello quantitativo (ben 94 carceri disseminate su tutta la penisola “ospitano” attualmente prigionieri baschi) che qualitativo (vedi prigionieri rinchiusi nelle prigioni delle Canarie, di Ceuta…);
    b) applicazione totalmente repressiva della legislazione penitenziaria;
    c) applicazione di metodi completamente illegali (provocazioni, pestaggi, violenza e maltrattamenti…), metodi che sono la causa immediata della protesta dei detenuti, in particolare dello sciopero della fame.
    Anche se la stampa “indipendente” nostrana lo ha volutamente ignorato, le lotte dei Prigionieri Politici Baschi sono riprese anche quest’anno.
    In maniera molto determinata sono ricorsi anche allo sciopero della fame, nonostante l’elevato costo umano, contro le galere della socialdemocrazia.
    Il 3 febbraio quindici Prigionieri Politici Baschi rinchiusi nella prigione Sante del Negro iniziarono uno sciopero della fame dopo il pestaggio subito da due detenuti nelle loro celle.
    Il fatto determinò una rivendicazione collettiva da parte di tutti i prigionieri baschi che richiesero di essere riuniti in un’unica sezione, per porre fine all’isolamento attualmente esistente (una situazione che tra l’altro facilita i ricorrenti pestaggi).
    Si chiedeva inoltre che alcuni diritti elementari (poter ricevere visite e poter ricevere lettere, libri, riviste…) venissero loro riconosciuti.
    L’8 marzo undici familiari dei prigionieri iniziarono nella chiesa di Sanata Maria di Donostia (San Sebastian) un’occupazione a tempo indeterminato con l’obiettivo di dare risonanza alla lotte degli “huelguistas”, per comunicare a tutta la società basca la gravissima situazione che si era venuta a creare in questa prigione?
    I prigionieri abbandonarono lo sciopero il 14 marzo (quasi un mese e mezzo) dopo aver raggiunto un accordo con il direttore del penitenziario. Dopo un mese, visto che niente era cambiato, lo sciopero è ripreso.
    Il 7 di febbraio erano stati invece i prigionieri baschi rinchiusi nel carcere di Murcia a cominciare uno sciopero della fame.
    Motivo immediato della protesta era la situazione della prigioniera Josefa Ernaga, qui incarcerata. Josefa era mantenuta isolata, senza diritto a vedere nessuno, con molte restrizioni anche per l’ora d’aria. I prigionieri abbandonarono la loro radicale protesta dopo una settimana, avendo ottenuto dalla Direzione del carcere l’assicurazione che sarebbero stati portati cambiamenti alla situazione di Josefa.
    Un altro sciopero della fame da parte di cinque Prigionieri Politici Baschi era iniziato il 6 febbraio nella prigione di Ceuta (definita “carcere di sterminio”). la protesta nasceva per la situazione di assoluto isolamento in cui versavano da più di sei mesi i prigionieri. Chiedevano il rispetto nei loro confronti di diritti umani elementari.
    I prigionieri denunciavano inoltre l’atteggiamento della Direzione che adottava regolarmente minacce e mezzi arbitrari (spesso come ritorsione per avvenimenti legati alle lotte per l’autodeterminazione di Euskadi).
    La situazione non deve venire sottovalutata.
    L’annientamento, in vario modo, di Prigionieri Politici è da anni una costante della galere spagnole, definite non a caso “di sterminio”.
    Ricordiamo qualche nome di quanti sono morti in prigione con il PSOE al governo: José Ramon Goikoretxea, Joseba Asensio, Jesu Retolaza, Mikel Zalakani, Mikel Lopetegi, Juan Carlos Alberdi, Mikel Zabalza… e la lista potrebbe continuare.
    Senza poi naturalmente dimenticare Sevi (Manuel Sevillano Martino). Anche in quella circostanza gli scioperanti vennero sottoposti ad alimentazione forzata, legati ai letti mani e piedi per impedir loro di strapparsi di dosso i tubi e le cannule con cui venivano alimentati contro la loro stessa volontà.
    Con l’alimentazione forzata l’agonia si protrae praticamente all’infinito e spesso provoca una morte atroce; senza contare l’umiliazione, la distruzione della personalità.
    Amnesty International l’ha definita una forma di tortura.
    Tra l’altro spiega l’incredibile “resistenza” dei militanti del GRAPO due anni fa; va comunque precisato che per molti di loro le conseguenze sono state irreparabili.
    Di fronte a quest’ennesima infamia degli apparati dello Stato spagnolo non basta indignarsi, occorre mobilitArsi prima che sia troppo tardi: come due anni fa torniamo a vedere i corpi emaciati, irriconoscibili dei compagni legati a veri e propri letti di contenzione, sottoposti a questa asettica, postmoderna forma di tortura. E proprio come due anni fa il silenzio stampa regna totale. Anche sulla stampa di sinistra, naturalmente.
    A costo di ripeterci riaffermiamo che l’alimentazione forzata è un modo orribile per negare ulteriormente a soggetti prigionieri, impossibilitati ad esprimere in altro modo la loro protesta, le loro giuste rivendicazioni, la pur minima forma di autodeterminazione.
    Un modo per togliere loro l’unica possibilità dignitosa di lottare… per non lasciargli altra alternativa che il “pentimento”, l’abiura.
    Non chi subisce, ma chi, carcerieri, medici o ministri, promuove queste pratiche infami, deve sentirsi ai gradini più bassi della dignità umana.
    G.S. (maggio 1992)

  • Lo sciopero della fame: un atto politico di resistenza – Osservatorio Repressione
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