Non mi unisco al tripudio di giubilo che ha accompagnato sui quotidiani nazionali la notizia della decisione della Corte suprema brasiliana di rimuovere lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti e aprire così la via alla sua estradizione in Italia. Così come non mi ero unito allo sdegno urlato quando nel gennaio scorso quella protezione era stata pronunciata. Al contrario, trovo un po’ osceno che si mettano sulle prime pagine dei giornali grida di gioia perché un uomo viene portato in carcere, a vita, dopo trent’anni dai fatti gravissimi per cui è stato condannato e dopo che proprio questo svolgere del tempo ha dimostrato la normalità della sua esistenza, pubblica; evidente rappresentazione di come sia difficile trovare una finalità al volerlo escludere, per sempre, dal consesso sociale.Trovo che sia un segno di arretramento del senso della giustizia. Penso, infatti, che sia estremamente importante che un fatto grave sia sanzionato, nel senso che le responsabilità siano stabilite, che le vittime vedano riconosciuto il torto subito, vedano cioè attorno a sé la consapevolezza della collettività della sofferenza che è stata loro inflitta e la capacità della società stessa di individuarne le responsabilità. Ma, trovo altresì che sia sbagliato accompagnare tutto ciò con un residuo di retributivismo che individua nella sofferenza simmetrica da affliggere al colpevole un risanamento del male subito. So bene che questa posizione non è oggi molto condivisa; eppure non è distante dal pensiero che ha accompagnato il diritto penale e il suo esercizio, nello stato liberale, prima, in quello democratico, poi. E penso vada applicato sempre quando il tempo che separa dagli eventi è molto ampio e si pensa di portare in carcere una persona per educarla verso un reinserimento sociale, quando questa è già da tempo positivamente reinserita. Vedo annidarsi in questi casi il rischio del diritto vendicativo, non ristorativo.Nella vicenda poi delle sentenze emesse in virtù di leggi e prassi d’emergenza queste considerazioni hanno un sapore ancora più delineato per vari motivi: perché gli stessi reati hanno una dimensione fortemente contestualizzata che non ne diminuisce la gravità, ma certamente porta a escludere la volontà soggettiva di reiterarli; perché l’estensione della responsabilità morale per azioni materialmente non commesse è stata pratica diffusa in quei processi e il fatto stesso che nel suo caso si parli oggi con scioltezza di quattro omicidi, di cui «almeno di due direttamente responsabile» (leggo da un quotidiano) conferma questo dato; perché l’automatismo nell’applicazione delle aggravanti praticato in quei processi ha portato a pene sempre allineate sui massimi edittali, senza alcuna considerazione di circostanze soggettive o incidentali. Ha portato a un numero incredibile di ergastoli.E qui si annida l’ulteriore elemento di forte perplessità su questa decisione e di mia totale dissonanza con coloro che plaudono a essa. L’ergastolo è una pena di connotazione giuridica, sociale e personale diversa da quella delle pene detentive, quantunque lunghissime. È un residuo di «pena capitale», nel senso che priva il condannato di una qualunque soggettività e presenza nella società civile; lo sottrae per sempre a essa. Tant’è che l’ergastolo non ha riduzioni possibili, deve essere «commutato» in una pena temporanea, proprio perché ha una connotazione che è altra da essa. Già la sua persistenza nel nostro codice penale – al contrario di quello di altri paesi – dovrebbe trovare maggiore riflessione e, in passato, la sinistra o, meglio, lo schieramento progressista, si era fatto carico di presentare proposte per la sua abolizione. Nel 1992 addirittura il Parlamento approvò una mozione in tal senso. In Brasile tale pena non esiste: è stata abolita.È giusto che un paese che ha ritenuto di abolire una pena perché contraria ai valori di civiltà giuridica e di umanità in cui esso si riconosce autorizzi l’estradizione di una persona per scontare proprio tale pena in un altro paese, l’Italia, dove essa ancora esiste? Quale senso di giustizia può guidare le autorità brasiliane in tale direzione? Mi auguro che una presidenza come quella di Lula non voglia farsi guidare su temi così attinenti all’etica dell’agire politico da ragioni di mera opportunità diplomatica o commerciale.
Mauro Palma
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