L’eterogeneità delle critiche rivolte ai “pacifisti” rivela che la contraddizione è negli occhi di chi guarda: di chi si lava la coscienza chiedendo armi che altri useranno. Noi, la “sinistra occidentale”, sappiamo poco dell’Europa dell’est; ma conosciamo bene il nostro mondo e il suo assolutismo amorale che pretende di dominare sull’intero globo con l’unica concretezza che conosce: quella del denaro, e delle armi.
di Monica Quirico
Fin dai suoi albori, nel XIX secolo, il movimento pacifista è stato marchiato con epiteti meschini quando non infamanti: utopista, nella migliore delle ipotesi, ma anche vigliacco o addirittura traditore (del proprio paese e perfino della propria civiltà). Nel caso della guerra in Ucraina, il malanimo verso chi non si allinea alla posizione dominante (vittoria a qualunque costo) è esacerbato da quella criminalizzazione del dissenso che è diventata prassi comune con la pandemia, opponendo, anche a sinistra, i “rigoristi” ai “riduzionisti/negazionisti”: come se i comportamenti individuali fossero stati univoci e non inevitabilmente attraversati, tutti, da dubbi e contraddizioni. Ignorando le manovre più squallide (le liste di proscrizione dei presunti filorussi), speculari peraltro ai metodi utilizzati da Putin, nelle righe che seguono analizzo, da pacifista tormentata dal senso di impotenza di fronte al calvario della popolazione ucraina, alcuni repertori argomentativi, non solo italiani, che legittimano la soluzione militare cercando nondimeno un’interlocuzione con chi non la condivide.
Il target. Identificare il pacifismo (compreso il papa) con la sinistra serve a screditarlo in quanto emanazione di un’area politica minoritaria e portatrice di un’ideologia che sarebbe stata irreversibilmente bocciata dalla storia. È degno di nota che per i militanti di sinistra dell’Europa orientale favorevoli all’invio di armi all’Ucraina lo stigma non stia nell’appartenenza politica dei pacifisti, che anzi condividono, bensì nella loro collocazione geografica: l’Occidente, ossia l’area privilegiata del mondo. Entrambe le strategie di delegittimazione entrano nondimeno in crisi quando i dati mostrano che una quota della popolazione europea ben più ampia dell’elettorato della sinistra (radicale) è contraria alla guerra. Bisogna ricorrere allora ad altri espedienti, come fa l’European Council on Foreign Relations che in un sondaggio recente oppone – con un’operazione vergognosa – pace e… giustizia. Da una parte sta chi – si legge neanche tanto tra le righe – per evitare le ricadute della crisi internazionale sui propri standard di vita, è «più favorevole a porre fine alla guerra il prima possibile anche se ciò comporterà concessioni da parte dell’Ucraina», dall’altra chi «preferisce invece punire la Russia per questo atto di aggressione e ripristinare l’integrità territoriale dell’Ucraina, anche se tale scelta comportasse un conflitto prolungato e maggiori sofferenze umane». Si potrebbe discutere a lungo della nozione di “giustizia” formulata nel sondaggio, ma qui interessano le conclusioni: i pacifisti risultano essere degli opportunisti, mentre i veri pacifisti sarebbero coloro che vedono nella sconfitta di Putin a qualunque costo la condizione necessaria per una pace vera.
L’ignavia delle anime belle. Scrive Federico Zuolo (Le ragioni disarmate, Valigia blu, 15 maggio 2022) che i pacifisti, provenienti da «ambienti intellettuali post-marxisti [sic] e cattolici» sono prigionieri di una forma di assolutismo morale: dovendo scegliere se far morire cinque persone legate a un binario su cui viaggia un treno fuori controllo, oppure deviare il treno su un binario a cui è legata una sola persona, pur di non sacrificare intenzionalmente nessuno provocano di fatto la morte dei cinque sventurati. Confesso che da marxista (non “post”) quale sono, non ho simpatia per gli esperimenti mentali, inficiati proprio da quell’astrattezza che Zuolo rimprovera ai pacifisti: «intendere le questioni come assoluti oscura le differenze, mette tutti sullo stesso piano e in definitiva serve a lavare le coscienze degli assolutisti senza offrire una soluzione né, tanto meno, un contributo al dibattito». Dogmatici, inutili e, diciamolo, ignavi, questi pacifisti, perché non prendono posizione: se ne deduce quindi che premere instancabilmente per un negoziato, mettendo in guardia contro la spirale perversa del militarismo, non sia altro che sia una posa leziosa.
La zavorra della complessità. In un articolo su Il Foglio del 16 giugno, Adriano Sofri, commentando l’invito del papa a non trascurare l’intrico di processi e interessi alla base della guerra, che non può essere ridotto alla dicotomia buoni-cattivi, taglia corto fin dal titolo: Troppa complessità, Santo Padre: in Ucraina servono le armi. Lo stesso Sofri ha dovuto nondimeno riconoscere, pochi giorni dopo, che la situazione complessa, e contraddittoria, lo è eccome: «Improvvisamente, la volontà di sostenere la giusta, e valorosa, difesa ucraina dall’invasione russa ha offerto alla Turchia l’occasione per estorcere il sostegno della NATO alla propria perenne guerra anticurda in casa, in Iraq e in Siria» (Il Foglio, 1 luglio 2022). Nel frattempo, beninteso, continuiamo a mandare “armi, armi, e ancora armi” all’Ucraina.
Una disumana faziosità. Pierluigi Sullo racconta di aver provato vergogna nel dover constatare come «nelle sinistre ancora esistenti mancasse l’ingrediente fondamentale della pietas, della commozione per la sorte delle comunità, delle famiglie, della gente ucraina», frutto del «residuo di un secolo di sovrapposizione tra ragione di Stato sovietica e sorti della rivoluzione nel mondo». Sullo vede «un irrealismo prepotente, in queste posizioni [la richiesta di una soluzione diplomatica], che servono principalmente a noi, alle nostre coscienze pacifiste» (non alla sua, evidentemente). In un intervento successivo , rincara la dose: «non sapendo noi nulla di quel che è accaduto negli ex paesi dell’est dopo il crollo dell’Unione sovietica e di come siano rinate una sinistra e un femminismo intelligenti e vivaci, continuiamo a spiegare loro che cosa devono o non devono fare». È, questo, il leitmotiv dell’invettiva di Zosia Brom, un’anarchica polacca, inglese di adozione, che ha suscitato un certo scalpore (ed è stata strumentalizzata dalla destra) perché manda a… quel paese i pacifisti occidentali (Fuck leftist westplaining, Freedom, 4 marzo 2022). Imprigionati in schemi mentali ormai inservibili, essi non hanno compreso che ai paesi dell’est l’adesione alla NATO, sia pure come membri di serie B, ha offerto una garanzia di sicurezza di cui non avevano mai goduto durante il socialismo reale, che ne ha sempre conculcato l’autonomia. Sarà per questo che, anziché prendersela con chi, a est come a ovest, pur conoscendo assai bene le nefandezze di Putin fino al 23 febbraio ha intrattenuto con lui sorridenti rapporti diplomatici e fruttuosi scambi commerciali, Brom se la prende con i pacifisti: sono loro i codardi, non gli eroi da divano.
Un Giano bifronte. Da questi repertori, ampiamente diffusi nel dibattito pubblico, emerge un’immagine schizofrenica dei pacifisti: sono dogmatici, dunque incapaci di esaminare le situazioni concrete / si addentrano in analisi del contesto storico e geopolitico del tutto superflue; assumono la stessa posizione in circostanze diverse / di volta in volta scelgono da che parte schierarsi a seconda della categoria di vittime; sono imbalsamati nei loro precetti morali / sono disumani; sono inerti / sono complici; sono troppo di sinistra / hanno tradito la sinistra. Quest’ultimo punto merita una riflessione. Derisa per lustri a causa della sua frammentazione e rissosità interne, la sinistra improvvisamente ritrova, agli occhi di questi e altri commentatori, una compattezza impensabile fino a poco tempo fa, in nome della pace. Magari fosse così! Per la sinistra radicale europea, già messa a dura prova dalle divisioni feroci (anche a livello personale) sulla gestione della pandemia, la guerra in corso rappresenta l’equivalente dei crediti di guerra del 1914 per le socialdemocrazie. Quando Brom e altrə compagnə dell’est si rivolgono alla “sinistra occidentale” tout court compiono un errore simmetrico a quello di chi, in Occidente, parla dell’Europa orientale come di un blocco omogeneo, letto attraverso stereotipi. Lo stesso vale per il pacifismo, che è composto da anime diverse: chi è mosso da principi morali e chi dal materialismo storico, ad esempio. L’eterogeneità delle critiche che a esso sono rivolte riflette in parte questa sua natura composita, ma soprattutto rivela che la contraddizione è negli occhi di chi guarda: di chi si lava la coscienza chiedendo armi che altri useranno, a rischio della propria vita. La minaccia nucleare, le ripercussioni sulla vita (e la morte) di miliardi di persone, gli scenari catastrofici del dopoguerra sono astrattezza, complessità ridondante. Neppure si fa lo sforzo di chiedere ai governi occidentali quante armi sono state fornite finora, da chi e a chi e quali risultati hanno prodotto. E soprattutto quante ne occorreranno ancora, se lo scopo non è più costringere Putin a trattare ma annientarlo. Possibile che neanche su questa elementare operazione di trasparenza si possa costruire un terreno comune tra chi, nei due schieramenti, non ha convinzioni adamantine ma semmai dubbi e paure? È vero, sappiamo, e capiamo, molto poco dell’Europa dell’est, noi della “sinistra occidentale”; ma conosciamo bene il nostro pezzo di mondo, quello che con il suo assolutismo amorale (i nostri interessi davanti a tutto) pretende di dominare sull’intero globo con l’unica concretezza che conosca: quella del denaro, e delle armi.