Nel cuore della città di Roma si sta sperimentando un modo nuovo di intendere l’abitare, i servizi condominiali e alla domiciliarità. Si è creato uno spazio di co-working in un rapporto aperto con i residenti del quartiere. Che cosa c’è di “illegale” in tutto questo? O è preferibile il degrado alla vitalità culturale?
L’incursione del cardinale Konrad Krajewski in via di S. Croce in Gerusalemme per riallacciare la corrente elettrica nel palazzo ex Inpdap, ha riaperto la discussione sul disagio abitativo e sull’urgenza di politiche di welfare per l’edilizia popolare nonché interventi concreti di integrazione sociale e culturale. La categoria dell’”illegalità” e del “rispetto delle regole”, con cui la destra salviniana e alcuni mezzi d’informazione liquidano l’argomento, non servono ad affrontare la questione e soprattutto non rispondono al dramma e alle sofferenze di chi non ha un tetto sopra la testa. E non rendono giustizia nemmeno alla creatività e alla ricchezza di esperienze innovative di chi vive la condizione di “occupante”.
Di fronte alle clamorose inadempienze del governo e delle istituzioni locali, c’è il lavoro di auto-recupero per adattare i vecchi uffici in piccoli e medi appartamenti e per adattare l’auditorium e i diversi saloni del piano sotterraneo dell’ex Inpdap in laboratori di falegnameria, di scrittura, di serigrafia e altro; in locali di ristorazione, in spazi per concerti o per mostre, in locali per ospitare giovani che fanno una rivista mensile (“Scomodo”) o attività di cineforum e di presentazione di libri.
Facendo le dovute distinzioni, i movimenti di occupazione, come quello di S, Croce in Gerusalemme, sono paragonabili alle lotte per la terra dei contadini poveri che, nel dopoguerra diedero l’assalto al latifondo. Anche allora nel movimento erano presenti sacerdoti e tanti intellettuali di diverso orientamento politico, culturale e religioso.
Nel latifondo si annidava la rendita fondiaria, prima causa di intollerabili diseguaglianze sociali, della miseria nera e dell’analfabetismo in cui viveva la grande maggioranza del popolo. In un contesto mutato, negli edifici inutilizzati o in stato di abbandono, si annida la rendita urbana, anche quella assenteista. Gli occupanti di oggi sono l’avanguardia della lotta alla rendita, da cui passa gran parte della politica redistributiva.
La rendita immobiliare non è un concetto astratto. Gli interessi congiunti di proprietari fondiari, imprese di costruzione e banche sono all’origine di un’espansione urbana incontrollata, di periferie degradate, di servizi inefficienti o inesistenti. Sono all’origine del degrado territoriale ed ambientale, della carenza di alloggi pubblici, degli sfratti per morosità, delle abitazioni pignorate per l’impossibilità di onorare il pagamento del mutuo. In una parola, la rendita urbana ha, da un lato, falcidiato il reddito delle famiglie di ceto medio per il caro-casa, e dall’altro, ha generato un forte aumento del disagio e della povertà.
Non si può parlare di questione abitativa ignorando il ruolo e il peso della rendita in Italia. Il mito della casa in proprietà, alimentato in tutti i modi nei decenni passati, è stato il volano di un colossale trasferimento di risorse dal lavoro alla rendita immobiliare e finanziaria. Mutui casa e canoni di locazione sono alcuni dei modi di questo trasferimento. La crescita delle diseguaglianze sociali in Italia è esattamente l’altra faccia della rendita. La sua impetuosa avanzata è andata di pari passo con la definitiva chiusura di quel welfare abitativo che pure aveva contraddistinto la politica italiana dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. Con la benedizione dei governi che si sono succeduti, cementificazione e consumo di suolo l’hanno fatta da padroni e i periodici condoni hanno creato condizioni propizie al proliferare dell’abusivismo edilizio. Negli ultimi trent’anni in Italia si è incentivata in tutti i modi la casa in proprietà e ha dominato il più spregiudicato laissez faire (“ognuno padrone in casa propria”) di berlusconiana memoria.
Le forme di lotta radicali sui temi dell’abitare sono dunque la conseguenza di un problema che non trova sbocchi attraverso i canali istituzionali. Ecco perché è riduttivo parlare di “emergenza abitativa”. Siamo in presenza, invece, di una “questione abitativa” che è questione strutturale, con forti implicazioni sul reddito, sullo sviluppo, sull’ambiente, sulla crescita e sulla qualità urbana, sui rapporti sociali.
La chiave di volta per affrontare il disagio e le nuove domande abitative è dunque un cambio di paradigma, uno spostamento del baricentro delle politiche abitative dalla proprietà all’affitto. Riscoprendo il valore d’uso della casa. Mettendo in discussione la cosiddetta finanziarizzazione del mattone, che incorpora un’idea dell’abitare che è tutto “valore di scambio e poco o niente “valore d’uso”.
da il manifesto